Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta malatesta. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta malatesta. Mostra tutti i post

domenica 8 gennaio 2012

Anarchia e violenza – Errico Malatesta


Anarchia vuol dire non-violenza, non-dominio dell’uo­mo sull’uomo, non-imposizione per forza della volontà di uno o di più su quella di altri.
È solo mediante l’armonizzazione degli interessi, me­diante la cooperazione volontaria, con l’amore, il rispetto, la reciproca tolleranza, è solo colla persuasione, l’esempio, il contagio e il vantaggio mutuo della benevolenza che può e deve trionfare l’anarchia, cioè una società di fratelli libe­ramente solidali, che assicuri a tutti la massima libertà, il massimo sviluppo, il massimo benessere possibili.
Vi sono certamente altri uomini, altri partiti, altre scuo­le tanto sinceramente devoti al bene generale quanto pos­sono esserlo i migliori tra noi. Ma ciò che distingue gli anar­chici da tutti gli altri è appunto l’orrore della violenza, il desiderio e il proposito di eliminare la violenza, cioè la for­za materiale, dalle competenze tra gli uomini.
Si potrebbe dire perciò che l’idea specifica che distingue gli anarchici è l’abolizione del gendarme, l’esclusione dai fattori sociali della regola imposta mediante la forza, bru­tale, legale o illegale che sia.
Ma allora, si potrà domandare, perché nella lotta attua­le, contro le istituzioni politico-sociali, che giudicano op­pressive, gli anarchici hanno predicato e praticato, e predi­cano e praticano, quando possono, l’uso dei mezzi violenti che pur sono in evidente contraddizione coi fini loro? E questo al punto che, in certi momenti, molti avversari in buona fede han creduto, e tutti quelli in mala fede. han fin­to di credere, che il carattere specifico dell’anarchismo fos­se proprio la violenza?
La domanda può sembrare imbarazzante, ma vi si può rispondere in poche parole. Gli è che perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano la pace; ché se uno dei due si ostina a volere colla forza obbligare l’altro a la­vorare per lui e a servirlo, l’altro se vuoI conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace e il buon accordo. sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi ade­guati.
L’origine prima dei mali che han travagliato e travaglia­no l’umanità, a parte s’intende quelli che dipendono dalle forze avverse della natura, è il fatto che gli uomini non han compreso che l’accordo e la cooperazione fraterna sarebbe stato il mezzo migliore per assicurare a tutti il massimo be­ne possibile, e i più forti e i più furbi han voluto sottomet­tere e sfruttare gli altri, e quando sono riusciti, a conqui­stare una posizione vantaggiosa han voluto assicurarsene e perpetuarne il possesso creando in loro difesa ogni specie di organi permanenti di coercizione.
Da ciò è venuto che tutta la storia è piena di lotte cruen­ti: prepotenze, ingiustizie, oppressioni feroci da una parte, ribellioni dall’altra.
Non v’è da fare distinzioni di partiti: chiunque ha voluto emanciparsi, o tentare di emanciparsi, ha dovuto opporre la forza alla forza, le armi alle armi.
Però ciascuno, mentre ha trovato necessario e giusto adoperare la forza per difendere la propria libertà, i propri interessi, la propria classe, il proprio paese, ha poi, in no­me di una morale sua speciale, condannata la violenza quando questa si rivolgeva contro di lui per la libertà, per gli interessi, per la classe, per il paese degli altri.
Così quegli stessi che, per esempio qui in Italia, glorifi­cano a giusta ragione le guerre per l’indipendenza ed eri­gono marmi e bronzi in onore di Agesilao Milano, di Felice Orsini, di Guglielmo Oberdan e quelli che hanno sciolto in­ni appassionati a Sofia Perovskaja e altri martiri di paesi lontani, han poi trattati da delinquenti gli anarchici quan­do questi sono sorti a reclamare la libertà integrale e la giu­stizia uguale per tutti gli esseri umani e hanno francamen­te dichiarato che, oggi come ieri, fino a quando l’oppres­sione e il privilegio saran difesi dalla forza bruta delle baio­nette, l’insurrezione popolare, la rivolta dell’individuo e del­la massa, resta il mezzo necessario per conseguire l’eman­cipazione.
Ricordo che in occasione di un clamoroso attentato anarchico, uno che figurava allora nelle prime file del par­tito socialista e tornava fresco fresco dalla guerra turco-gre­ca, gridava forte, con l’approvazione dei suoi compagni, che la vita umana ~ sacra sempre e che non bisogna al tentarvi nemmeno per la causa della libertà. Pare che facesse ecce­zione la vita dei turchi e la causa dell’indipendenza greca.
Illogicità, o ipocrisia?
Eppure la violenza anarchica è la sola che sia giustifica­bile, la sola che non sia criminale.
Parlo naturalmente della violenza che ha davvero i carat­teri anarchici, e non di questo o quel fatto di violenza cieca e irragionevole che è stato attribuito agli anarchici, o che magari è stato commesso da veri anarchici spinti al furore da infami persecuzioni, o accecati, per eccesso di sensibi­lità non temperato dalla ragione, dallo spettacolo delle in­giustizie sociali, dal dolore per il dolore altrui.
La vera violenza anarchica è quella che cessa dove cessa la necessità della difesa e della liberazione. Essa è tempe­rata dalla coscienza che gl’individui presi isolatamente so­no poco o punto responsabili della posizione che ha fatto loro l’eredità e l’ambiente; essa non è ispirata dall’odio ma dall’amore; ed è santa perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione del proprio dominio a quello degli altri,
Vi è stato in Italia un partito che, con fini di alta civiltà. si è adoperato a spegnere nelle masse ogni fiducia nella vio­lenza.., ed è riuscito a renderle incapaci a ogni resistenza quando è venuto il fascismo, Mi è parso che lo stesso Tura­ti ha più o meno chiaramente riconosciuto e lamentato il fatto nel suo discorso di Parigi per la commemorazione di Jaurès.
Gli anarchici non hanno ipocrisia. La forza bisogna respingerla colla forza: oggi contro le oppressioni di oggi; domani contro le oppressioni che potrebbero tentare di so­stituirsi a quelle di oggi.
Noi vogliamo la libertà per tutti, per noi e per i nostri amici come per i nostri avversari e nemici. Libertà di pen­sare e di propagare il proprio pensiero, libertà di lavorare e di organizzare la propria vita nel modo che piace; non li­bertà, s’intende — e si prega i comunisti di non equivocare — non libertà di sopprimere la libertà e di sfruttare il lavoro degli altri.
Errico Malatesta

giovedì 5 gennaio 2012

I due Socialismi di Errico Malatesta

DA FINIMONDO

Il Reprobo [Giovanni Gavilli]
 
Quando un individualista prende la parola in pubblico per confutare la vecchia maniera d’intendere l’anarchismo e i suoi mezzi di lotta, i comunisti arricciano il naso, fan boccacce e, scrollando la testa, mormorano per lo più: «che imbecille!».
Codesta loro irritazione non mi offende; la credo naturalissima; le persone religiose — non importa se adoratrici d’iddio e dell’umanità o dell’onestà — si sentono maledettamente urtare nel loro apparato mentale, nei loro sentimenti, nella loro fede dalle miscredenze, delle intollerabili verità messe in mostra dagli anarchici, nemici d’ogni mezzo termine, di ogni superstizione, di ogni schiavistica rinunzia. E quando, non sapendo con chi hanno a che fare, i comunisti s’impegnano in una discussione delle loro idealità e dei loro metodi, spesso se ne ritraggono sdegnosi, fingendosi offesi dalla sincerità dei loro avversari. E nemmeno questo loro contegno mi sdegna o mi offende; la fuga è fuga e qualche volta il migliore dei ripieghi per colui che, messo a tu per tu con la realtà, si sente costretto a confessarsene vinto. Concediamo qualche cosa — ed io concedo moltissimo — all’amor proprio, quantunque ormai la critica lo abbia dimostrato un vecchio pregiudizio.
Ecco perché prendo oggi la penna per dire qualche cosa dei due socialismi d’Errico Malatesta, nati dalla superficialità della vecchia maniera di considerare la vita e la lotta dagli anarchici di quarant’anni or sono, e che perciò rimangono una errata concezione dei comunisti alla quale la critica sana ascrive la tumultuaria confusionaria estrinsecazione che essi ne fanno nei loro scritti e nelle loro conferenze.
Dichiaro subito che io non ho intenzione d’offendere chicchessia, neanche se talvolta la forma del mio dire potesse a qualcuno sembrare ingiuriosa; una parola non è mal detta se non è mal presa: un po’ di buona volontà dall’una parte e dall’altra, e riusciremo a svolgere un piano e simpatico dibattito da cui non può venire che bene per la propaganda dell’anarchismo moderno.
Qualcuno si duole che noi, scrivendo, diamo troppo peso alle parole. E il Malatesta, in particolare, lo ha scritto e detto più volte: «... fra gli individualisti e i comunisti, si fa più un gioco di parole che di vere differenze; ma le parole non contan nulla».
Secondo me la confusione nella nostra propaganda deve attribuirsi appunto, più che ad altri, a coloro che delle parole non tengono il dovuto conto, dimenticando che dietro ad ogni parola v’è una idea, un segno, un luogo, una persona; e che per essere bene intesi, occorre dir sempre pane al pane e non altrimenti.
Per esempio: domandate ad un comunista, a un socialista o ad un prete: che cos’è la società? I più vi rispondono: la moltitudine dei viventi sul pianeta terra. Ma io osservo: la moltitudine che popola la terra si chiama umanità. Le società sono gli aggruppamenti consigliati od imposti dalla politica, viventi con norme imposte od accettate — regole, patti, leggi, costumanze —. Ma la società, della quale così spesso ragionano il sociologo, il legislatore e il filosofo, è secondo me l’insieme degli istituti che regolano i rapporti di convivenza, di sentimento, di traffico, di commercio o di contegno tra individuo e individuo, tra individuo e moltitudine; tra moltitudini e moltitudini, alle quali sovrasta tirannicamente lo Stato. E gli istituti sociali che regolano codesti rapporti, sono appunto Iddio e lo Stato, l’autorità e la morale, il diritto e il dovere. Sono questi i cosiddetti «istituti sociali» dei quali, e non d’altro, è composta la società. E quando il prete arde vivo Giordano Bruno; e quando gli armigeri della legge fucilano in piazza il popolo o lo macellano sui campi di battaglia, essi difendono la «società», e cioè l’insieme degli istituti sociali che ho di sopra descritti.
Vi hanno rubato l’orologio o il mantello; avete gridato al ladro; i poliziotti sono intervenuti e hanno ghermito il vostro spogliatore: ma — ahimè! — egli non ha più con sé l’oggetto rubato. La legge punisce di prigione quell’uomo, ma non ricompra a voi l’oggetto che vi fu involato. Perché? — Perché la legge e il poliziotto difendono la «società», ossia il rispetto dovuto agli istituti sociali. Presso tutti i popoli Iddio, lo Stato, l’autorità, la legge, la morale, il diritto, il dovere variano nelle loro estrinsecazioni esteriori, ma non nel loro contenuto; questo è sempre uno, immutabile, terribile: mantenere nell’inganno e nell’ignoranza, nella superstizione e nella miseria la folla innumere che lavora e combatte per gli altri e mai per sé. I furbi custodi della società — preti e padroni — non saprebbero né potrebbero fare a meno di quella ignoranza, di quella superstizione, di quella miseria; nessuno li servirebbe più o presterebbe ciecamente l’opera propria alla «società», se conoscesse bene se stesso e le cose sue. Chi sa che Dio è il gendarme celeste, il fantastico benefattore dell’uomo; che l’autorità è il riconosciuto privilegio venerato dalle moltitudini nei loro signori, privilegio secondo il quale costoro possono ed anzi devono disporre della libertà e della vita stessa dei loro contemporanei che docilmente devono servirli, rispettarli, temerli; chi comprende che tutti gli istituti sociali hanno per obiettivo immutabile la miseria, l’oppressione dei molti, il gaudio e la libertà di pochi dominatori, diviene — magari senza accorgersene — giurato nemico della «società», e mai socialista.
Il socialismo è quella dottrina che vuole o dice di volere la profonda riforma di tutti gli istituti sociali o — come più brevemente suol dirsi, della «società». In fondo in fondo, un buon socialista lavora a fabbricarsi un dio più giusto, uno Stato più civile, un governo meno ladro, una patria meno matrigna, un padrone meno ingordo, un’autorità meno tirannica; e non si accorge che qualunque sia il nome di codesti istituti sociali, in qualunque modo riformati o corretti, la funzione loro sarà sempre la stessa: l’asservimento delle moltitudini ignoranti e cenciose ai gaudenti vagabondi depositari o custodi della «società». Se alle moltitudini daremo la vera istruzione, e magari il vagheggiato benessere materiale che i socialisti vanamente sperano dal socialismo, esse diventeranno immediatamente nemiche di tutti gli istituti sociali, e quindi anarchiche, o aspiranti alla libertà senza limiti. Dove non è monarchia non vi sono monarchici; dove non è repubblica non vi sono repubblicani; dove non è «società» non v’è socialismo, ma l’anarchia o la libertà per tutti. Se io non m’inganno non vi può essere che un socialismo, quello dei socialisti autoritaristi, giacché l’autorità è mezzo e fondamento della società.
Malatesta, invece, scorge due socialismi: un socialismo falso — quello predicato da Marx e da tanti altri; — e un socialismo, vero, il socialismo anarchico — quello predicato da lui e da pochi altri.
Io, per me, ritengo errato e fonte di confusione codesto modo di considerare il socialismo; il socialista ammette e riconosce la necessità indistruttibile della società o degl’istituti sociali, epperò si sforza di migliorarli, con grande soddisfazione dei dominatori, i quali scorgono nel lavorio e nella fede di lui il mezzo e il modo di consolidare, per secoli, ancora il loro proprio dominio. L’anarchico ha dai pensatori più eccelsi e dall’esperienza sua propria imparato che, per vivere liberi, per non mangiarsi più l’uno coll’altro, per far tabula rasa della miseria e dell’ignoranza, e persino per diminuire od attenuare i malanni materiali, è necessario demolire la società. Forse qualcuno dei miei lettori sorride, e fra sé e sé conclude: «dunque ammazziamo tutta l’umanità, e la società sarà finita!...».
No, caro mio, la società, giova ripeterlo, non è l’umanità; e per demolirla è forse più necessario il libro che la bomba, quantunque la tremenda necessità della lotta costringa i ribelli ad opporre violenza a violenza.
Figuratevi che un medico scopra il modo e i mezzi di fare sparire tutte le malattie... — medici e preti, becchini e farmacisti protestano compromessi i loro interessi, al solo supporre una tale birbonata che li ridurrebbe alla fame — che cosa resterebbe? — La salute, e quindi sarebbe una demolizione desiderabilissima. Demolite, nella mente della gente, il valore fantastico degl’istituti sociali, dimostrandoli e provandoli, per natura loro, nemici della libertà, strumenti di schiavitù e d’infamia, e ditemi poi che cosa resta? La libertà per tutti, che è l’anarchia e non il socialismo.
Che cosa dunque intende dire Errico Malatesta allorché grida che importa ricostruire man mano che si demolisce? Se voi spezzerete le vostre catene, non sarete poi tanto bestie di dare mano a rifucinarle, per voi o per gli altri.
In conclusione: il socialismo sta all’anarchia come la religione cattolica apostolica romana sta all’ateismo. L’ateo deista è una proposizione assurda; l’ateo nega dio, e il deista lo adora; ed assurdo del pari è, secondo me, il dirsi socialista anarchico, giacché il socialista ammette la «società» e lavora a migliorarla perché spera di poterlo fare con continue riforme; l’anarchico vede nella società, o — se più vi piace negl’istituti sociali — la fonte perenne d’ogni schiavitù, d’ogni delitto e lavora a demolirli nella vita e nella lotta colla predicazione e coll’esempio.
Potrò ingannarmi; ma i due Socialismi d’Errico Malatesta sono un suo falso modo di considerare e d’intendere il socialismo e l’anarchia. Se io m’inganno, spero che Malatesta vorrà darmi lumi che valgano a rimettermi sulla buona via.
 
 
[Gli Scamiciati, anno I, n. 17, 28 novembre 1913]

venerdì 21 ottobre 2011

E. Malatesta, Comunismo e individualismo (1926)



da LaMalatesta

Errico Malatesta

Comunismo e individualismo

Pubblicato in « Pensiero e volontà », 1 aprile 1926, sotto il titolo: Comunismo e individualismo (Commento all'articolo di M. Nettlau).
 


Nettlau suppone che la ragione, o almeno una delle ragioni per cui l'anarchismo, dopo tanti anni di propaganda, di lotta, di sacrifizi, non è ancora riuscito a attirare e sollevare le grandi masse sta nel fatto che gli anarchici delle due scuole, comunisti e individualisti, hanno presentato ciascuno la sua teoria economica come unica soluzione del problema sociale, e non sono perciò riusciti a persuadere la gente della realizzabilità delle loro idee.
Io credo in verità che la ragione essenziale del nostro scarso successo sia il fatto generale che nell'ambiente attuale, cioè date le condizioni materiali e morali in cui si trova la massa dei lavoratori e di quelli che pur non essendo lavoratori produttivi sono vittime lo stesso dell'attuale organizzazione sociale, la nostra propaganda non può avere che una portata limitata, la quale si riduce a poco o nulla in certe regioni più disgraziate ed in certi strati della popolazione più tormentati dalla miseria fisica e morale. E credo che solamente a misura che l'ambiente cambia e ci diventa favorevole (il che può specialmente avvenire nei periodi rivoluzionari e per il nostro impulso) le nostre idee possono conquistare un numero sempre più grande di aderenti ed una crescente possibilità di realizzazione. La divisione tra comunisti e individualisti c'entra per poco, poiché essa realmente interessa solo quelli che già sono anarchici e quella piccola minoranza che è in condizione di poterlo diventare.
Ma con tutto ciò resta vero che le polemiche tra individualisti e comunisti hanno spesso assorbito gran parte delle nostre energie, hanno impedito, anche quando era possibile, una franca e fraterna collaborazione fra tutti gli anarchici ed hanno tenuti lontani da noi molti che se ci avessero veduti tutti uniti sarebbero stati attirati dalla nostra passione per la libertà. E quindi Nettlau fa bene quando predica la concordia, dimostrando che per esservi veramente libertà, cioè anarchia, bisogna che vi sia possibilità di scelta e che ciascuno possa accomodare come crede la propria vita, abbracciando la soluzione comunista o quella individualista, o un qualunque grado o una qualunque miscela di comunismo e di individualismo.
Però Nettlau si sbaglia, secondo me, quando crede che il contrasto tra gli anarchici che si dicono comunisti e quelli che si dicono individualisti si basi realmente sull'idea che ciascuno si fa della vita economica (produzione e distribuzione dei prodotti) in una società anarchica. Queste, dopotutto, sono questioni che riguardano l'avvenire lontano; e se è vero che l'ideale, la mèta ultima, è il faro che guida, o dovrebbe guidare, la condotta degli uomini, è anche più vero che ciò che determina più di tutto l'accordo o il disaccordo non è quello che si pensa di fare domani, ma quello che si fa e si vuol fare oggi. In generale, ci si intende meglio, e si ha più interesse a intendersi con quelli che percorrono la stessa via nostra pur volendo andare in un sito diverso, anziché con quelli che pur dicendo di voler andare dove vogliamo andar noi, si mettono per una strada opposta! Così è avvenuto che anarchici delle varie tendenze, malgrado che in fondo volessero tutti la stessa cosa, si son trovati, nella pratica della vita e della propaganda, in fiera opposizione.
Ammesso il principio basilare dell'anarchismo e cioè che nessuno dovrebbe avere la voglia e la possibilità di ridurre gli altri in soggezione e costringerli a lavorare per lui, è chiaro che rientrano nell'anarchismo tutti, e solamente, quei modi di vita che rispettano la libertà e riconoscono in ciascuno l'eguale diritto a godere dei beni naturali e dei prodotti della propria attività.
È pacifico tra gli anarchici che l'essere concreto, reale, l'essere che ha coscienza e sente, e gode e soffre è l'individuo, e che la Società, lungi dall'essere qualche cosa di superiore di cui l'individuo è lo strumento e lo schiavo, non deve essere che l'unione di uomini associati per il maggior bene di ciascuno. E da questo punto di vista si potrebbe dire che siamo tutti individualisti.
Ma per essere anarchici non basta volere l'emancipazione del proprio individuo, ma bisogna volere l'emancipazione di tutti; non basta ribellarsi all'oppressione, ma bisogna rifiutarsi ad essere oppressori; bisogna comprendere i vincoli di solidarietà, naturale o voluta, che legano gli uomini tra di loro, bisogna amare i propri simili, soffrire dei mali altrui, non sentirsi felici se si sa che altri sono infelici. E questa non e questione di assetti economici: è questione di sentimenti, o, come si dice teoricamente, questione di etica.
Dati tali principi e tali sentimenti, comuni, malgrado il diverso linguaggio, a tutti gli anarchici, si tratta di trovare ai problemi pratici della vita le soluzioni che meglio rispettano la libertà e meglio soddisfano i sentimenti di amore e di solidarietà.
Quegli anarchici che si dicono comunisti (ed io mi metto tra essi) sono tali non perché vogliano imporre il loro speciale modo di vedere o credano che fuori di esso non vi sia salvezza, ma perché sono convinti, fino a prova in contrario, che più gli uomini sono affratellati e più intima è la cooperazione dei loro sforzi a favore di tutti gli associati, più grande è il benessere e la libertà di cui ciascuno può godere. L'uomo, essi pensano, se anche è liberato dall'oppressione dell'uomo, resta sempre esposto alle forze ostili della natura, ch'egli non può vincere da solo, ma può col concorso degli altri uomini dominare e trasformare in mezzi del proprio benessere. Un uomo che volesse provvedere ai suoi bisogni materiali lavorando da solo, sarebbe lo schiavo del suo lavoro. Un contadino, per esempio, che volesse coltivare da solo il suo pezzo di terra, rinuncerebbe a tutti i vantaggi della cooperazione e si condannerebbe ad una vita miserabile: non potrebbe concedersi periodi di riposo, viaggi, studi, contatti colla vita molteplice dei vasti aggruppamenti umani . . . e non riuscirebbe sempre a sfamarsi.
È grottesco pensare che degli anarchici, per quanto si dicano e siano comunisti, vogliano vivere come in un convento, sottoposti alla regola comune, al pasto ed al vestito uniformi, ecc.; ma sarebbe egualmente assurdo il pensare ch'essi vogliano fare quello che loro piace senza tener conto dei bisogni degli altri, del diritto di tutti ad una eguale libertà. Tutti sanno che Kropotkin, per esempio, il quale fu tra gli anarchici uno dei più appassionati ed il più eloquente propagatore della concezione comunista, fu nello stesso tempo grande apostolo dell'indipendenza individuale e voleva con passione che tutti potessero sviluppare e soddisfare liberamente i loro gusti artistici, dedicarsi alle ricerche scientifiche, unire armoniosamente il lavoro manuale a quello intellettuale per diventare uomini nel senso più elevato della parola.
Di più, i comunisti (anarchici, s'intende) credono che a causa delle differenze naturali di fertilità, salubrità e posizione del suolo, sarebbe impossibile assicurare individualmente a ciascuno eguali condizioni di lavoro e realizzare, se non la solidarietà, almeno la giustizia. Ma nello stesso tempo essi si rendono conto delle immense difficoltà per praticare, prima di un lungo periodo di libera evoluzione, quel volontario comunismo universale che essi considerano quale l'ideale supremo dell'umanità emancipata ed affratellata. Ed arrivano quindi ad una conclusione che potrebbe esprimersi colla formula: Quanto più comunismo è possibile per realizzare il più possibile di individualismo, vale a dire il massimo di solidarietà per godere il massimo di libertà.
D'altra parte gl'individualisti (parlo, s'intende, sempre degli anarchici) per reazione contro il comunismo autoritario - che è stato nella storia la prima concezione che si è presentata alla mente umana di una forma di società razionale e giusta e che ha influenzato più o meno tutte le utopie e tutti i tentativi di realizzazione - per reazione, dico, contro il comunismo autoritario che in nome dell'eguaglianza inceppa e quasi distrugge la personalità umana, hanno dato la maggiore importanza al concetto astratto di libertà e non si sono accorti o non vi hanno insistito, che la libertà concreta, la libertà reale è condizionata dalla solidarietà, dalla fratellanza e dalla cooperazione volontaria. Sarebbe nullameno ingiusto il pensare che essi vogliano privarsi dei benefizi della cooperazione e condannarsi ad un impossibile isolamento. Essi comprendono certamente che il lavoro isolato è impotente e che l'uomo, per assicurarsi una vita umana e godere materialmente e moralmente di tutte le conquiste della civiltà, o deve sfruttare direttamente o indirettamente il lavoro altrui e prosperare sulla miseria dei lavoratori, o associarsi coi suoi simili e dividere con essi i pesi e le gioie della vita. E siccome essendo anarchici non possono ammettere lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, debbono necessariamente convenire che per esser liberi e vivere da uomini bisogna accettare un grado ed una forma qualsiasi di comunismo volontario.
Sul terreno economico, dunque, che è quello che apparentemente divide gli anarchici in comunisti e individualisti, la conciliazione sarebbe presto fatta, lottando insieme per conquistare delle condizioni di vera libertà e lasciando poi che l'esperienza risolvesse i problemi pratici della vita. E allora, le discussioni, gli studi, le ipotesi, i tentativi possibili oggi e perfino i contrasti fra le varie tendenze sarebbero tutte cose utili per preparare noi stessi ai nostri compiti futuri.
Ma perché dunque, se davvero sulla questione economica le differenze sono più apparenti che reali e sono in ogni modo facilmente superabili, perché quest'eterno dissidio, questa ostilità che qualche volta diventa vera inimicizia tra uomini che, come dice Nettlau, sono tanto vicini e sono tutti animati dalle stesse passioni e dagli stessi ideali?
Gli è che, come ho detto, la differenza tra i progetti e le ipotesi sulla futura organizzazione economica della società auspicata non è la ragione vera della persistente divisione, la quale invece è creata e mantenuta da più importanti, e soprattutto più attuali, dissensi morali e politici.
Non parlerò di quelli che si dicono individualisti anarchici, e poi manifestano istinti ferocemente borghesi, proclamando il loro disprezzo per l'umanità, la loro insensibilità pei dolori altrui e la loro voglia di dominio. Né parlerò di quelli che si dicono comunisti anarchici, e poi in fondo sono degli autoritari che credono di possedere la verità assoluta e si attribuiscono il diritto di imporla agli altri.
Comunisti ed individualisti hanno spesso avuto il torto di accogliere e riconoscere come compagni alcuni che non hanno di comune con loro che qualche espressione verbale e qualche apparenza esteriore.
Io intendo parlare di quelli che considero veri anarchici. Questi sono divisi sopra molti punti d'importanza reale e attuale, e si classificano comunisti o individualisti, generalmente per tradizione, senza che le cose che realmente li dividono abbiano nulla da fare colle questioni riguardanti la società futura.
Tra gli anarchici vi sono i rivoluzionari, i quali credono che bisogna colla forza abbattere la forza che mantiene l'ordine presente per creare un ambiente in cui sia possibile la libera evoluzione degl'individui e delle collettività - e vi sono gli educazionisti i quali pensano che si possa arrivare alla trasformazione sociale solamente trasformando prima gl'individui per mezzo dell'educazione e della propaganda. Vi sono i partigiani della non-resistenza, o della resistenza passiva che rifuggono dalla violenza anche quando serva a respingere la violenza, e vi sono quelli che ammettono la necessità della violenza, i quali sono poi a loro volta divisi in quanto alla natura, alla portata ed ai limiti della violenza lecita. Vi sono dissensi riguardanti l'attitudine degli anarchici di fronte al movimento sindacale; dissensi sull'organizzazione, o non organizzazione, propria degli anarchici; dissensi permanenti, o occasionali, sui rapporti tra gli anarchici e gli altri partiti sovversivi.
È su queste ed altre questioni del genere che bisogna cercare d'intenderci; o se, come pare, l'intesa non è possibile, bisogna sapersi tollerare: lavorare insieme quando si è d'accordo, e quando no, lasciare che ognuno faccia come crede senza ostacolarsi l'un l'altro.
Poiché, tutto ben considerato, nessuno può essere assolutamente sicuro di aver ragione, e nessuno ha sempre ragione

martedì 2 agosto 2011

Repubblica e rivoluzione


 

da finimondo.org

Errico Malatesta
 
 
Il nostro dichiarato proposito di prender parte a qualunque movimento rivoluzionario mirante alla conquista di maggiore libertà e maggiore giustizia, nonché le recenti affermazìoni di qualche nostro compagno, che forse nella redazione frettolosa di articoli di giornale è andato oltre il suo pensiero reale, han fatto credere a qualcuno, ignaro delle nostre idee, che noi accetteremmo, sia pure provvisoriamente, una repubblica, decorata per l'occasione degli aggettivi sociale e federativa.
Non parrebbe necessario spendere molte parole sulla questione, visto che gli anarchici non hanno mai lasciato luogo ad equivoci nei loro rapporti coi repubblicani. Nullameno è bene ritornare sull'argomento, poiché il pericolo della confusione è sempre grande quando dalla propaganda si vuol passare all'azione e quindi bisogna coordinare l'opera propria con quella delle altre forze che prendono parte alla lotta. Ed è cosa certamente molto difficile il ben distinguere in pratica dove finisce la cooperazione utile nella lotta contro il nemico comune e dove comincerebbe una fusione che menerebbe il partito più debole alla rinunzia ai suoi scopi specifici.
 
È urgente intendersi su questa questione della repubblica, perché repubblicano sarà molto probabilmente il regime che verrà fuori dal movimento risolutivo verso cui più o meno rapidamente si avvia l'Italia; ed a noi pare che se alla repubblica facessimo adesione tradiremmo non solo i nostri scopi di anarchici, ma gli stessi ideali libertari ed ugualitari che per mezzo della repubblica intende raggiungere la parte migliore dei lavoratori repubblicani e di quei giovani che, pur ritrovandosi in condizione privilegiata, sono animati da un bisogno di giustizia che coi lavoratori li rende solidali.
Dicevamo che il regime che sostituirà in Italia le istituzioni vigenti sarà probabilmente la repubblica. Infatti, quale modo di convivenza politica potrebbe immediatamente sostituire le istituzioni che ci han dato il fascismo e che col fascismo hanno oramai legata la propria sorte? Non vogliamo fare i profeti e prevedere quanto tempo ancora durerà il dominio fascista, tanto più che temiamo che il desiderio ci renda troppo ottimisti; ma insomma ci sarà permesso di credere che l'Italia non si lascerà ricacciare sempre più indietro verso la barbarie medioevale e che un giorno o l'altro saprà scuotere il giogo che le si aggrava sul collo. Ma dopo? 
La gente non si muove se non per qualche cosa immediatamente realizzabile, ed in fondo ha ragione perché non si vive di sole negazioni e se non si ha niente di nuovo da stabilire si ritorna fatalmente all'antico.
Un ritorno alle condizioni dell'anteguerra e dell'antefascismo non ci pare possibile, e certamente sarebbe una jattura che dovremmo fare il possibile per evitare.
L'anarchia non è compresa ancora dalla grande maggioranza, e non si può ragionevolmente sperare che la massa, tutta la massa, vorrà e saprà organizzare da se stessa la vita sociale, per libero accordo, senza attendere l'ordine dei capi e senza subire imposizioni di sorta. Abituato ad essere governato, il popolo, salvo le frazioni arrivate alla concezione anarchica, non abbatte un governo se non per sostituirvi un altro governo che spera migliore.
Escluso dunque, come indesiderabile, il ritorno all'ipocrisia monarchico-costituzionale, che ci porterebbe ad un nuovo fascismo quando monarchia e borghesia si vedessero di nuovo in imminente pericolo; esclusa l'Anarchia come inapplicabile immediatamente, non vediamo che o la dittatura cosiddetta comunista o la repubblica.
La dittatura comunista ci pare abbia poche probabilità di successo, neanche temporaneo, sia per lo scarso numero dei comunisti, sia per il loro spirito autoritario che mal riuscirebbe ad imporsi in un movimento che sarebbe soprattutto un'esplosione del bisogno di libertà, sia per le difficoltà pratiche che si oppongono all'attuazione del loro programma, sia per i cattivi risultati dell'esperimento russo che sta riportando quel paese verso il capitalismo ed il militarismo. 
Resta la Repubblica, la quale avrebbe l'adesione dei repubblicani propriamente detti, dei socialdemocratici, dei proletari ansiosi di cambiamento ma senza idee determinate sull'avvenire, ed anche quella della massa dei borghesi i quali s'affrettano sempre ad appoggiare quel qualsiasi governo di fatto che appaia capace di garantire «l'ordine», che per loro è poi niente altro che la sicurezza del loro privilegio economico.
Ma che cosa è la Repubblica?
 
I repubblicani, o quella parte di essi che desiderano sinceramente un cambiamento radicale delle istituzioni sociali e che perciò sono più vicini a noi, sembrano non comprendere che cosa sia la repubblica.
Essi dicono che la «loro» repubblica non è come le altre repubbliche esistite ed esistenti, che la «loro» repubblica sarà sociale e federativa, cioè esproprierà o almeno tasserà gravemente i capitalisti, darà la terra ai contadini, favorirà il passaggio degli strumenti di lavoro nelle mani delle associazioni operaie, rispetterà tutte le libertà, tutte le autonomie individuali, corporative e locali, ecc, ecc.
Ora questo è linguaggio anarchico o dittatoriale: anarchico se quelle belle cose si vogliono raggiungere per l'opera delle minoranze più evolute che, abbattendo il governo o resistendovi, le fanno dove e quando è possibile farle, cercando poi colla propaganda e coll'esempio di trascinare e di convincere la massa della popolazione; dittatoriale invece se s'intende impossessarsi del potere con un colpo di forza ed imporre colla forza il proprio programma; ma non è certamente linguaggio repubblicano.
Repubblica è governo democratico, anzi è la sola vera democrazia, intesa nel senso di governo della maggioranza di popolo per mezzo dei suoi rappresentanti liberamente eletti. Quindi un repubblicano può dire quali sono i suoi desideri, quali i criteri che lo guiderebbero come elettore, quali le proposte ch'egli farebbe o approverebbe se venisse eletto a rappresentante; ma non può dire quale sarà la specie di repubblica che si darà il parlamento (o costituente che dir si voglia) chiamato a fare la nuova costituzione e le leggi che seguiranno. La repubblica resta repubblica anche se, governata da reazionari, non farà che consolidare e magari peggiorare i vecchi ordinamenti.
Non vi sarebbero più il re ed il senato di nomina regia, e sarebbe certamente un progresso. Ma progresso di poca importanza pratica perché oggigiorno la forza preponderante e determinante negli Stati è quella finanziaria ed il potere regio conta solo come strumento dei finanzieri, i quali sanno benissimo farne a meno senza che per questo diminuisca la loro malefica influenza. 
Del resto, quello che vogliono i repubblicani «sociali» è davvero l'abolizione del capitalismo, cioè del diritto e delle possibilità di prelevare un profitto sul lavoro altrui mediante il monopolio dei mezzi di lavoro? Ma allora, perché non escono dall'equivoco e non si dicono socialisti addirittura?
A noi pare che in realtà essi mirano a dei miglioramenti delle condizioni delle classi povere, ad un'attenuazione dello sfruttamento, ma vorrebbero lasciare illeso il diritto del proprietario a far lavorare altri per conto suo, e quindi lascerebbero aperta la via a tutti i mali che produce il diritto di proprietà capitalistica.
Ed a che cosa si riduce il loro federalismo? Ammettono essi il diritto delle regioni e dei comuni di uscire dalla federazione e scegliere da loro stessi gli aggruppamenti che loro convengono di più? Ammettono che un membro della federazione abbia il diritto di rifiutare ogni concorso militare o finanziario per le cose che non gli piacerebbero? Temiamo di no, perché ciò lascerebbe a base dell'unità nazionale la sola libera volontà dei federati al di fuori di ogni costrizione statale: cosa che non ci pare confacente alle tradizioni ed allo stato d'animo dei repubblicani.
In realtà non si tratterebbe che di una federazione forzata come quelle della Svizzera, dell'America, della Germania, che lasciano i federati sempre soggetti al potere centrale, e non si differenziano gran fatta dagli Stati unitari.
 
Ma allora, perché e come potremmo trovarci d'accordo coi repubblicani in un movimento qualsiasi?
Noi ci troveremo insieme coi repubblicani nel fatto rivoluzionario, come d'altra parte ci troveremmo d'accordo coi comunisti nell'espropriazione della borghesia, quando essi volessero farla rivoluzionariamente senza aspettare di aver costituito prima il loro Stato, la loro Dittatura; ma non per questo diventeremmo repubblicani o comunisti di Stato.
Bisogna ben distinguere il fatto rivoluzionario, che abbatte quanto più può del vecchio regime e vi sostituisce nuove istituzioni, dai governi che vengono dopo ad arrestare la rivoluzione ed a sopprimere il più che possono delle conquiste rivoluzionarie.
Tutta la storia c'insegna che tutti i progressi causati dalle rivoluzioni si sono ottenuti nel periodo dell'effervescenza popolare, quando o non esisteva ancora governo riconosciuto o il governo era troppo debole per mettersi apertamente contro la rivoluzione. Poi, a governo costituito, è cominciata sempre la reazione che ha servito l'interesse dei vecchi e dei nuovi privilegiati ed ha ritolto alle masse tutto quello che è stato possibile toglier loro.
Il nostro compito dunque è quello di fare o aiutare a fare la rivoluzione profittando di tutte le occasioni e di tutte le forze disponibili: spingere la rivoluzione il più avanti che sia possibile non solo nella distruzione, ma anche e soprattutto nella ricostruzione, e restare avversari di qualsiasi governo abbia a costituirsi, ignorandolo o combattendolo il più che ci sarà possibile.
Noi non riconosceremmo la Costituente repubblicana più di quello che riconosciamo il parlamento monarchico. Lasceremmo farla se il popolo la vuole; potremmo anche trovarci occasionalmente ai suoi fianchi nel combattere i tentativi di restaurazione; ma domanderemo, vorremo, esigeremo completa libertà per quelli che la pensano come noi di vivere fuori della tutela e dell'oppressione statale e di propagare le loro idee colla parola e coll'esempio.
Rivoluzionari, sì: ma soprattutto anarchici.
 
[Pensiero e Volontà, n. 11 del 1 giugno 1924]

Form di ricerca