da ekbloggethi
I morti hanno cose da
dire, chi parecchie e chi poche. Si fa solo una gran finta
d'ascoltarle, però; si preferisce metter loro in bocca le nostre.
Funziona come nella pubblicità, ci fanno da testimonial.
Per mezzo dei morti non si parla dei loro sogni, dei loro ideali e
delle loro lotte; si parla di noi. S'affida loro quel che siamo; i
morti, del resto, sono ubbidienti e non protestano. Sono messi in
campo, da chi li ha, i ricordi;
diretti da chi li ha conosciuti di persona, più o meno a fondo;
altrimenti si ricordano le epoche, le situazioni, le comunanze e le
differenze vere o presunte. Ma neppure se i ricordi non esistono si
rinuncia per questo ai morti; ci sono i libri, le testimonianze, le
fotografie, le inchieste. E così i morti assolvono al loro vero
compito, quello di darci una parvenza di vita. Si dice che sono
sempre vivi e che non moriranno mai (nella lotta, nell'idea, nel
cuore); ma quella loro eternità è in realtà la nostra esclusiva
sopravvivenza. Popolano i nostri sogni e i nostri incubi;
periodicamente il loro ricordo è rinovellato, in “anniversari”
sempre più lontani. Per le strade delle città sfilano i superstiti
generazionali; barbe bianche, capelli incanutiti, bastoni, passi
incerti. Mazzi di fiori, slogan, promesse di continuità; eppure, io
dico che non siamo capaci di cogliere l'unica cosa veramente
importante che quei morti ci vorrebbero dire. Quei ragazzi, quelle
ragazze. Perché avevano vent'anni e in qualche caso nemmeno quelli.
Vorrebbero
dire che sono morti nel loro presente. Che per quello sono andati a
farsi ammazzare, mentre noialtri s'invecchia sfilando. Oppure
s'invecchia ridotti a atomi inaciditi, curando più di presentarci
come unici portatori di verità che sono tante quanti siamo; ognuno
con la propria, e ognuno pronto sempre a scannare chi non la
riconosce o la critica (promuovendo, naturalmente, la sua). E così
si parla di “coscienza di classe” quando l'unica coscienza che ci
è rimasta, in abbondanza, è quella della propria irripetibile,
irrinunciabile, insopprimibile individualità. La “classe”
dovrebbe sempre essere a nostra immagine e somiglianza; e,
ovviamente, sono i morti che lo dicono. Verso i quali, inutile dirlo,
s'ha generalmente una malcelata invidia. Parecchi pagherebbero per
essere morti al loro posto, in modo da farsi sfilare addosso ancora
trenta o quarant'anni dopo. Senza accorgersi che anche adesso c'è un
presente, e che cercare di sfuggirvi è la vera immagine della resa.
Non sarebbe un problema, se non si dichiarasse ogni momento non
soltanto che non ci si vuole arrendere, ma persino che si vorrebbe
insegnare agli altri a smettere di farlo. Non arrendersi significa
soltanto una cosa: rapportarsi col presente. Non scappargli davanti.
Il presente è sempre schifoso; se non fosse schifoso non sarebbe
presente. Sarebbe un passato scivolato in miti che diventano pian
piano ridicoli, o un futuro che è una fitta nebbia di vaghe paure e
disperazioni. Chi è morto voleva cambiare il presente. Si è
ritrovato davanti lo stesso presente di polizia, su un lungarno
pisano o in una piazza genovese. Il presente ha bussato e ha colpito.
E
così i morti si sono impossessati di noi. E' stato facile. Dispersi,
sconfitti, isolati. La disfatta è stata vissuta in parecchi modi,
che hanno abbracciato ogni situazione: dalla miseria nera alla
ricchezza, dalla lotta allo sganciamento totale, dalla vitalità
all'abulia, dalla logorrea al silenzio. L'unica cosa in comune per
tutti: i morti. Su di loro non si deve neppure azzardarsi a
discutere, ed i primi a dover stare zitti sono loro. Se parlassero,
sarebbero casini. S'incazzerebbero anche parecchio nel vedere a che
cosa si sono ridotti i cosiddetti vivi; andrebbero a parlare, invece,
ai loro coetanei che non sanno nemmeno della loro esistenza. Franco
Serantini, vent'anni, andrebbe a parlare al ragazzo di una qualche
periferia che non ha mai saputo niente di lui; dopo un po', qualcosa
da dirsi lo troverebbero senz'altro. Carlo Giuliani non si rivolge
più a chi, ogni venti di luglio, va a far gruppetti sempre più
sparuti in quella piazza che si chiama sempre Alimonda. Piazza Franco
Serantini e piazza Carlo Giuliani dovrebbero essere ovunque c'è un
presente da combattere e mutare nelle barbe delle radici; non sono
inutili targhe stradali. Sí che andrebbero a parlare a coloro verso
i quali non si nutre che perplessità, sufficienza, disprezzo. Con
tutti i nostri morti giovani siamo diventati come tutti quanti i
vecchi, dicendo magari che si è gli unici ad essere stati giovani.
Sfruttando i morti si è inteso precludere per sempre la gioventù
agli altri, sbeffeggiando altri e diversi presenti come inesistenti.
Le rare volte che il presente è sembrato produrre una scintilla, la
sola cosa che s'è fatta è stata rapportarsi al passato: è
tornato il novecento! Incapaci
di smuoversi da un lontano presente, neppure realmente vissuto in
molti casi, che è diventato oramai un remoto passato tenuto
artificialmente in vita soltanto grazie ai morti. X è vivo e lotta
insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai! Ecco lo slogan che
riassume perfettamente lo stato di cose; lo urlano tutti, vecchi e
giovani; e, invece, X è morto e le nostre idee sono cinquecento o
mille strani individui che passano con striscioni e vessilli che la
gente scambia per quelli del Milan. Ci ripetiamo la canzoncina per la
quale saremmo l'uno per cento, ma siamo molto, molto meno. Preferiamo
dirci che esistiamo ancora e che commemoriamo uno dei nostri tanti
morti, piuttosto che cercare magari di diventare il due, il tre, il
dieci per cento. Preferiamo rinchiuderci in piccoli ghetti senza
riconoscere che, nella stragrande maggioranza dei casi, abbiamo una
paura fottuta. Quella, ad esempio, di fare la stessa fine di colui
che stiamo commemorando. Che sto commemorando anch'io. Di quello che
voleva impedire di parlare al fascista, cascasse il mondo su un pero;
e, invece, il mondo è cascato addosso a lui. Una paura mista, però,
all'invidia di cui si parlava prima; come se si desiderasse, e non
poco, essere morti quarant'anni prima; oppure che qualcuno inventasse
la macchina del tempo per andare a morire sul lungarno Gambacorti, o
in Spagna, o chissà dove. Morire giovani dopo aver vissuto una breve
ed esaltante stagione; a volte m'è preso il sospetto che, a molti,
interessasse soltanto quello. Che, in definitiva, cambiare lo stato
di cose interessasse loro parecchio di meno; che la “rivoluzione”
fosse in sottordine rispetto alla bella e toccante sconfitta, e che
la loro vita successiva non fosse che un'appendice da riempire di
lamenti, di disillusioni, di invettive e di morti. Infatti, chi non
ha agito così è prima o poi tornato in galera; come Antonio
Ginetti, perché a me piace fare nomi e cognomi. Come Alfredo Maria
Bonanno, che non più di pochi anni fa era ancora in galera in Grecia
nell'indifferenza quasi generale (anche di parecchi “anarchici”).
Come chi ha ascoltato davvero i morti. Come Sole e Baleno, che sono
diventati morti anche loro, anche se meno “commemorati”. Come chi
non ha cessato di considerare la distruzione dell'ordine in tutte le
sue forme come presupposto necessario per un mondo a venire.
E
allora, dai, sí, sfiliamo in una giornata calda di maggio. Guardati
quasi come marziani dalla gente che passa. Eppure, stiamo facendo un
percorso che, in quel lontano presente, era di contrapposizione dura,
di scontro. Ci fermiamo davanti al punto esatto dove Franco Serantini
era stato picchiato a morte e portato via, e tutt'intorno non c'è
altro che la sonnacchiosa tranquillità di una bella città al sabato
pomeriggio. I turisti, le mamme con le carrozzine, i bambini coi
pattini e col gelato. L'Anarchia, con le sue bandiere e il suo morto,
sfila in mezzo ad un ordine talmente consolidato da potersi
permettere anche un manipolo di bizzarri individui che vanno da una
piazza a un'altra a deporre davanti a un blocco di pietra corone e
mazzi di fiori, altre bandiere e persino un bicchiere di vino rosso.
In quel preciso momento, avrebbero potuto parlare tranquillamente, da
qualche altra parte, non un Niccolai, ma cinque o dieci come lui.
Senza colpo ferire. La polizia? A debita distanza, quasi invisibile.
E Franco Serantini, lui, il morto, dovrà avere avuto dei sentimenti
contrastanti; “ma guarda tu questi qui”, avrà detto col suo
accento sardo, “invece d'andare a smontare pezzo per pezzo un
Emmeesseì (è rimasto un po' indietro il ragazzo, non sa di Forza
Nuova e di Casapound) mi rifanno il funerale.” “E che vuoi farci,
Franco?”, gli ho detto mentre bevevo il resto del vino rosso;
“siamo tre gatti...” “Ma veramente siete quasi in mille!” “E
che si fa in mille...?” “Tante cose, compagno. Tante cose. E da
mille si diventa duemila, forza. Non state a perdere tanto tempo con
me, che sto tanto bene. Ce lo avessi avuto io quel bel presente di
merda che ci avete voi...”
E
così ha salutato e se n'è volato via. Ve lo faccio vedere com'è
arrivato alla fine del corteo, nella “sua piazza”; ora vola, e
vola, e noialtri s'ha da fare per bruciare questo presente.
Nessun commento:
Posta un commento