da .finimondo
Nulla di cui preoccuparsi
Nella
sua storia l’umanità non si è mai trovata impreparata come oggi. In
poco più di una generazione il nostro concetto di vita e il significato
dell’esistenza saranno radicalmente modificati. Di fronte ai nostri
occhi si estende un paesaggio ancora sconosciuto i cui contorni stanno
per prendere forma nelle centinaia di laboratori di biotecnologia delle
università, delle agenzie governative e delle industrie di tutto il
mondo. Se il XX secolo è stato caratterizzato dalle scoperte della
fisica e della chimica, il XXI sarà infatti profondamente condizionato
dalle cosiddette «scienze della vita».
Paradossalmente
si potrebbe dire che il XXI secolo sia iniziato in realtà quel mattino
di febbraio del 1997, quando i bollettini d’informazione rivelarono agli
abitanti di tutta la Terra il segno inaudito apparso nel loro cielo per
dominare la nuova epoca, che si apriva all’insegna di una pecora
clonata di nome Dolly, nata da un processo di replicazione invece che
dal concepimento. E, benché la cosa non offrisse nulla di
particolarmente sensazionale, riassumendosi nella foto di una
banalissima pecora, le comunicazioni di massa hanno dovuto impegnarsi in
una intensiva volgarizzazione per iniziare i consumatori ai misteri
della biologia molecolare e della transgenica animale, insegnando loro
come questa prima riproduzione non sessuata di un mammifero aprisse alla
farmacologia una nuova era. Dopo il computer e la rete universale, oggi
è sulle biotecnologie che devono istruirci al fine di farcele
apprezzare.
I primi
giorni di questa pubblicità bruciante sono stati consacrati soprattutto
ad allarmarci circa l’incredibile pericolo che farebbe pesare
sull’umanità la possibilità della clonazione umana: solo una barriera
etica mondializzata ci proteggerebbe da questa pratica considerata
inaccettabile. Dopo una rapida ricaduta, questa febbre di indignazione
morale che reclama la proibizione assoluta e solenne di una
manipolazione così lesiva della nostra dignità naturale, ha lasciato il
posto a vedute più pragmatiche: sarebbe oscurantista e contrario alla
nostra vocazione antropologica di scoprire i segreti della "natura"
rifiutare lo sviluppo di tecnologie tanto promettenti, indispensabili
per studiare i meccanismi fondamentali della vita e della sua
riproduzione, senza parlare della possibilità di procurarci organi di
ricambio e magari domani di ripulire dei suoi difetti il nostro
"programma genetico". Insomma, l’ingegneria genetica ci viene presentata
non come una sinistra possibilità, ma come un dono sociale ed
economico.
Del
resto ci è stato certificato che non c’è da preoccuparsi, che è
assolutamente indispensabile contribuire ai bisogni della ricerca e
dell’industria; che agli occhi della macchina sociale ognuno di noi è
talmente prezioso che si tratta solo di facilitarci la vita, di renderla
più felice; che questo processo di partenogenesi permetterebbe, tra
mille esempi, di guardare nel proprio futuro biologico conoscendo nei
dettagli il proprio corredo genetico, di produrre in serie ratti
modificati per aggiungere alle loro urine rare molecole che curano
malattie sempre più sofisticate, o di perpetuare indefinitamente la
nostra cagna preferita. Tutto questo mescolato ad argomenti di un
umanesimo un po’ vago e ad assicurazioni pronunciate distrattamente,
come se si facesse conversazione con qualcuno che ormai non è più in
grado di notare la differenza tra cure palliative e guarigione
effettiva.
Il tempo
passa in fretta, e nel volgere di due anni il consenso si è
stabilizzato attorno alla posizione che fu fin dall’inizio degli
apologeti più lucidi. Nel frattempo abbiamo comunque fatto una
istruttiva scoperta: che l’idea di ciò che potrebbe essere la vita umana
è già così perduta, così dimenticata, così rovinata e ormai poco
immaginabile che si è oramai incapaci di elaborare una seria
argomentazione in grado di contraddire la duplicazione dell’uomo in
laboratorio. La manipolazione genetica finisce coll’abbattere le
barriere naturali che erano rimaste fino a un dato momento a baluardo
contro l’espansione industriale. Ma quella che viene conosciuta in
laboratorio non è che la "vita" in laboratorio, vale a dire niente:
un "meccano genetico", una costruzione arbitraria che potrebbe
diventare osservabile come forma di vita solo se ricollocata nella
natura. Ecco che l’ottusità confina con la stupidità in coloro che
reclamano vigilanza, garanzie, in breve un affidamento al vecchio metodo
sperimentale. Il mondo "trascurato", lasciato da parte dal metodo
sperimentale, diventa in realtà l’oggetto dell’esperimento continuando
però ad essere ignorato.
La vita: un’invenzione in vendita
Ma cominciamo dal principio. Brevemente possiamo definire le biotecnologie
come un agglomerato di tecniche mirante allo sfruttamento industriale
di microrganismi, cellule animali, cellule vegetali e loro costituenti;
tecniche incentrate soprattutto sulla manipolazione e la trasformazione
dei geni, in particolare a partire dalla formidabile scoperta — che
risale al 1973 — del Dna ricombinante, la cui importanza è data
dalla possibilità di ricombinare frammenti di organismi non correlati
fra loro, cioè che non si accoppiano in natura, giungendo
all’abbattimento degli ostacoli naturali esistenti tra specie e specie.
Le biotecnologie interessano settori produttivi che vanno
dall’agricoltura alla farmaceutica, passando per la chimica, in un
insieme tecnologico in cui "interagiscono" anche informatica, robotica e
telecomunicazioni. La produzione di organismi, piante e animali
transgenici, come pure di vaccini e test diagnostici medici, costituisce
solo un piccolo esempio del prossimo e non troppo lontano futuro che ci
attende. Una parte sostanziale della ricerca è concentrata sulla
fusione di attività agricole e farmaceutiche, e sulla trasformazione di
animali domestici in officine per la produzione di medicinali; mentre
clonazione e manipolazioni genetiche consentiranno tra non molto di
ottenere animali standardizzati, studiati sia in funzione del consumo
alimentare che della produzione di organi destinati ai trapianti esogeni
(xenotrapianti).
Le
scienze della "vita" avranno via via impensabili applicazioni in
qualsiasi settore — in terra, cielo e mare —, persino nella
fabbricazione di materie plastiche, nell’estrazione mineraria e,
naturalmente, in campo militare. A questo proposito qualcuno ha storto
il naso notando che le biotecnologie sono suscettibili di applicazioni
indifferentemente "civili" e "militari", come qualsiasi altra
tecnologia. Rilevare questa ambivalenza porta logicamente a riconoscere
in tutte queste tecniche delle armi offensive: nessuna novità, si tratta
di una guerra contro la vita condotta dal capitale da oltre due secoli.
D’altra parte le "conquiste" ottenute dalle tecnologie di ingegneria
genetica hanno rinnovato l’interesse militare per le armi biologiche,
generando una grande preoccupazione riguardo l’accidentale o volontaria
liberazione di pericolosi virus, batteri e funghi manipolati in grado di
diffondere un inquinamento genetico in tutto il mondo. Così come è
avvenuto per il nucleare, infatti, la banca dati che si è sviluppata per
l’ingegneria genetica commerciale nel campo dell’agricoltura,
dell’allevamento degli animali e della medicina è potenzialmente
convertibile nello sviluppo di una vasta serie di nuovi agenti patogeni
che possono aggredire qualsiasi cosa. Per questo vari settori delle
forze armate da tempo lavorano con i maggiori agenti patogeni al mondo,
dalle malattie esotiche virali ai virus più recenti come l’Aids; mentre
nell’immediato l’esercito americano sta inserendo nei batteri geni
artificiali simili a quelli usati dai ragni tessitori per produrre il
loro filo, una tra le più robuste fibre naturali esistenti: la sua
utilizzazione futura potrebbe interessare l’ingegneria aerospaziale o la
costruzione di oggetti come i giubbotti antiproiettile. Se in più
consideriamo che, a differenza delle tecnologie nucleari, l’ingegneria
genetica può essere prodotta a buon mercato, richiede una minore abilità
scientifica e può essere usata per un’ampia varietà di scopi militari —
dalle operazioni controinsurrezionali fino a guerre su larga scala per
distruggere intere popolazioni —, come stupirsi che in un rapporto del
maggio 1986 il dipartimento americano della difesa abbia sottolineato
che le varie tecniche di ingegneria genetica stanno "definitivamente
rendendo la guerra biologica una reale alternativa militare".
Si
comprende meglio l’interesse frenetico di multinazionali, scienziati e
uomini di Stato, desiderosi di rivestire un ruolo da protagonisti nella
programmazione della rivoluzione biotecnologica. Dal 1988 è partito il
Progetto Genoma Umano, programma sponsorizzato dal governo americano con
una somma pari a tre miliardi di dollari, ideato al fine di mappare e
sequenziare l’intero patrimonio genetico della nostra specie, composto
da circa 100.000 geni, entro l’anno 2002. Nel volgere di pochissimo
tempo, forse meno di dieci anni, tutti questi geni — le nuove "materie
prime" del secolo a venire — saranno sottoposti a brevetto, diventando
esclusiva "proprietà intellettuale" di un ristretto numero di aziende
del complesso genetico-industriale e di governi (qualche anno fa il
governo degli Stati Uniti presentò richieste di brevetto in Europa e
negli Stati Uniti per alcune linee cellulari prelevate da cittadini
delle isole Solomon e della Papua Nuova Guinea!), i quali potrebbero
ottenere analoghi brevetti per microrganismi, piante e animali,
conquistando col tempo un potere senza precedenti sulle nostre vite e
soprattutto su quelle delle generazioni non ancora nate, attraverso la
manipolazione preventiva di tutti i processi biologici del pianeta. Fra
le più importanti società multinazionali che stanno conquistando grosse
fette del mercato bioindustriale globale non si possono non menzionare:
la Monsanto Corporation (che ha acquisito la Holden’s Foundation Seeds, una buona quota della DeKalb, la Asgrow, la Agracetus e la Calgene), la Novartis (che nasce dalla fusione di due società svizzere: l’agrochimica Ciba-Geigy e la farmaceutica Sandoz, che a sua volta nel 1995 ha acquisito la Genetic Therapy Inc.), la Du Pont (che ha acquisito la Protein Technologies International dalla Ralston Purina, oltre ad aver acquistato una buona quota della Pioneer-Hi Bred, l’industria di sementi più grande del mondo), la Dow Elanco (che ha acquistato una grossa quota della Microgen), la Upjohn (che ha investito nella Incyte), l’Eli Lilly (che ha partecipato a un accordo con la farmaceutica Millennium e intrattiene relazioni commerciali con la Myriad Inc. insieme alla Novartis), la Rohm e Haas, la AgrEvo (che nel 1996 ha acquistato la Plant Genetic Systems) e la Schering Plough (che nel 1996 ha acquisito la Canji).
Ebbene, tra tutte le società chimiche, farmaceutiche, agroalimentari e
biotecnologiche esistenti, è in corso una feroce competizione senza
precedenti per ottenere brevetti commerciali su geni, organismi e
processi di manipolazione.
Ovviamente
il problema dei brevetti sulla vita è stato oggetto di aspre polemiche
originate da chi avversa la possibilità di impadronirsi di qualsiasi
organismo già esistente in natura. Al centro del problema della
brevettabilità c’è la questione se geni, cellule, tessuti, organi e
interi organismi geneticamente modificati (ogm) siano veramente
invenzioni dell’uomo e non semplicemente creazioni della natura
«intelligentemente modificate» dagli esseri umani. Così ci ha pensato
l’ufficio brevetti e marchi registrati degli Stati Uniti a risolvere una
volta per tutte tale problema, dichiarando che l’isolamento e la
classificazione delle proprietà e delle funzioni di un gene è
sufficiente a fare della scoperta un’invenzione. Detto fatto.
Così che, dopo le enclosure
delle terre comuni del XVI secolo, quelle commerciali di parti delle
risorse oceaniche, quelle atmosferiche e quelle elettromagnetiche, dal
1971 hanno cominciato ad essere recintate e privatizzate le risorse
genetiche del pianeta; ed ora anche le risorse più personali come il
corpo umano stanno per subire lo stesso trattamento e sono sul punto di
essere ridotte a proprietà commerciali private e distribuite alle
istituzioni commerciali e a quelle politiche sotto forma di "proprietà
intellettuale".
I sogghigni del futuro
La causa
dell’indignazione morale che in qualcuno ha sollevato la prospettiva
della clonazione riproduttiva applicata all’uomo non è difficile da
trovare. In se stesso questo procedimento non pone alcun problema
particolare rispetto a una banale fecondazione in vitro: dopo tutto il
bambino così prodotto avrebbe lo stesso un padre e una madre, e
moralmente nulla lo separerebbe da un individuo ottenuto per iniezione
di spermatozoi, che è già una forma di clonazione a due — come illustra
l’esempio americano di una fecondazione realizzata con spermatozoi
prelevati dal cadavere di un uomo all’indomani della sua morte, poi
congelati in attesa del risultato della stimolazione ovarica della
donna. Ciò che provoca disagio in realtà è la visione fantascientifica
di individui standard fabbricati in serie nelle incubatrici di una
industria della riproduzione, magari secondo i bisogni di uno Stato
totalitario. Finzione tanto più inquietante in quanto è in un certo
senso ciò che siamo diventati all’interno delle infrastrutture della
società industriale: la nostra esistenza interamente dipendente,
artificializzata e parassitaria, i nostri comportamenti standardizzati
alla logica interna alle macchine e agli apparecchi di cui bisogna
servirsi per qualunque cosa, il nostro cibo senza sapore né odore, i
nostri pensieri conformi al flusso di immagini e di slogan che le
comunicazioni elettroniche ci iniettano in permanenza e che alimentano
il nostro universo mentale.
È la
coscienza repressa da questa degenerazione collettiva a far emergere, in
alcuni, lo spettro della clonazione umana. Negli altri
l’identificazione è già così avanzata, la coscienza di sé talmente
spenta, che queste reazioni morali, questi timori riguardo la «integrità
dell’uomo», li fanno sogghignare: il clone rappresenta l’avvento
dell’«uomo nuovo» di cui essi sono l’avanguardia, e si rallegrano della
promessa di vedere presto il proprio opportunismo completamente
giustificato dal senso della storia. Per logica conseguenza, ogni
rifiuto degli ogm alimentari — del "Frankestein food", come si divertono
a definirlo essi stessi per beffarsi dello sgomento del popolino — non
può che rivelare un attaccamento assai sospetto ai valori del passato.
Intanto
la propaganda continua a descrivere un avvenire radioso dove la fame
sarà debellata ovunque e finalmente si svilupperà un’agricoltura
«rispettosa dell’ambiente» e «capace di proteggerci dalle malattie» con
piante trasformate in «fabbriche naturali per costruire molecole
farmaceutiche», dissolvendo infine lo spettro della clonazione umana e
l’ombra di Frankestein, abbandonati come pregiudizi di un’altra epoca,
di una vecchia storia lontano da cui ci trascina questa precipitazione
degli avvenimenti che costituisce tutta l’attrattiva della vita
contemporanea; dove non passa settimana senza che giornali accreditati
non pubblichino un bollettino di vittoria sul fronte delle
biotecnologie. "Scoperte" tecniche che si susseguono con una successione
così rapida da spazzare tutte le resistenze che incontrano sulla
propria strada per addentrarsi sempre più all’interno del territorio
della vita, impazienti di raggiungerne in fretta gli ultimi confini e di
proclamarne l’intera conquista. Finalmente dappertutto alle frontiere
del mondo vivente sventola la bandiera della razionalità scientifica.
Ma, perché questo ottimismo biotecnologico, omologo a quello
cibernetico, resti verosimile, è meglio evitare di leggere le altre
pagine dello stesso giornale, dove regna piuttosto un’atmosfera da
disastro planetario ad evoluzione non meno precipitosa, da crollo
accelerato di tutti gli equilibri climatici, da rovina delle risorse
naturali da parte delle forze produttive e da decomposizione interna
inesorabile della società mondiale sovrappopolata in preda alle malattie
infettive, alla fame, alla sete, all’inquinamento chimico e alle guerre
"intelligenti".
Nessuna distinzione dell’angoscia
Si
capisce come mai la società organizzata su scala mondiale viva da tempo
in un’atmosfera da stato d’emergenza, che certo riflette il suo stato
reale, ma che è anche l’aria da catastrofe in cui deve farci vivere per
imporci le sue novità tecniche. Come per le piante geneticamente
modificate l’argomento della rapidità del processo di selezione (da 2 a 3
anni invece che da 20 a 30), al di là di soddisfare le necessità del
ritorno sull’investimento, corrisponde all’imperativo di abolire ogni
possibilità di regresso, di distanza, di semplice tempo di riflessione,
così per l’ingegneria genetica applicata all’uomo, la rozzezza
meccanicistica delle terapie annunciate (un gene, una malattia), oltre
ad essere inscritta nella continuità delle rappresentazioni della
medicina scientifica precedente (un microbo, una malattia), mantiene con
la sua propaganda sui "cattivi" geni il clima d’angoscia di cui ha
bisogno per sbarazzarsi delle conoscenze ragionevoli sull’ambiente
morboso e di ciò che un tempo si chiamava eziologia delle malattie.
Persino il crimine è stato trasformato in una questione di salute
fisica, spostando il dibattito dai fattori ambientali e sociali che
potrebbero influenzarlo agli "errori" genetici da controllare od
estirpare.
La
stessa logica viene applicata nelle promesse di trattamenti miracolosi
che — ci dicono — argineranno la progressione finora inesorabile dei
tumori, ed è per questo che si comincia a fare pubblicità alla paura che
finirà con lo spazzare via ogni reticenza sulle biotecnologie. Perché
le biotecnologie non hanno da venderci soltanto i fantasmi della
perfezione terapeutica e dell’immortalità attraverso la clonazione. Più
prosaicamente, esse hanno già iniziato a imporre nell’agricoltura alcune
specie geneticamente "arricchite"; lo spauracchio della clonazione
umana potrà servire piuttosto, come mostruosità fantastica, a
banalizzare quella ben più reale e tangibile degli organismi manipolati
geneticamente.
Ma,
se è vero che la continuità esistente tra l’agricoltura industriale e
il suo perfezionamento biotecnologico è la stessa che porta naturalmente
dalla medicina meccanicistica all’ingegneria genetica applicata
all’essere umano, appare estremamente sciocco pretendere di distinguere,
come fa un buon numero di oppositori agli ogm, le eventuali
applicazioni terapeutiche delle biotecnologie, che si guardano bene dal
disapprovare, per non urtare l’opinione generale o perché convinti che
si tratti di un auspicabile segno di progresso.
L’alienazione
delle persone isolate all’interno della società di massa, che le ha
spinte ad abbandonare allo sfruttamento industriale la natura esterna
all’uomo — in cambio di un nutrimento standardizzato che ci si cura poco
di sapere come venga esattamente prodotto —, è anche quella che ha
fatto consegnare loro la propria natura organica, il proprio corpo,
all’industria della salute.
Allarmare
gli uomini per ciò che accade nei campi, così lontani dalla loro vita
artificiale, senza interessarsi a ciò che immediatamente li rassicura
(il contenuto del loro armadietto farmaceutico, la chirurgia estetica,
le promesse delle terapie genetiche) è illogico e nel contempo vano.
Così come è vano spiegare che in realtà quelli che i biologi molecolari
indicano come errori da correggere, sono variazioni sul tema di un ricco
contenitore di diversità genetiche essenziali per mantenere la
variabilità della specie nei riguardi di un ambiente in continuo
mutamento. Né ha senso rivelare che queste nuove tecniche transgeniche
sono piuttosto primitive se comparate ai processi propri della natura:
si tratta di un punto che viene volentieri tralasciato nel clamore
creato intorno alle novità dell’ingegneria genetica.
Sì,
forse sono in pochi a credere seriamente all’approssimarsi di una
simile manna, nonché panacea; ma è sufficiente perché tutto passi nella
precipitazione degli avvenimenti, dell’adattamento rassegnato di coloro
che, avendo smarrito da qualche parte — tra il cellulare, i neurolettici
e il computer — il sentimento della propria integrità, non possono di
certo restare scioccati da un pomodoro contenente qualche gene di pesce.
Progressisti e uomini di buona volontà
«Come
rifiutare certi straordinari progressi nati nei laboratori della
biotecnologia? I nuovi metodi di manipolazione genetica rispondono a
tanti dei nostri desideri e aspirazioni...». Così formulata, la
questione ha per lo meno il merito di indicare che per molti individui
ciò che promettono le biotecnologie è non solo accettabile ma
misteriosamente desiderabile. E se proprio bisogna preoccuparsi
per qualcosa, sarebbe piuttosto per il fatto che queste promesse
potrebbero alla fine non essere mantenute, o mantenute non del tutto.
Ed
essendo la buona volontà del progressista decisamente inesauribile,
eccolo dunque disposto a vivere con organi e prolungamenti artificiali
così come aveva imparato a «vivere col nucleare». L’eterno cliente, in
questo rimasto elettore, ha sempre creduto di possedere un parere personale e qualche cosa da scegliere,
mentre non è che un organo di ricezione delle decisioni del mercato.
Adesso accetta di diventare una specie di mutazione, di trasformarsi in
un portaorgani da trapianto per i prodotti innovativi dell’industria
medica, acconsentendo di fatto ad essere l’appendice organica, la
periferica un po’ ingombrante e sciocca del suo terminale informatico
connesso con la rete mondiale. In sintesi, egli ha accettato d’essere
diventato una creatura della civiltà industriale, una forma di vita
biologica di cui questa ha bisogno per perpetuarsi ed estendersi; e che
essa può decidere di correggere geneticamente per meglio adeguarla alla
sua funzione, così come l’addomesticamento degli animali migliorava le
specie con la selezione dei caratteri che le rendevano inadatte alla
vita selvaggia.
E
mentre le imprese mondiali della sopravvivenza monopolizzata
prospettano il mercato della catastrofe anticipando il momento in cui —
essendo la salute e l’agricoltura ugualmente devastate — sulla medicina e
sul sostentamento si reggerà l’ultimo racket mercantile, gli entusiasti
della rassegnazione si preparano ad «entrare in una nuova era», a
completare «una mutazione senza precedenti dalla rivoluzione neolitica»,
con l’introduzione di impianti e protesi destinati a equipaggiare il
nostro sbocciare in un mondo industriale infine realizzato — dalla
fabbricazione d’organi con colture guidate di cellule madri alla
produzione di feti anencefali che servirebbero da magazzini di tessuti,
dagli ormoni di gioventù prescritti dai trent’anni in poi ai
"braccialetti elettronici" del carcere fuori delle mura, che basta
collegare ai satelliti perché il mondo intero diventi una prigione
virtuale sorvegliata da un guardiano orbitale, e tutto il guazzabuglio
cibernetico indispensabile alle illusioni della realtà virtuale o agli
automatismi della guerra istantanea.
Un mondo senza fuori
Non
serve possedere conoscenze particolari di biologia molecolare per poter
affermare che le imprese dei tecnici della manipolazione avranno
conseguenze incalcolabili, perché incontrollabili e irreversibili.
L’essenza qualitativa delle forme di vita manipolate come cose,
che rimane incompresa e trascurata, e che si ritiene di poter
tranquillamente eliminare per sostituirvi logiche genetiche specifiche,
deve necessariamente diventare il fattore decisivo; non essendo la
"catastrofe" che il profitto illecito della totalità ignorata.
Tanto
più che nessuna contraddizione potrebbe mai spingere il dominio da solo
a riflettere su se stesso: quando le invasioni di parassiti, la
moltiplicazione delle infezioni, la sterilità delle terre o l’aumento
dei tumori gli segnalano un errore manifesto di metodo, invece di tener
conto di questi avvertimenti e di modificarlo, cerca piuttosto di
distruggere l’avvertimento che lo ha contraddetto, inventando un nuovo
insetticida per contenere i parassiti sempre più coriacei selezionati
sulla base di quella resistenza, nuovi antibiotici, la coltivazione
fuori suolo e terapie favolose per rallentare la progressione delle
metastasi. Si capisce come l’artificialità sia diventata ideologia
ufficiale del dominio, che nega la necessità e perfino la stessa
esistenza della Natura, cercando da sempre di essere una totalità da cui
gli uomini non possano immaginare di uscire, un mondo senza fuori.
Ed è proprio perché il dominio ha sempre avuto orrore dell’idea che
qualcuno possa esistere al di fuori di sé, che deve riscrivere le leggi
della natura per renderle conformi alle sue più recenti manipolazioni
della vita, cercando di razionalizzare la nuova attività tecnologica ed
economica del secolo della biotecnologia come un riflesso dell’ordine
naturale delle cose: si tratta solo del "breve passo" di costruire un
modello della natura che sia strettamente simile al mondo realizzato dal
dominio. Perché ogni società deve sentirsi rassicurata dal fatto che il
modo in cui conduce le proprie attività sia compatibile con l’ordine
naturale delle cose, rispecchiando il grande disegno della natura: ecco
spiegata l’impazienza del dominio di proclamare l’abolizione di
quest’ultima a profitto delle sue biotecnologie.
Ottenendo
l’accesso alle basi genetiche di ciò che esiste organicamente (come in
precedenza a quelle atomiche nell’inorganico), mettendo in luce ciò che
c’è di più astratto in noi ed estraneo a noi stessi, stabilendo il
nostro codice genetico, che diventa la nostra autentica identità ai suoi
occhi, la ragione strumentale finisce per identificarsi totalmente col
dominio che l’ha così prodotta, confondendovisi: non si può più pensarli
separatamente. Ogni acquiescenza a questo positivismo — a maggior
ragione quando questo manifesta maggior premura nei nostri confronti —
lo è innanzitutto al dominio e alla nostra stessa alienazione, che fa
sempre in modo di dispensarci dal sapere esattamente ciò che facciamo,
di averne la piena conoscenza, fornendoci la comodità di non dover
essere interamente consapevoli dei nostri atti, di non doverci trovare
là di persona. La medicina scientifica ci ha già spossessati delle
nostre malattie, di questa conoscenza di sé, rendendocele estranee; col
sequenziamento del genoma sarà la nostra stessa vita a diventarci
estranea, ma non ce ne accorgeremo. Ecco la felicità. «Per l’individuo,
il dominio incarna l’universale, la ragione nella sua realtà», e lo
solleva così dalla sua perplessità davanti alle imbarazzanti ricchezze
della vita, semplificando quest’ultima a un modo d’uso completo che la
metta al riparo del caso e dell’ignoto: ad esempio, i test genetici di
predisposizione alle malattie e ai comportamenti trasformano l’esistenza
in una fatalità che non intrattiene alcun rapporto con le condizioni
sociali. Queste diventeranno impensabili in quanto a determinazione e
saranno naturalizzate in dati pratici intangibili, in condizioni di
esistenza della collettività al di fuori della quale nulla esiste.
L’individuo
è solo con il suo destino genomico; la sua esistenza sociale non è che
un riflesso, o una sanzione. Si obbedisce perché si è sprovvisti dei
geni del potere.
L’improponibile precauzione
La
critica razionalista del riduzionismo genetico si presenta dunque
abbastanza debole, nel denunciare una grossolana menzogna ideologica
sulla natura umana senza arrivare a riconoscere che questa menzogna è,
sotto i nostri occhi, sul punto di appropriarsi della realtà, di fare
sparire ciò che la smentirebbe e diventare così "vera". La superstizione
scientista nella società di massa avrebbe qualcosa di incomprensibile,
dato lo stato in cui questa scienza ha messo il mondo, se non ci fosse a
sostenerla, oltre che una certa viltà nel lasciarsi trascinare di
speranza in speranza, contro ogni evidenza, l’aspirazione apparentemente
generale a condividere questo privilegio riconosciuto degli scienziati:
non dover pensare, essere sollevati da questo fardello e grazie a ciò
essere tanto più adatti alle specificità della società delle macchine.
Chi concepisce se stesso per mezzo delle rappresentazioni della
cibernetica si trova fortemente spiazzato di fronte alle attività
dell’ingegneria genetica: quale natura umana gli resta da invocare? Se
si osserva un giovane consumatore di dodici anni assorbito dalla sua
PlayStation e si immagina il destino assegnatogli nella civiltà
elettronica, non si vede quale obiezione verosimile potrebbe ancora
essere fatta alle clonazioni e alle manipolazioni genetiche: il
risultato è già davanti a noi, con i suoi abiti di marca e il suo
piercing, la sua cultura flessibile, il suo linguaggio ridotto e il suo
tatuaggio. Forse è un po’ tardi per preoccuparci di ciò che resterà di
noi dopo la ricostruzione genetica, e d’altronde nessuno ci fa caso
seriamente.
Molte
associazioni che si oppongono alla disseminazione degli ogm — che
mostrano i rischi dei guasti forse irreparabili nell’"ecosistema",
insistono sulla necessità di avere garanzie e sicurezze, parlano di
«gestione accorta delle risorse» chiedendo moratorie sulle coltivazioni e
accompagnano la loro invocazione al "principio precauzionale" con la
rituale esortazione a prendersi cura dell’avvenire — non sono
convincenti. Non soltanto perché parlano di cautela, di
regolamentazione, di esperimenti — quando già nel 1998 svariate
coltivazioni geneticamente modificate si estendevano nel mondo su una
trentina di milioni d’ettari di terreno —, ma soprattutto perché
l’efficacia della propaganda poggia sul fatto che, essendo diventato impensabile l’avvenire, gli scenari della transgenica non si distinguono nemmeno più da una assurdità particolare. Il salto nell’ignoto
tutti sentono che bisogna comunque farlo, e se la questione è «Come
nutrire sette, otto, nove, dieci miliardi di uomini?», la risposta può
ben essere la transgenica. Certo la falsa coscienza media, debitamente
informata, ammetterà che l’innocuità delle biotecnologie non è
assicurata; ma come può pesare questa incertezza quando tanti altri
fenomeni inquietanti premono già attorno a noi, dalla sregolatezza
climatica alla precarietà dell’approvvigionamento dell’acqua, per
scoraggiare la riflessione e ogni genere di intervento contro gli
imperativi tecnici e le consegne del dominio.
Attendere
di poter constatare gli effetti delle biotecnologie per giudicarle
significa trascurare, tra le altre cose, che siamo proprio noi le cavie
di quegli esperimenti. Significa soprattutto rifiutare di pensare a quel
che abbiamo sotto gli occhi, non volerne vedere la mostruosità. In
effetti, e senza nemmeno dover esaminare gli organismi chimerici
elaborati in laboratorio, sappiamo che la transgenica genera mostri, nel
senso stretto, specie di nuovi esseri che esistono ma che non si
possono classificare, che non appartengono a nessuna categoria
conosciuta: animali acefali, supertopi dotati del gene di fabbricazione
dell’ormone della crescita umana, caprepecore, piante di tabacco che
producono l’emoglobina umana, piante di mostarda trasformate in
fabbriche di materie plastiche, agrumi creati da colture di tessuti, e
così via.
Ma
la mostruosità dei risultati non fa che palesare quella della
concezione stessa che mira a distruggere le categorie, la nozione stessa
di specie in quanto entità distinte e identificabili, e a trattare ogni
specie particolare «come una banca di geni potenzialmente trasferibili"
rimuovendo i confini naturali con le altre specie.
Per non distinguersi più
Stabilire
dunque una distinzione tra le biotecnologie significa rifiutare di
vedere che è la stessa potenza di disintegrazione a danneggiare tutte
le forme di vita, siano piante, animali o uomini, trattati come un
unico materiale genetico indifferenziato. Le biotecnologie dissolvono
tutte le distinzioni, tutta la sorprendente varietà dei fenomeni che la
natura aveva posto nei suoi regni organici e, al loro interno, tra le
specie. Esse non vedono che un brulichio di figure cangianti azionate
dall’interno da geni codifica(n)ti che sono la realtà comune di tutti i
fenomeni viventi; microprocessori biochimici ricombinabili a volontà e
all’infinito per confezionare altri fenomeni, inediti, più utili, più
comodi e specifici. La tautologia della razionalità tecnica ricopre
tutta l’estensione della vita: le macchine che permettono di realizzare
il sequenziamento del genoma sono anche quelle che forniscono il modello
teorico della "informazione genetica". Il codice genetico è esattamente
una creazione dell’era dei computer, e la straordinaria povertà di
questa ideologia del Dna, che si direbbe uscita armata di tutto punto
dal cervello degli informatici, esprime fedelmente quella del loro
formalismo logico. Ma questa miseria non ha proprio nulla di
straordinario né di particolarmente scioccante in una società che inizia
a plasmare fin dall’asilo il cervello dei bambini abituandolo al
computer, che sarà contemporaneamente il loro strumento di lavoro, il
loro mezzo di contatto con il mondo esterno e la loro effettiva dimora.
Una società in cui il progetto di un computer che obbedirebbe al
pensiero grazie a un impianto nel cervello dell’utilizzatore non provoca
alcuno stupore è una società che risponde in anticipo alla questione di
sapere quale margine di autonomia debba essere lasciato al pensiero
umano, alla coscienza, la cui scomparsa è proprio ciò che permette di
intravedere tale miglioramento del rapporto uomo-macchina.
Ciascuno
non è ormai che un esemplare intercambiabile di cui gli amministratori
dell’esistente non hanno alcun bisogno particolare e di cui niente può
giustificare l’esistenza, nemmeno ai loro stessi occhi. La società di
massa ci aveva già efficacemente condizionati a percepirci come
esemplari duplicabili di una specie: così entriamo senza troppo
turbamento nell’era della nostra riproducibilità tecnica (che, ancora
una volta, non ha bisogno di essere effettivamente generalizzata per
rendere vetuste le antiche concezioni di vita). L’"io" inorganico della
psicologia comportamentale — l’uomo plasmato dalla merce e dai suoi
rapporti sociali — non può trovare nulla da obiettare alla propria
dissoluzione nella programmazione neurochimica dei geni codificanti. Di
fatto, non solo gli sembra di non perdere granché, bensì di ottenere un
sentimento di sicurezza, l’assicurazione di essere con ciò meglio
integrato nel funzionamento generale delle macchine, e dunque della
collettività sociale, da non potersi ben presto nemmeno più distinguere.
I deliri dei "cyborg" e altre fantasie flessibili dell’avanguardia
tecnofila all’americana esprimono senza inibizioni né censura un
desiderio fra i più diffusi nella nostra atmosfera da catastrofe: essere
protetti attraverso la propria assimilazione, il proprio mimetismo
intimo con le macchine del dominio impersonale.
Nell’era
della biotecnologia, le specie separate con nomi separati stanno
cedendo gradualmente il passo a sistemi di informazione che possono
venire riprogrammati in un numero infinito di combinazioni biologiche.
Perché è molto più facile per la mente umana accettare l’idea di
programmare un sistema di informazioni che accettare l’idea di
programmare un cane, uno scimpanzé o un essere umano. L’idea di una
natura umana inalterabile, che potrebbe opporsi al progetto della nostra
riprogrammazione biologica come una forza vitale indipendente dalle
mediazioni tecniche, di cui basterebbe riappropriarsi, è d’altra parte
corrosa da troppo tempo dalle alterazioni che gli elementi tossici della
società industriale provocano nel nostro organismo: ci diventa
impossibile riconoscere la nostra integrità nel nostro corpo, quando
malattie, sindromi, squilibri dai percorsi misteriosi e dalle cause
definitivamente inafferrabili ce la alienano. La minaccia delle malattie
moderne (cancri di tutti i tipi, ma anche virus mutanti, e così via)
gioca per lo sviluppo dell’industria della manipolazione genetica lo
stesso ruolo di giustificazione che la minaccia nazista aveva giocato
per la messa a punto dell’armamento atomico da parte della megamacchina
"democratica".
Persino
gli oppositori agli ogm rifiutano in genere di affrontare questi fatti,
piuttosto scoraggianti, non avendo in realtà nessun’altra concezione
della vita da opporre a quella della ragione economica e rimproverando
al dominio soprattutto di non essere abbastanza scientifico. Ma non è il
«pensare all’avvenire», è il pensare in sé che si trova socialmente
colpito da paralisi, come dimostrano disgraziatamente codesti oppositori
che, pur di essere considerate persone "responsabili", sospendono il
proprio giudizio sulle biotecnologie dichiarando in anticipo di
accettarne gli aspetti medici "buoni", e limitandosi a reclamare un
ampio dibattito pubblico e democratico sull’argomento.
Un’impeccabile felicità
Come
stupirsi che una società che manifesta attraverso tanti comitati etici
il proprio sgomento sulla materia incontri tante difficoltà a tracciare
una frontiera oltre la quale ci sarebbe incontestabilmente un "oltraggio
degradante" alla condizione umana. Interrogarsi sulla "dignità umana"
di un embrione congelato è a dir poco spassoso, se si considera che
all’inizio per produrre tutto ciò la dignità era stata bellamente
trasformata in una nozione fra le più astratte (e l’umanità
altrettanto). L’indegnità dell’embrione congelato e immagazzinato in
attesa di un "nuovo progetto familiare", è il risultato di quella dei
suoi "genitori". La procreazione sempre più tecnicizzata, per produrre
la merce umana con migliori garanzie, ha logicamente fatto ricorso a
tutto ciò che potrebbe assicurare "zero-errori". Infine il passaggio
alla coltura di cellule madri embrionali prepara ora queste "terapie
germinali", che delle terapie hanno solo il nome, trattandosi di fatto
di modificazioni trasmissibili, di eugenetica positiva. Così che al
traguardo, quando più nessuno saprà di preciso cosa si potrebbe opporre
alla clonazione degli embrioni, oggi così "oggettivamente" necessaria,
si sarà costretti a constatare che tutti questi progressi
dell’eugenetica razionale si sono susseguiti secondo una logica dal
rigore inflessibile, alla quale del resto né i tecnici della
procreazione medicalizzata né i suoi "utenti" si sono curati di
resistere, aspirando anzi gli uni come gli altri a spingerla "più
lontano".
In
modo ancora più marcato di quello che era stato il caso dell’antica
eugenetica (nazista ma anche americana o svedese), i tecnici della
biologia si mostrano in qualche maniera socialmente predestinati a
sviluppare, senza scrupoli né cinismo ma in tutta buona fede, questa
ideologia dei geni "buoni" e "cattivi". Ora, che la società capitalista
definisca "buono" ciò che facilita la sua perpetuazione, essi sono certo
pagati per saperlo, ma vanno anche oltre. Seguono con tanta fiducia le
regole dell’efficacia funzionale, e i loro interessi si sono così
naturalmente sedimentati nel loro "pensiero" diventato semplice funzione
del processo di produzione, che in tutta spontaneità e anche con le
migliori intenzioni del mondo essi vedono nei comportamenti "anormali" —
soprattutto socialmente — semplici disfunzioni biologiche che si
possono e si devono correggere per mezzo di interventi chimici e oggi
genetici. Quando qualcuno domanda: «Se si hanno i mezzi per migliorare
gli uomini, perché non farlo?» esprime una concezione secondo cui sono
gli uomini ad essere "cattivi", inadeguati, non all’altezza, rispetto
all’impeccabile razionalità del sistema e a quella dei modelli di
adattamento che sono i ricercatori stessi. Dal canto loro, i genitori
per cui, in un ambiente sociale di competizione sempre più duro, la
produzione di un bambino rappresenta un investimento finanziario sempre
più elevato, sono tanto più portati ad accordare fiducia alla
"scoperta", pubblicizzata dai media, del gene della schizofrenia, della
depressione, dell’alcolismo, della nevrosi, dell’adulterio,
dell’omosessualità, dell’aggressività, eccetera. Scoperte false,
abusive, assurde ma la cui pubblicità permette di diffondere, sul
modello delle malattie ereditarie, l’idea di una determinazione genetica
delle prestazioni sociali, e di giustificare così, oltre alla presa in
carico medica fin dalla gestazione, i test genetici che perfezionano la
reificazione completa dei bambini in oggetti di soddisfazione dei loro
genitori, in prodotti da "ottimizzare", con successivamente tutti i
complementi alimentari, i trattamenti chimici, le logiche
d’apprendimento.
«Se
un individuo superiore, e presumibilmente il suo genotipo, è
identificato, perché non copiarlo direttamente piuttosto che andare
incontro a tutti i rischi, inclusi quelli della determinazione del
sesso, coinvolti nella confusione della ricombinazione (la procreazione
sessuale)? Si lasci la riproduzione sessuale per scopi sperimentali:
quando si trova un tipo adatto bisogna essere sicuri di mantenerlo per
mezzo della moltiplicazione dei cloni».
dr Joshua Lederberg
Niente da tramandare
Rinchiusi
nei loro laboratori bioinformatici, i profeti del Dna ricombinante
promettono di «rifare l’Eden» moltiplicando le nuove specie; paradiso
che accoglierà i nostri successori evolutivi, frutto dei loro lavori.
Ma
non è soltanto per il progresso della medicina scientifica che gli
uomini non si rassegnano più a morire, è soprattutto perché hanno la
certezza di essere dimenticati in fretta, di non lasciare nulla dietro
di sé, per non avere trasmesso niente, per non scorgere attorno a sé
nessun discendente intelligibile, per essere stati nel corso della loro
esistenza nient’altro che pezzi staccati completamente intercambiabili
all’interno di una macchina sociale che non conserverà alcun ricordo del
loro passaggio. Se ormai vivere significa essere niente, morire è non essere mai stati.
Questa triste evidenza, a cui è difficile rassegnarsi, è una delle
principali determinazioni dei soggetti moderni e della loro tendenza
depressiva; che fa accettare, sulla promessa di qualche anno
supplementare «in piena forma», che tutta la vita trascorra in una
totale dipendenza dalla società organizzata in cui ci troviamo
rinchiusi. In altri tempi si lasciava il proprio corpo alla scienza; ora
le apparteniamo da vivi, proprio come un cadavere, ancor prima che ci
smembri nei suoi ospedali.
[Diavolo in corpo n. 1, dicembre 1999]
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