da .finimondo
«Se l'Ilva chiude come faremo, come daremo da mangiare alle nostre famiglie?»
(un operaio dell'Ilva)
Tocca all'Ilva, ad una delle più mostruose fabbriche italiane.
Chiusa, di punto in bianco. Non dal suo consiglio di amministrazione a
fronte di fallimenti o piani di ristrutturazione, delocalizzazioni o
quant'altro, ma dallo Stato. La magistratura ha scoperto, dopo
puntigliosa inchiesta dei carabinieri, che quella fabbrica avvelena ed
uccide. Di giorno produce (legalmente), di notte inquina (illegalmente).
Sembra una battuta di cattivo gusto, ma è la verità. L'llva, la
fabbrica della morte famigerata in tutta Italia, causa del decesso di
centinaia e centinaia di persone, delle patologie di migliaia d'altre,
vero e proprio flagello per la città di Taranto, da decenni oggetto di
innumerevoli inchieste e denunce, ha visto l'intera area a caldo dello
stabilimento venire posta sotto sequestro, con tutti i suoi impianti.
Agli arresti domiciliari otto suoi dirigenti, vecchi e nuovi.
Sbalorditi gli industriali, che per bocca della Federacciai fanno
sapere: «Se un impianto in regola con le norme ecologiche può essere
chiuso da un magistrato sulla base di correlazioni tra l'esistenza
dell'impianto industriale e la salute, non vi è più alcuna certezza nel
diritto... La siderurgia italiana reagirà duramente a ogni tentativo di
mettere in discussione, per una distorta ideologia ambientalista, la
presenza dell'industria nel territorio...». Che scandalo uno Stato che
si oppone alla «vocazione» dell'industria! Da quando in qua la salute
degli esseri umani viene prima del profitto?
Sbalorditi gli operai, che hanno bloccato l'intera città in segno
di protesta, occupando, si mormora su suggerimento del sindaco, anche il
Municipio. Migliaia e migliaia di persone scese in strada. Suvvia, non
scherzate. L'Ilva è la più grande azienda siderurgica d'Europa, ovvio
che inquina e avvelena. L'avete sempre saputo e ve ne siete sempre
fregati. L'abbiamo sempre saputo e ce ne siamo sempre fregati. Perché dà
lavoro ad un'intera città, ad un'intera provincia, ed oltre. Non potete
chiuderla. Deve essere riaperta, deve continuare a produrre, ad
inquinare, ad avvelenare, a far ammalare noi e le nostre famiglie, ad
ucciderci.
Di fronte alla mobilitazione in massa di una città intera, a
blocchi e ad occupazioni, non sono mancati quelli che hanno esultato,
che si sono commossi di fronte a questa manifestazione di orgoglio
operaio, di fronte all'apertura di un nuovo e così vasto fronte di
lotta. Finalmente, operai in lotta in difesa del posto di lavoro. Nuova
benzina sul fuoco. E sia. Ma come si può fare a meno di pensare a quanto
miserabile sia questa rivendicazione, a quanto meschine siano le
ragioni di queste lotte che stanno scoppiando in difesa della mera
sopravvivenza? La chiusura di una fabbrica di morte dovrebbe essere una
festa per tutti. Caso mai, a far infuriare è il fatto che sia decretata
dai beccamorti togati che d'un tratto riscoprono i loro cavilli e li
utilizzano zelantemente.
La sopravvivenza in pericolo dovrebbe essere salvaguardata dai
saccheggi ai supermercati, dall'assalto alle banche, dal rifiuto del
denaro e della proprietà privata, dalla gratuità, dalla solidarietà,
dalla sperimentazione di un nuovo modo di vivere. No, troppo idealista,
troppo distaccato dalla realtà quotidiana. Meglio essere concreti, più
pratici. Eccola qui la riproduzione sociale, con tutto il peso del suo
ricatto: «Quando l'operaio comincia a lavorare alla "catena" prova
frequentemente un malessere. L'uomo "non è fatto" per questo genere di
operazione. Gli operai sono tentati di abbandonare, di chiedere
cambiamenti di posto, sono instabili, ciò che rivela un profondo
malessere. Ma entra in gioco la necessità e li mantiene al loro posto:
sono obbligati a guadagnarsi la vita e la disoccupazione è sempre una
minaccia. Allora gli operai si abituano... e si fissano. Quando li si
interroga si dichiarano soddisfatti e non desiderano cambiare. Questo
pure può provocare per loro una vera paura. Si può allora interpretare
questa risposta come un sintomo assai soddisfacente: l'operaio è felice.
Ma si può anche interpretarlo in modo completamente diverso:
l'esercizio costante del lavoro impersonale ha finito per
spersonalizzare l'operaio che lo esercita, è stato sagomato dal suo
lavoro, foggiato per l'uso di questo lavoro, meccanizzato, assimilato».
Quanto sta accadendo a Taranto è una delle più drammatiche
dimostrazioni che questo modo di vivere, questa civiltà, questo mondo,
non si può riformare. E che anziché tacere questo aspetto per paura di
non essere ascoltati, per timore di restare isolati dalla massa, occorre
viceversa sottolinearlo, urlarlo. E farlo adesso, nel cuore della
tempesta, senza aspettare di aver guadagnato un pizzico di fiducia
popolare solo a condizione di aver avvalorato (e quindi prolungato) la
più ignobile delle illusioni.
[28/7/12]
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