DA FINIMONDO
Il Reprobo [Giovanni Gavilli]
Quando un individualista prende la parola in pubblico per confutare la vecchia maniera d’intendere l’anarchismo e i suoi mezzi di lotta, i comunisti arricciano il naso, fan boccacce e, scrollando la testa, mormorano per lo più: «che imbecille!».
Codesta loro irritazione non mi offende; la credo naturalissima; le persone religiose — non importa se adoratrici d’iddio e dell’umanità o dell’onestà — si sentono maledettamente urtare nel loro apparato mentale, nei loro sentimenti, nella loro fede dalle miscredenze, delle intollerabili verità messe in mostra dagli anarchici, nemici d’ogni mezzo termine, di ogni superstizione, di ogni schiavistica rinunzia. E quando, non sapendo con chi hanno a che fare, i comunisti s’impegnano in una discussione delle loro idealità e dei loro metodi, spesso se ne ritraggono sdegnosi, fingendosi offesi dalla sincerità dei loro avversari. E nemmeno questo loro contegno mi sdegna o mi offende; la fuga è fuga e qualche volta il migliore dei ripieghi per colui che, messo a tu per tu con la realtà, si sente costretto a confessarsene vinto. Concediamo qualche cosa — ed io concedo moltissimo — all’amor proprio, quantunque ormai la critica lo abbia dimostrato un vecchio pregiudizio.
Ecco perché prendo oggi la penna per dire qualche cosa dei due socialismi d’Errico Malatesta, nati dalla superficialità della vecchia maniera di considerare la vita e la lotta dagli anarchici di quarant’anni or sono, e che perciò rimangono una errata concezione dei comunisti alla quale la critica sana ascrive la tumultuaria confusionaria estrinsecazione che essi ne fanno nei loro scritti e nelle loro conferenze.
Dichiaro subito che io non ho intenzione d’offendere chicchessia, neanche se talvolta la forma del mio dire potesse a qualcuno sembrare ingiuriosa; una parola non è mal detta se non è mal presa: un po’ di buona volontà dall’una parte e dall’altra, e riusciremo a svolgere un piano e simpatico dibattito da cui non può venire che bene per la propaganda dell’anarchismo moderno.
Qualcuno si duole che noi, scrivendo, diamo troppo peso alle parole. E il Malatesta, in particolare, lo ha scritto e detto più volte: «... fra gli individualisti e i comunisti, si fa più un gioco di parole che di vere differenze; ma le parole non contan nulla».
Secondo me la confusione nella nostra propaganda deve attribuirsi appunto, più che ad altri, a coloro che delle parole non tengono il dovuto conto, dimenticando che dietro ad ogni parola v’è una idea, un segno, un luogo, una persona; e che per essere bene intesi, occorre dir sempre pane al pane e non altrimenti.
Per esempio: domandate ad un comunista, a un socialista o ad un prete: che cos’è la società? I più vi rispondono: la moltitudine dei viventi sul pianeta terra. Ma io osservo: la moltitudine che popola la terra si chiama umanità. Le società sono gli aggruppamenti consigliati od imposti dalla politica, viventi con norme imposte od accettate — regole, patti, leggi, costumanze —. Ma la società, della quale così spesso ragionano il sociologo, il legislatore e il filosofo, è secondo me l’insieme degli istituti che regolano i rapporti di convivenza, di sentimento, di traffico, di commercio o di contegno tra individuo e individuo, tra individuo e moltitudine; tra moltitudini e moltitudini, alle quali sovrasta tirannicamente lo Stato. E gli istituti sociali che regolano codesti rapporti, sono appunto Iddio e lo Stato, l’autorità e la morale, il diritto e il dovere. Sono questi i cosiddetti «istituti sociali» dei quali, e non d’altro, è composta la società. E quando il prete arde vivo Giordano Bruno; e quando gli armigeri della legge fucilano in piazza il popolo o lo macellano sui campi di battaglia, essi difendono la «società», e cioè l’insieme degli istituti sociali che ho di sopra descritti.
Vi hanno rubato l’orologio o il mantello; avete gridato al ladro; i poliziotti sono intervenuti e hanno ghermito il vostro spogliatore: ma — ahimè! — egli non ha più con sé l’oggetto rubato. La legge punisce di prigione quell’uomo, ma non ricompra a voi l’oggetto che vi fu involato. Perché? — Perché la legge e il poliziotto difendono la «società», ossia il rispetto dovuto agli istituti sociali. Presso tutti i popoli Iddio, lo Stato, l’autorità, la legge, la morale, il diritto, il dovere variano nelle loro estrinsecazioni esteriori, ma non nel loro contenuto; questo è sempre uno, immutabile, terribile: mantenere nell’inganno e nell’ignoranza, nella superstizione e nella miseria la folla innumere che lavora e combatte per gli altri e mai per sé. I furbi custodi della società — preti e padroni — non saprebbero né potrebbero fare a meno di quella ignoranza, di quella superstizione, di quella miseria; nessuno li servirebbe più o presterebbe ciecamente l’opera propria alla «società», se conoscesse bene se stesso e le cose sue. Chi sa che Dio è il gendarme celeste, il fantastico benefattore dell’uomo; che l’autorità è il riconosciuto privilegio venerato dalle moltitudini nei loro signori, privilegio secondo il quale costoro possono ed anzi devono disporre della libertà e della vita stessa dei loro contemporanei che docilmente devono servirli, rispettarli, temerli; chi comprende che tutti gli istituti sociali hanno per obiettivo immutabile la miseria, l’oppressione dei molti, il gaudio e la libertà di pochi dominatori, diviene — magari senza accorgersene — giurato nemico della «società», e mai socialista.
Il socialismo è quella dottrina che vuole o dice di volere la profonda riforma di tutti gli istituti sociali o — come più brevemente suol dirsi, della «società». In fondo in fondo, un buon socialista lavora a fabbricarsi un dio più giusto, uno Stato più civile, un governo meno ladro, una patria meno matrigna, un padrone meno ingordo, un’autorità meno tirannica; e non si accorge che qualunque sia il nome di codesti istituti sociali, in qualunque modo riformati o corretti, la funzione loro sarà sempre la stessa: l’asservimento delle moltitudini ignoranti e cenciose ai gaudenti vagabondi depositari o custodi della «società». Se alle moltitudini daremo la vera istruzione, e magari il vagheggiato benessere materiale che i socialisti vanamente sperano dal socialismo, esse diventeranno immediatamente nemiche di tutti gli istituti sociali, e quindi anarchiche, o aspiranti alla libertà senza limiti. Dove non è monarchia non vi sono monarchici; dove non è repubblica non vi sono repubblicani; dove non è «società» non v’è socialismo, ma l’anarchia o la libertà per tutti. Se io non m’inganno non vi può essere che un socialismo, quello dei socialisti autoritaristi, giacché l’autorità è mezzo e fondamento della società.
Malatesta, invece, scorge due socialismi: un socialismo falso — quello predicato da Marx e da tanti altri; — e un socialismo, vero, il socialismo anarchico — quello predicato da lui e da pochi altri.
Io, per me, ritengo errato e fonte di confusione codesto modo di considerare il socialismo; il socialista ammette e riconosce la necessità indistruttibile della società o degl’istituti sociali, epperò si sforza di migliorarli, con grande soddisfazione dei dominatori, i quali scorgono nel lavorio e nella fede di lui il mezzo e il modo di consolidare, per secoli, ancora il loro proprio dominio. L’anarchico ha dai pensatori più eccelsi e dall’esperienza sua propria imparato che, per vivere liberi, per non mangiarsi più l’uno coll’altro, per far tabula rasa della miseria e dell’ignoranza, e persino per diminuire od attenuare i malanni materiali, è necessario demolire la società. Forse qualcuno dei miei lettori sorride, e fra sé e sé conclude: «dunque ammazziamo tutta l’umanità, e la società sarà finita!...».
No, caro mio, la società, giova ripeterlo, non è l’umanità; e per demolirla è forse più necessario il libro che la bomba, quantunque la tremenda necessità della lotta costringa i ribelli ad opporre violenza a violenza.
Figuratevi che un medico scopra il modo e i mezzi di fare sparire tutte le malattie... — medici e preti, becchini e farmacisti protestano compromessi i loro interessi, al solo supporre una tale birbonata che li ridurrebbe alla fame — che cosa resterebbe? — La salute, e quindi sarebbe una demolizione desiderabilissima. Demolite, nella mente della gente, il valore fantastico degl’istituti sociali, dimostrandoli e provandoli, per natura loro, nemici della libertà, strumenti di schiavitù e d’infamia, e ditemi poi che cosa resta? La libertà per tutti, che è l’anarchia e non il socialismo.
Che cosa dunque intende dire Errico Malatesta allorché grida che importa ricostruire man mano che si demolisce? Se voi spezzerete le vostre catene, non sarete poi tanto bestie di dare mano a rifucinarle, per voi o per gli altri.
In conclusione: il socialismo sta all’anarchia come la religione cattolica apostolica romana sta all’ateismo. L’ateo deista è una proposizione assurda; l’ateo nega dio, e il deista lo adora; ed assurdo del pari è, secondo me, il dirsi socialista anarchico, giacché il socialista ammette la «società» e lavora a migliorarla perché spera di poterlo fare con continue riforme; l’anarchico vede nella società, o — se più vi piace negl’istituti sociali — la fonte perenne d’ogni schiavitù, d’ogni delitto e lavora a demolirli nella vita e nella lotta colla predicazione e coll’esempio.
Potrò ingannarmi; ma i due Socialismi d’Errico Malatesta sono un suo falso modo di considerare e d’intendere il socialismo e l’anarchia. Se io m’inganno, spero che Malatesta vorrà darmi lumi che valgano a rimettermi sulla buona via.
[Gli Scamiciati, anno I, n. 17, 28 novembre 1913]
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