Perché
negarlo? In fondo trascorriamo la nostra esistenza perennemente in
attesa di qualcosa. Della felicità, della verità, della giustizia... Sì,
d'accordo, lo diciamo e ripetiamo che nessuno può darci ciò che
desideriamo, ma in cuor nostro continuiamo a confidare che prima o poi
qualcosa di buono accada, che l'accanimento sociale cessi, che chi
amministra questa società si comporti in modo più "giusto". E mentre
tutto scorre come d'abitudine attorno a noi, al ritmo costante
dell'atrocità distillata, ci dibattiamo senza determinazione all'interno
di uno dei contenitori allestiti per noi, sempre più incapaci di
diventare gli artefici del nostro destino, paghi di un qualche
riconoscimento della nostra esistenza presso amici e nemici.
No, non riusciamo proprio a scrollarci di dosso la sensazione di
eterna aspettativa, quella che ci spinge a denunciare la malvagità degli
uomini in divisa che torturano, l'avidità degli industriali che
inquinano, la corruttibilità dei politici che ingrassano, l'ipocrisia
dei giornalisti che mentono, l'ingiustizia degli uomini con la toga che
condannano. Una denuncia che non è premessa ad una nostra azione
conseguente – luce del cervello che provoca lo scatto del braccio – ma
che, con l'incedere del prosciugamento di desideri avvenuto nel corso
degli anni, si manifesta come mera sollecitazione a correggere quella
altrui.
Noi lo sappiamo cosa fate e vi stiamo guardando, quindi che i
poliziotti, gli imprenditori, i politici, i giornalisti, i giudici, la
smettano di brutalizzare, di avvelenare, di lucrare, di manipolare, di
ingabbiare. Laddove l'azione diretta diventa difficile, non resta che la
pressione indiretta. No, non la pressione di un oceano in burrasca,
tutt'al più si tratta della sferzata di poche gocce d'acqua. Tutto ha un
inizio, dicono i più generosi ed ottimisti. Senz'altro. Attesa per
attesa, c'è chi fa affidamento sulla riabilitazione del proprio braccio
paralizzato e chi conta sulla riabilitazione degli altrui propositi. Ma
non è proprio su questo che prolifera «la dittatura della merda»?
Ora la sentenza è stata pronunciata. Ora l'ennesimo avvertimento è
stato dato. Ora è stato sancito che da questo momento sul capo di chi
scenderà in strada, di chi eleverà la propria protesta fuori dagli
steccati istituzionali o filoistituzionali, pesa una ulteriore minaccia –
«Devastazione e saccheggio».
Ora, che fare? Indignarci per la discriminazione che è stata
compiuta, l'ingiustizia che è stata fatta, la deriva autoritaria che è
stata presa, lo stato d'eccezione che è stato instaurato... o piuttosto
mettere da parte una volta per sempre ogni sbigottimento per
l'immancabile intimidazione lanciata dallo Stato. Ed insistere,
persistere, continuare ognuno a modo proprio, scoprendo nuovi angoli
d'attacco, forgiando i propri strumenti, senza più concessioni, senza
più attese.
[14/7/12]
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