da finimondo
L’idea ricorrente di un fronte unico di tutte le forze rivoluzionarie in lotta contro il fronte unico di tutti i poteri e di tutti gli interessi costituiti, trae le sue origini, per una parte dalla lusinga del numero, che è sempre uno degli elementi decisivi nell’evoluzione delle società, e per l’altra dalla credenza, assai più diffusa che esatta, che tutte le forze rivoluzionarie siano scaturite da un comune alveo nel seno della società in dissoluzione.
Per quel che riguarda il numero, in tempi normali la somma dei rivoluzionari coscienti e militanti è sempre una minoranza infima, come una minoranza infima è la somma dei reazionari consapevoli e attivi, perché le forme sociali in cui viviamo sono in tal modo costituite da scoraggiare, così presso le masse diseredate come presso le minoranze privilegiate l’indipendenza del giudizio, l’autonomia delle coscienze, la libertà di pensiero e di esperimento. Se non fosse pel potente ausilio che le minoranze consapevoli e militanti della reazione ricevono costantemente dal meccanismo delle istituzioni sociali, sviluppato attraverso i secoli in tal modo da organizzare a loro vantaggio le attività e i pensieri, l’ignoranza e la superstizione e persino l’inerzia delle moltitudini, esse potrebbero essere facilmente sbaragliate in men che non si dica dalle consapevoli minoranze rivoluzionarie. Ma finché codesto meccanismo di istituzioni sociali esiste e resta abbastanza prestigioso da riscuotere la devozione o anche la semplice indifferenza delle moltitudini umane, nessun fronte unico di minoranze rivoluzionarie riuscirà mai ad abbatterlo, sebbene possa con la critica illuminata sventarne le frodi e le menzogne e gli arbitri, sebbene possa con l’azione audace e risoluta metterne in evidenza le debolezze e l’intima viltà e, quindi, spianare la via alla più larga azione delle masse stesse.
Il numero sufficiente a fare ed a vincere la rivoluzione sociale non possono darlo i partiti e i movimenti rivoluzionari, né singolarmente né assommati. Lo può dare soltanto la moltitudine, la massa; e la massa lo dà non quando i partiti — uniti insieme o singolarmente — glielo chiedono, ma quando le circostanze politiche, economiche, morali — di cui i partiti e gli elementi rivoluzionari possono essere e sono fattori, ma di cui non sono mai fattori esclusivi — le sospingono sulla via della ribellione. Allora, e allora soltanto, si hanno vere rivoluzioni, quando il popolo cambia repentinamente le basi e le forme delle proprie istituzioni. I partiti, unitamente o separati, possono portare allora un contributo immenso allo sviluppo dell’azione rivoluzionaria delle masse. Disgraziatamente, però, l’azione dei partiti rivoluzionari della vigilia, quando la moltitudine si lancia nel vortice della rivoluzione, è generalmente impiegata a frenarne gli impeti, a raffreddarne gli entusiasmi, a trattenerla dagli “eccessi”, ad incuneare nel vero fronte unico sorto sulla piazza travolgente e temuta, l’insidia e il contrasto degli interessi delle superstizioni antiche e delle nuove.
Comunque, nessuna rivoluzione profonda si è mai svolta altrimenti. E così intendeva Malatesta la rivoluzione sociale quando scriveva che «La rivoluzione, per essere veramente emancipatrice, non deve essere l’opera particolare di una scuola o di un partito, ma deve essere opera delle masse, di quanta più massa è possibile».
Per quel che riguarda le origini, è per lo meno inesatto supporre che le varie scuole e tendenze preconizzanti la rivoluzione sociale provengano da una comune fonte iniziale. Alla causa rivoluzionaria si viene da classi e caste diverse, con temperamenti e preparazione differenti, per fini e con aspirazioni molte volte contrastanti. Tra Michele Bakunin discendente da famiglia aristocratica e feudale, aspirante per le vie della libertà, al trionfo di tutta la libertà e di tutta la giustizia; e il lavoratore discendente da infinite generazioni di sfruttati, aspirante, per le vie della disciplina rigorosa del partito, all’onnipotenza infallibile dello Stato “proletario”, non v’è che un effimero punto di contatto: l’episodio insurrezionale, che non è la rivoluzione, ma un attimo solo della rivoluzione, quello a cui confluiscono tutti i rivoli dalle più remote sorgenti del pensiero e dell’azione, del malcontento e della preparazione, della volontà e dell’audacia, e da cui si proiettano verso l’avvenire gli indirizzi e le forme dell’ordine nuovo. E ancora: l’episodio insurrezionale ha per l’uno e per l’altro un significato assai diverso. Mentre pel primo, l’anarchico, l’insurrezione, per riuscire veramente efficace, deve sprigionare dal seno della società la più grande somma possibile di energie, di volontà, di forze consapevoli, libere di realizzare fin dal primo momento la propria emancipazione economica, politica e morale; pel secondo, l’autoritario, l’insurrezione è una battaglia in cui l’esercito del partito rivoluzionario non deve impegnare che il minimo di forze strettamente necessarie a vincere l’esercito nemico, in modo calcolato e ordinato, sotto le direttive dello Stato maggiore del partito stesso, il quale considera esaurito il compito dell’insurrezione tosto che gli abbia assicurata l’eredità dei pubblici poteri.
Anche quell’unico punto di contatto è, quindi, molto relativo.
La Prima Internazionale, raccogliendo nel suo seno tutti coloro che dicevano di volere la rivoluzione sociale, ha tentato, nella seconda metà del secolo scorso, di realizzarne quello che oggi si direbbe il fronte unico, su larghe basi d’intesa. Ma in luogo di attenuare le divergenze e i contrasti, così di metodo come di dottrina, li ha esacerbati in tal modo che tutta la sua vita fu una accanita battaglia intestina, da cui emersero inconciliabilmente differenziate le due tendenze fondamentali della rivoluzione sociale: la tendenza autoritaria o socialista, e la tendenza libertaria o anarchica.
Nel mezzo secolo che seguì, il processo di differenziazione, tra l’infuriar delle polemiche e delle battaglie, si completò fino a dare vita a due diversi e, molto spesso avversi, partiti o movimenti, che le esperienze autoritarie compiute in vari paesi d’Europa dopo la guerra hanno ancor più allontanati.
Dopo quel ch’è avvenuto in Russia, dove i socialisti di sinistra hanno con arroganza dittatoriale fatto strame di una insurrezione trionfante; dopo quel ch’è avvenuto in Germania, dove i socialisti di destra hanno, col massacro dei rivoluzionari, salvato l’ordine borghese e spianata la via al medioevo fascista; dopo quel ch’è avvenuto in Italia, dove i socialisti di destra uniti a quelli di sinistra hanno sistematicamente sabotati i tentativi insurrezionali dei lavoratori italiani, compresa quell’«Alleanza del lavoro» che, su iniziativa di elementi d’avanguardia, tentava appunto di realizzare il fronte unico dei ribelli sul terreno dell’insurrezione; dopo tutte queste esibizioni che il socialismo autoritario ha dato della propria paura della rivoluzione sociale e della propria vocazione per gli eccidi proletari e per la tirannia governativa, non è più neanche il caso di pensare all’eventualità di un fronte unico tra le due ali della Prima Internazionale inconciliabilmente divise da un abisso di metodo e di dottrina, di persecuzioni e di sangue.
Invece, come se gli insegnamenti dell’esperienza e i consigli della ragione fossero ugualmente vani, l’illusione del fronte unico tra i partiti d’avanguardia è più che mai vegeta. Di fronte al fascismo che incalza totalitario e brutale, lo invocano i gregari, che vedono con terrore calpestata ogni più mite speranza di emancipazione sociale; lo desiderano i capi stessi come ultimo rimedio ai propri errori ed alle proprie colpe inespiabili.
Fronte unico!
Lo hanno tentato recentemente, nel territorio della Sarre, le varie frazioni del socialismo autoritario, ma i risultati non furono lusinghieri. Li commenta un giornale socialista, amaramente così: «... Mentre nel 1932 i tre partiti proletari avevano avuto insieme 122.583 voti, i sostenitori dello status quo, malgrado abbia votato con essi una minoranza di cattolici e di democratici, ottengono 46.000 voti. La maggioranza dunque degli elettori socialisti e comunisti ha votato per il ritorno alla Germania di Hitler».
Il “fronte unico” di cui si tratta qui, non fu in realtà che un “cartello” elettorale tra i partiti socialisti su di un programma conservatore. E i risultati che ha dato non potevano essere diversi, perché l’ordine sociale e politico che i lavoratori della Sarre erano invitati a preservare dalle orde reazionarie di Hitler, era l’ordine del Comité des Forges, cioè l’ordine capitalista prevalente dappertutto con, in più, l’elemento patriottico a renderlo ostico alla moltitudine imbevuta ancora di superstizione. Nulla meno di un programma rivoluzionario avrebbe potuto sondare i sentimenti veri dei lavoratori della Sarre; ma l’avere le varie frazioni del socialismo evitato di convocarli sul terreno dell’insurrezione, il solo che avrebbe potuto veramente offrir loro l’opportunità di prendere una posizione netta di fronte alla reazione fascista, dimostra ancora una volta in quale abisso di incapacità, di indifferenza, di nullismo sociale siano caduti, senza speranza di resurrezione, i capi del socialismo internazionale. Pensate all’ironia delle posizioni: la Società delle Nazioni non s’era impegnata di rispettare il voto della Sarre nel caso che fosse stato contrario all’annessione alla Germania; il “Comité des Forges” aveva già negoziate e pattuite col governo tedesco le condizioni del passaggio della proprietà ai tedeschi; ed ecco che socialisti e comunisti si agitano, agitano il proletariato della Sarre perché, malgrado le decisioni contrarie della S.d.N., ad onta dei contratti stipulati dal capitalismo francese col tedesco, continui il regime democratico della S.d.N., perché continui lo sfruttamento del capitalismo francese. Comunisti e socialisti sono stati, nella Sarre, insomma, più conservatori degli stessi parrucconi di Ginevra e degli stessi pirati della siderurgia francese!
Ma socialisti e comunisti sono tra più accesi fautori del “fronte unico”. E allora, l’esempio della Sarre, oltre a dimostrare che il fronte unico che essi preconizzano non è rivoluzionano ma conservatore, non è insurrezionalista ma elettorale, dimostra anche che è, se non inutile, impotente. Uniti, codesti partiti hanno riscosso appena un terzo dei voti che, due anni prima, avevano riscosso isolati. «La lezione della Sarre — scrive il Nuovo Avanti— ci dice che il “fronte unico” non è efficace se i militanti prima, le masse poi, non ne comprendono le ragioni, non lo sentono come un processo interno della loro esperienza...». Ma perché le masse «sentano come un processo interno della loro esperienza» l’impulso ad unificare i propri sforzi, bisogna che i problemi che sono chiamate a risolvere tocchino intimamente le basi economiche, politiche e spirituali della loro vita individuale e collettiva. E quando questo avviene, il “fronte unico” pratico delle masse si costituisce negli atti, indipendentemente dall’esistenza o meno del fronte unico dei partiti e dei loro capi.
La distinzione tra capitalismo fascista e capitalismo liberale, non tocca alcuna delle basi su cui si svolge la vita del lavoratore. Il quale ha anzi appreso da una lunga e dura esperienza che, in luogo di costituire il punto di partenza per le sue maggiori ascensioni, la democrazia borghese è stata ed è dappertutto uno strumento di dominio e di sfruttamento, un’incubatrice di reazione fascista. Socialisti e comunisti non hanno imparato nulla dall’esperienza, e perciò si attardano ancora a salvare con la democrazia borghese la matrice del fascismo, mentre il solo problema che sia ormai suscettibile d’interessare le masse diseredate è quello della rivoluzione sociale.
Non è il caso di dilungarsi qui nella contesa se il fronte unico delle molteplici tendenze rivoluzionarie sia da preferirsi o meno alla più vasta possibile differenziazione, tra quante ideologie onestamente lavorano a dar pensiero e forza e connessione con la vita al movimento emancipatore. Noi pensiamo che la vita sociale è troppo complessa, troppo numerosi i bisogni, troppo urgente la necessità di sbrigliare le fantasie e le iniziative e le coscienze individuali, perché sia mai utile, ai fini della rivoluzione sociale, erigere dighe alle audacie del pensiero e all’impeto dell’azione. Pensate con la vostra testa, agite secondo la vostra coscienza, senza remora di dogmi né disciplina di canoni, e se il vostro pensiero e la vostra azione sono veramente tali da promuovere la causa della rivoluzione, i loro effetti si ritroveranno nella somma totale degli avvenimenti che la determinano, anche se nessun contabile ne abbia registrati i palpiti, anche se nessun taumaturgo ne abbia vidimata la legalità rivoluzionaria.
Ma è ovvio che, perché esista un fronte unico rivoluzionario, è per lo meno indispensabile che rivoluzionari siano i suoi componenti. Se no, si avrà... un cartello elettorale, o una cospirazione di palazzo.
Ciò è, ormai, così ben compreso, che i compagni spagnoli ne hanno fatto la loro regola di condotta, rifiutandosi, lo scorso ottobre, di stringere un patto di alleanza coi partiti democratici e socialisti, in difesa della costituzione repubblicana minacciata dai clerico-fascisti.
Tale atteggiamento ha sollevato critiche e fulmini irosi. Ma è il solo che, in tutta coerenza, gli anarchici potessero adottare. Sottoscrivendo un patto di alleanza con quei partiti — quei medesimi partiti che per tre anni avevano ferocemente massacrato ogni tentativo rivoluzionario del proletariato iberico e che, in caso di vittoria, avrebbero semplicemente restaurate le proprie fortune politiche ad esclusivo vantaggio della borghesia capitalista — essi avrebbero bensì realizzato il “fronte unico”, ma sarebbe stato il fronte unico della conservazione borghese anziché quello della rivoluzione sociale. E il loro atteggiamento fu tanto più coerente che, lanciandosi allo sbaraglio insieme ai lavoratori insorti, costituirono il vero fronte unico della guerra sociale in atti, che si realizza sulle barricate, davanti al nemico, senza bisogno di pergamene o di compromessi.
Questo è il solo fronte unico desiderabile, perché è il solo che sia veramente rivoluzionario: il fronte unico della lotta armata e del sacrificio.
Qui non si chiedono tessere, né credi. Socialisti, comunisti, sindacalisti, anarchici senza partito, se sono veramente rivoluzionari, si ritrovano il giorno della lotta, con le armi in pugno davanti al nemico, ad affrontare la morte e a propiziare la vittoria. Qui non valgono che la fede, il coraggio e le armi, attributi che non si smentiscono, garanzia indifettibile della comunanza di propositi e di aspirazioni.
E questo è il solo fronte unico che meriti di essere preconizzato. Tutti gli altri, o sono illusioni, o sono frodi.
Per quel che riguarda il numero, in tempi normali la somma dei rivoluzionari coscienti e militanti è sempre una minoranza infima, come una minoranza infima è la somma dei reazionari consapevoli e attivi, perché le forme sociali in cui viviamo sono in tal modo costituite da scoraggiare, così presso le masse diseredate come presso le minoranze privilegiate l’indipendenza del giudizio, l’autonomia delle coscienze, la libertà di pensiero e di esperimento. Se non fosse pel potente ausilio che le minoranze consapevoli e militanti della reazione ricevono costantemente dal meccanismo delle istituzioni sociali, sviluppato attraverso i secoli in tal modo da organizzare a loro vantaggio le attività e i pensieri, l’ignoranza e la superstizione e persino l’inerzia delle moltitudini, esse potrebbero essere facilmente sbaragliate in men che non si dica dalle consapevoli minoranze rivoluzionarie. Ma finché codesto meccanismo di istituzioni sociali esiste e resta abbastanza prestigioso da riscuotere la devozione o anche la semplice indifferenza delle moltitudini umane, nessun fronte unico di minoranze rivoluzionarie riuscirà mai ad abbatterlo, sebbene possa con la critica illuminata sventarne le frodi e le menzogne e gli arbitri, sebbene possa con l’azione audace e risoluta metterne in evidenza le debolezze e l’intima viltà e, quindi, spianare la via alla più larga azione delle masse stesse.
Il numero sufficiente a fare ed a vincere la rivoluzione sociale non possono darlo i partiti e i movimenti rivoluzionari, né singolarmente né assommati. Lo può dare soltanto la moltitudine, la massa; e la massa lo dà non quando i partiti — uniti insieme o singolarmente — glielo chiedono, ma quando le circostanze politiche, economiche, morali — di cui i partiti e gli elementi rivoluzionari possono essere e sono fattori, ma di cui non sono mai fattori esclusivi — le sospingono sulla via della ribellione. Allora, e allora soltanto, si hanno vere rivoluzioni, quando il popolo cambia repentinamente le basi e le forme delle proprie istituzioni. I partiti, unitamente o separati, possono portare allora un contributo immenso allo sviluppo dell’azione rivoluzionaria delle masse. Disgraziatamente, però, l’azione dei partiti rivoluzionari della vigilia, quando la moltitudine si lancia nel vortice della rivoluzione, è generalmente impiegata a frenarne gli impeti, a raffreddarne gli entusiasmi, a trattenerla dagli “eccessi”, ad incuneare nel vero fronte unico sorto sulla piazza travolgente e temuta, l’insidia e il contrasto degli interessi delle superstizioni antiche e delle nuove.
Comunque, nessuna rivoluzione profonda si è mai svolta altrimenti. E così intendeva Malatesta la rivoluzione sociale quando scriveva che «La rivoluzione, per essere veramente emancipatrice, non deve essere l’opera particolare di una scuola o di un partito, ma deve essere opera delle masse, di quanta più massa è possibile».
Per quel che riguarda le origini, è per lo meno inesatto supporre che le varie scuole e tendenze preconizzanti la rivoluzione sociale provengano da una comune fonte iniziale. Alla causa rivoluzionaria si viene da classi e caste diverse, con temperamenti e preparazione differenti, per fini e con aspirazioni molte volte contrastanti. Tra Michele Bakunin discendente da famiglia aristocratica e feudale, aspirante per le vie della libertà, al trionfo di tutta la libertà e di tutta la giustizia; e il lavoratore discendente da infinite generazioni di sfruttati, aspirante, per le vie della disciplina rigorosa del partito, all’onnipotenza infallibile dello Stato “proletario”, non v’è che un effimero punto di contatto: l’episodio insurrezionale, che non è la rivoluzione, ma un attimo solo della rivoluzione, quello a cui confluiscono tutti i rivoli dalle più remote sorgenti del pensiero e dell’azione, del malcontento e della preparazione, della volontà e dell’audacia, e da cui si proiettano verso l’avvenire gli indirizzi e le forme dell’ordine nuovo. E ancora: l’episodio insurrezionale ha per l’uno e per l’altro un significato assai diverso. Mentre pel primo, l’anarchico, l’insurrezione, per riuscire veramente efficace, deve sprigionare dal seno della società la più grande somma possibile di energie, di volontà, di forze consapevoli, libere di realizzare fin dal primo momento la propria emancipazione economica, politica e morale; pel secondo, l’autoritario, l’insurrezione è una battaglia in cui l’esercito del partito rivoluzionario non deve impegnare che il minimo di forze strettamente necessarie a vincere l’esercito nemico, in modo calcolato e ordinato, sotto le direttive dello Stato maggiore del partito stesso, il quale considera esaurito il compito dell’insurrezione tosto che gli abbia assicurata l’eredità dei pubblici poteri.
Anche quell’unico punto di contatto è, quindi, molto relativo.
La Prima Internazionale, raccogliendo nel suo seno tutti coloro che dicevano di volere la rivoluzione sociale, ha tentato, nella seconda metà del secolo scorso, di realizzarne quello che oggi si direbbe il fronte unico, su larghe basi d’intesa. Ma in luogo di attenuare le divergenze e i contrasti, così di metodo come di dottrina, li ha esacerbati in tal modo che tutta la sua vita fu una accanita battaglia intestina, da cui emersero inconciliabilmente differenziate le due tendenze fondamentali della rivoluzione sociale: la tendenza autoritaria o socialista, e la tendenza libertaria o anarchica.
Nel mezzo secolo che seguì, il processo di differenziazione, tra l’infuriar delle polemiche e delle battaglie, si completò fino a dare vita a due diversi e, molto spesso avversi, partiti o movimenti, che le esperienze autoritarie compiute in vari paesi d’Europa dopo la guerra hanno ancor più allontanati.
Dopo quel ch’è avvenuto in Russia, dove i socialisti di sinistra hanno con arroganza dittatoriale fatto strame di una insurrezione trionfante; dopo quel ch’è avvenuto in Germania, dove i socialisti di destra hanno, col massacro dei rivoluzionari, salvato l’ordine borghese e spianata la via al medioevo fascista; dopo quel ch’è avvenuto in Italia, dove i socialisti di destra uniti a quelli di sinistra hanno sistematicamente sabotati i tentativi insurrezionali dei lavoratori italiani, compresa quell’«Alleanza del lavoro» che, su iniziativa di elementi d’avanguardia, tentava appunto di realizzare il fronte unico dei ribelli sul terreno dell’insurrezione; dopo tutte queste esibizioni che il socialismo autoritario ha dato della propria paura della rivoluzione sociale e della propria vocazione per gli eccidi proletari e per la tirannia governativa, non è più neanche il caso di pensare all’eventualità di un fronte unico tra le due ali della Prima Internazionale inconciliabilmente divise da un abisso di metodo e di dottrina, di persecuzioni e di sangue.
Invece, come se gli insegnamenti dell’esperienza e i consigli della ragione fossero ugualmente vani, l’illusione del fronte unico tra i partiti d’avanguardia è più che mai vegeta. Di fronte al fascismo che incalza totalitario e brutale, lo invocano i gregari, che vedono con terrore calpestata ogni più mite speranza di emancipazione sociale; lo desiderano i capi stessi come ultimo rimedio ai propri errori ed alle proprie colpe inespiabili.
Fronte unico!
Lo hanno tentato recentemente, nel territorio della Sarre, le varie frazioni del socialismo autoritario, ma i risultati non furono lusinghieri. Li commenta un giornale socialista, amaramente così: «... Mentre nel 1932 i tre partiti proletari avevano avuto insieme 122.583 voti, i sostenitori dello status quo, malgrado abbia votato con essi una minoranza di cattolici e di democratici, ottengono 46.000 voti. La maggioranza dunque degli elettori socialisti e comunisti ha votato per il ritorno alla Germania di Hitler».
Il “fronte unico” di cui si tratta qui, non fu in realtà che un “cartello” elettorale tra i partiti socialisti su di un programma conservatore. E i risultati che ha dato non potevano essere diversi, perché l’ordine sociale e politico che i lavoratori della Sarre erano invitati a preservare dalle orde reazionarie di Hitler, era l’ordine del Comité des Forges, cioè l’ordine capitalista prevalente dappertutto con, in più, l’elemento patriottico a renderlo ostico alla moltitudine imbevuta ancora di superstizione. Nulla meno di un programma rivoluzionario avrebbe potuto sondare i sentimenti veri dei lavoratori della Sarre; ma l’avere le varie frazioni del socialismo evitato di convocarli sul terreno dell’insurrezione, il solo che avrebbe potuto veramente offrir loro l’opportunità di prendere una posizione netta di fronte alla reazione fascista, dimostra ancora una volta in quale abisso di incapacità, di indifferenza, di nullismo sociale siano caduti, senza speranza di resurrezione, i capi del socialismo internazionale. Pensate all’ironia delle posizioni: la Società delle Nazioni non s’era impegnata di rispettare il voto della Sarre nel caso che fosse stato contrario all’annessione alla Germania; il “Comité des Forges” aveva già negoziate e pattuite col governo tedesco le condizioni del passaggio della proprietà ai tedeschi; ed ecco che socialisti e comunisti si agitano, agitano il proletariato della Sarre perché, malgrado le decisioni contrarie della S.d.N., ad onta dei contratti stipulati dal capitalismo francese col tedesco, continui il regime democratico della S.d.N., perché continui lo sfruttamento del capitalismo francese. Comunisti e socialisti sono stati, nella Sarre, insomma, più conservatori degli stessi parrucconi di Ginevra e degli stessi pirati della siderurgia francese!
Ma socialisti e comunisti sono tra più accesi fautori del “fronte unico”. E allora, l’esempio della Sarre, oltre a dimostrare che il fronte unico che essi preconizzano non è rivoluzionano ma conservatore, non è insurrezionalista ma elettorale, dimostra anche che è, se non inutile, impotente. Uniti, codesti partiti hanno riscosso appena un terzo dei voti che, due anni prima, avevano riscosso isolati. «La lezione della Sarre — scrive il Nuovo Avanti— ci dice che il “fronte unico” non è efficace se i militanti prima, le masse poi, non ne comprendono le ragioni, non lo sentono come un processo interno della loro esperienza...». Ma perché le masse «sentano come un processo interno della loro esperienza» l’impulso ad unificare i propri sforzi, bisogna che i problemi che sono chiamate a risolvere tocchino intimamente le basi economiche, politiche e spirituali della loro vita individuale e collettiva. E quando questo avviene, il “fronte unico” pratico delle masse si costituisce negli atti, indipendentemente dall’esistenza o meno del fronte unico dei partiti e dei loro capi.
La distinzione tra capitalismo fascista e capitalismo liberale, non tocca alcuna delle basi su cui si svolge la vita del lavoratore. Il quale ha anzi appreso da una lunga e dura esperienza che, in luogo di costituire il punto di partenza per le sue maggiori ascensioni, la democrazia borghese è stata ed è dappertutto uno strumento di dominio e di sfruttamento, un’incubatrice di reazione fascista. Socialisti e comunisti non hanno imparato nulla dall’esperienza, e perciò si attardano ancora a salvare con la democrazia borghese la matrice del fascismo, mentre il solo problema che sia ormai suscettibile d’interessare le masse diseredate è quello della rivoluzione sociale.
Non è il caso di dilungarsi qui nella contesa se il fronte unico delle molteplici tendenze rivoluzionarie sia da preferirsi o meno alla più vasta possibile differenziazione, tra quante ideologie onestamente lavorano a dar pensiero e forza e connessione con la vita al movimento emancipatore. Noi pensiamo che la vita sociale è troppo complessa, troppo numerosi i bisogni, troppo urgente la necessità di sbrigliare le fantasie e le iniziative e le coscienze individuali, perché sia mai utile, ai fini della rivoluzione sociale, erigere dighe alle audacie del pensiero e all’impeto dell’azione. Pensate con la vostra testa, agite secondo la vostra coscienza, senza remora di dogmi né disciplina di canoni, e se il vostro pensiero e la vostra azione sono veramente tali da promuovere la causa della rivoluzione, i loro effetti si ritroveranno nella somma totale degli avvenimenti che la determinano, anche se nessun contabile ne abbia registrati i palpiti, anche se nessun taumaturgo ne abbia vidimata la legalità rivoluzionaria.
Ma è ovvio che, perché esista un fronte unico rivoluzionario, è per lo meno indispensabile che rivoluzionari siano i suoi componenti. Se no, si avrà... un cartello elettorale, o una cospirazione di palazzo.
Ciò è, ormai, così ben compreso, che i compagni spagnoli ne hanno fatto la loro regola di condotta, rifiutandosi, lo scorso ottobre, di stringere un patto di alleanza coi partiti democratici e socialisti, in difesa della costituzione repubblicana minacciata dai clerico-fascisti.
Tale atteggiamento ha sollevato critiche e fulmini irosi. Ma è il solo che, in tutta coerenza, gli anarchici potessero adottare. Sottoscrivendo un patto di alleanza con quei partiti — quei medesimi partiti che per tre anni avevano ferocemente massacrato ogni tentativo rivoluzionario del proletariato iberico e che, in caso di vittoria, avrebbero semplicemente restaurate le proprie fortune politiche ad esclusivo vantaggio della borghesia capitalista — essi avrebbero bensì realizzato il “fronte unico”, ma sarebbe stato il fronte unico della conservazione borghese anziché quello della rivoluzione sociale. E il loro atteggiamento fu tanto più coerente che, lanciandosi allo sbaraglio insieme ai lavoratori insorti, costituirono il vero fronte unico della guerra sociale in atti, che si realizza sulle barricate, davanti al nemico, senza bisogno di pergamene o di compromessi.
Questo è il solo fronte unico desiderabile, perché è il solo che sia veramente rivoluzionario: il fronte unico della lotta armata e del sacrificio.
Qui non si chiedono tessere, né credi. Socialisti, comunisti, sindacalisti, anarchici senza partito, se sono veramente rivoluzionari, si ritrovano il giorno della lotta, con le armi in pugno davanti al nemico, ad affrontare la morte e a propiziare la vittoria. Qui non valgono che la fede, il coraggio e le armi, attributi che non si smentiscono, garanzia indifettibile della comunanza di propositi e di aspirazioni.
E questo è il solo fronte unico che meriti di essere preconizzato. Tutti gli altri, o sono illusioni, o sono frodi.
[L’Adunata dei Refrattari, anno XIV, n. 9 del 2 marzo 1935]
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