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mercoledì 11 aprile 2012

Terrore e unità nazionale




Questo mondo produce quotidianamente orrore. Nelle guerre che gli Stati si fanno tra di loro, o contro gruppi che – benché non si possano definire propriamente Stati – non anelano che al potere e al dominio sociale e politico. A suon di bombe o di altre armi che colpiscono ben oltre i cosiddetti avversari indicati, che colpiscono cioè centinaia e migliaia di individui che non chiedono di partecipare a queste guerre, in ogni caso che non desiderano creparvi. Il massacro e la mutilazione permanenti si estendono fin nelle conseguenze sociali che derivano dal capitalismo: col suo lavoro, la sua industria, le sue nocività, le malattie che provoca copiose. Giorno, dopo giorno, dopo giorno.
Questo orrore diffuso diventa banale, lo si evoca citando cifre: dieci morti qui, trenta morti là, centinaia e migliaia di feriti. Banale come un'ecatombe in seguito a uno tsunami, a un terremoto, fatale come lo sono i periodici furori e scatenamenti della natura. Lo si evoca (talvolta per alcuni è più utile evocare il dramma che tacerlo, anche le lacrime possono essere produttive in modo interessante in questo mondo putrefatto), lo si fa scivolare nelle notizie di cronaca, rapidamente, perché in fondo non c'è nulla di sostanziale da dire. Cittadini, non scordatelo, il dramma è quello, la morte bussa sempre alle nostre porte, e al suo cospetto come sono dolci la sicurezza e la stabilità che lo Stato ed il flusso delle merci apportano! Che la miseria quotidiana della sopravvivenza continui e tutto andrà per il meglio.
Ma, d'un tratto, ecco che un fatto fra gli altri interrompe il trascorrere del tempo, che un orrore fra gli altri incrina lo schermo, che la normalità fa una pausa, ecco che bisognerebbe mettersi a riflettere mentre nel resto del tempo si deve correre proprio da nessuna parte. Ecco che non si tratta più di qualche «notizia dell'orrore», lontana ed insignificante, ma dell'Orrore, con la sua figura terrificante, la morte terrorista appollaiata su un potente motorino e vestita di nero, che ha l'astuzia di celarsi sotto un casco integrale per sfuggire ai prodi cavalieri della polizia giudiziaria. Dietro di sé lascia sette morti. 
Torniamo velocemente indietro. Sì, la morte colpisce continuamente, non la morte che ti toglie la vita in modo tranquillo, non solo quella che fa sì che ti addormenti nel tuo letto una sera senza risvegliarti la mattina dopo. Non solo quella che ti ricorda che, volente o nolente, la vita degli esseri umani non dura che qualche decennio e che ogni cosa ha una fine. No, quella che bussa brutalmente, che lascia sulla propria scia il suo fardello di storpiati e mutilati, oltre ai cadaveri; quella che lascia anche il terrore, che cerca di stamparlo nel cranio di chi sopravvive. Che vuole colpire le menti per meglio paralizzare i corpi, spossessare gli individui di qualsiasi determinazione autonoma e concreta della propria esistenza. Come a dire, una morte che ha dei mediatori, dei responsabili. Essi agiscono sempre nel nome di una ideologia, sia essa politica (democratica o meno) o religiosa (poco importa quale), oppure di entrambe al tempo stesso. La falce che si abbatte per uccidere e terrorizzare non cade dal cielo o, se ciò avviene, è con un cacciabombardiere o un lanciamissili a lunga gittata, e non attraverso i fulmini divini. Non proviene da una «mano invisibile», ma da un braccio sovente ricoperto con un tessuto color kaki, e poco importa quale mostrina vi sia appuntata.
Nel caso che conduce a queste riflessioni, sarebbe stato assai plausibile che sotto l'abito nero del «motociclista squilibrato» si nascondesse anche quello kaki, poiché una delle prime eventualità elencate era che si trattasse di un ex parà con tendenze neonaziste che voleva sfogare le proprie pulsioni razziste su ex colleghi troppo abbronzati per i suoi gusti, e su persone identificate come «ebrei».
Cosa che, intendiamoci su questo, era nell'ordine delle possibilità. Mohamed Merah, l'uomo identificato ed infine giustiziato dal Raid, aveva in passato cercato di arruolarsi nell'esercito, nella Legione straniera. Avrebbe potuto tranquillamente uccidere altrimenti, e altrove. L'abbiamo visto qualche settimana fa, quando un G.I. americano in servizio in Afghanistan è uscito dal suo campo per andare a sparare nel mucchio in un vicino villaggio, massacrando indistintamente numerose persone. E sì, l'esercito francese è parecchio attivo in Afghanistan – e altrove – sotto l'egida della Nato; occupazione che gli Stati chiamano «missione di messa in sicurezza, assistenza e di passaggio delle competenze in quell'ambito allo Stato afgano», e che noi chiamiamo semplicemente guerra e occupazione militare. Questo significa, a meno di voler cambiare il significato delle parole, bombardare, uccidere, massacrare, pacificare con la forza e la violenza, controllare, umiliare, perquisire e all'occorrenza giustiziare. Se l'«assassino di Tolosa» fosse stato preso all'epoca nell'esercito, per forza di cose si sarebbe concluso che era stato formato alla stessa scuola dello Stato. In quel caso non lo si sarebbe definito «assassino sanguinario», bensì «soldato semplice». Nel caso di Tolosa e di Montauban, l'atto di premere il grilletto non è stato dato dal comando militare, e gli obiettivi non sono stati da esso designati. Non in questo caso, appunto. Ma in ben altre situazioni, in molte altre situazioni, sì.
Così, quando lo Stato decide di cancellare dalla mappa interi villaggi o città, ovvero migliaia di vite umane, con il napalm, la bomba termonucleare, i famosi missili chirurgici o qualsiasi altro bel gingillo in suo possesso, è la ragione che parla, la civiltà, la democrazia, e anche – finendo nel cinismo – il Progresso e la «libertà». Quindi esistono l'orrore e i massacri giustificati, le guerre giuste e le guerre sante, e poi c'è «l'assassino in motorino di Tolosa». Secondo una folla di esperti accorsa con la bava alla bocca appena il sangue è scorso sul marciapiede, costui è un «pazzo isolato», uno «squilibrato con motivazioni ideologiche», un «terrorista individualista» (sic!). Siamo chiari: non si piange la morte di un tipo del genere. Ma ciò detto, siamo chiari fino in fondo: cos'è che negli ultimi giorni ha caratterizzato quello che politici, media e rappresentanti comunitari hanno definito «dramma nazionale»? La risposta più evidente che prorompe: «non si colpiscono bambini» e «attaccare persone in base alla loro religione, al colore della pelle, o alle loro presunte origini, è una barbarie».
Una barbarie, certo. Sono spiacente, ma personalmente non conosco barbari. Conosco solo individui che devono sopravvivere in mezzo alla civiltà, fra le maglie della grande frantumatrice economica (che divora anche bambini), che la politica spesso arruola sotto bandierine verdi, azzurre, rosa, rosse, tutte tricolori alla fine. Alcuni si adattano abbastanza bene, altri non ce la fanno; gli uni gridano «viva la patria!», altri ne hanno le scatole piene e si tirano un colpo in testa o si impiccano, lasciando una frase che suona pressappoco «il lavoro mi ha ucciso». Gli uni si arrangiano come possono per raccattare qualche briciola, pronti a fregare altri come loro costretti ad arrangiarsi. Gli uni tessono le lodi delle virtù di questa società, del lavoro e della famiglia, gli altri (a volte gli stessi) s'imbottiscono di Prozac solo per... tirare avanti. Ce ne sono anche alcuni che non ne possono più di questa vita di merda, ma che prima di schiattare si ribellano, mordono la mano al padrone, rovinano la vita a chi dà ordini. Alcuni fra loro non se la passano troppo male, altri (quanti milioni in questo pianeta murato?) finiscono dietro le sbarre. Altri ancora vengono ammazzati dagli sbirri. Qualcuno spara nel mucchio, spesso rivendicando una causa, o a partire da ciò che si suole definire nichilismo.
Vedo molto bene tutto questo, ma non ho mai visto un barbaro. Barbaro, barbaro... ah sì, barbaro, quello che per definizione si oppone alla civiltà. C'è la civiltà e c'è la barbarie. I barbari ed i civilizzati. I cittadini ed i selvaggi. Gli uni sono cortesi ed educati, mangiano a tavola e sono puliti, sono saggi a scuola, utili alla società, e questa rende loro omaggio con una piccola lapide di marmo nell'ora fatale. Gli altri... che orrore! Ma in questo caso si tratta di un nuovo tipo di barbaro, di un barbaro che corre su una T-Max Yamaha equipaggiato con armi automatiche. Un barbaro al culmine della tecnologia, e animato da una ideologia. Mettiamo un po' d'ordine in questo merdaio. Armi da guerra, potente veicolo a motore, razzismo, ideologia, comportamento freddo e controllato, arte del grilletto e pure videocamera incorporata. Il nostro barbaro non era vestito con pelli animali, non teneva in mano una rozza clava, aveva sicuramente in testa un argomentario ben ponderato per spiegare perché bisogna eliminare metodicamente e freddamente tutto ciò che è «ebreo» (i militari, sono un'altra cosa) dalla faccia della terra. Isolato, dite? «Pazzo»? «Terrorista»?
Isolato. Non di certo. Per nostra disgrazia, di persone che pur senza premere il grilletto all'impazzata sono animate dall'ideologia razzista e/o religiosa ce ne sono state un sacco nel passato, ce ne sono parecchie ancora oggi, e questo a tutti i livelli e in tutti i posti della società, «servitori di Dio» così come militari, persone qualsiasi o personaggi dello Stato. L'«assassino in motorino» ha agito forse da solo, ma ciò che lo ha fatto agire, la sua rancida ideologia, occupa la mente anche di un gran numero di persone. In altri termini, si parla dell'albero che nasconde la foresta o della punta visibile di un iceberg.
Pazzo. Come dire... In fin dei conti questo termine è distorto come quello che indica i famosi «barbari». Chi è pazzo, chi è «sano di mente» e incarnazione della Ragione Pura – ampia questione che magari agita freneticamente i pensieri e i calcoli di esperti, sociologi, medici, genetisti, psicologi, psicanalisti, psichiatri e altri psicoterapeuti, ma che a dire il vero ci lascia alquanto indifferenti. La follia viene descritta a volte come l'incapacità di conformarsi alle norme sociali, altre volte come il risultato al contrario di un eccesso di normalità, si parla dei pazzi d'amore, dei pazzi da legare. Il denaro, il potere, l'ambiente circostante deprimente, il lavoro, la gelosia, l'automobile come la metropolitana, il possesso e lo spossesso, la reclusione, le medicine infine, rendono le persone «pazze». La società rende «pazzi». Parlare di follia nel caso specifico significa impedire di mettere il dito sull'ideologia e sulla logica morbosa che stanno dietro all'atto.
Terrorista. Per il momento si sa che l'assassino ha ucciso e che ha creato un certo terrore. Forse il suo scopo era solo quello di uccidere, forse voleva al tempo stesso uccidere e seminare terrore. Ma non lo sappiamo. Pensiamo di aver detto abbastanza all'inizio di questo testo a proposito della questione del terrorismo: che si invochi il Führer, non so quale Dio o profeta, o la Repubblica democratica, un massacro (più o meno discriminato, non fa una grande differenza) resta un massacro, e il potere resta il potere, il dominio vuole dominare, e perciò uccidere in massa e terrorizzare vanno di pari passo; terrorizzare e controllare (in maniera più o meno violenta), terrorizzare per sfruttare. Lo Stato è necessariamente terrorista, è lui che ha creato il concetto di Terrore e la realtà che ne consegue.
Ed è lo Stato che pretende, non solo a partire da quel lunedì in cui quattro persone sono state abbattute in una scuola di Tolosa, ma da decenni, di condurre la lotta «antiterrorista». «La Repubblica è molto più forte del terrorismo», declama il capo dello Stato. Sarebbe facile rispondergli (se avessimo la bizzarra idea di voler dialogare con il potere): «La Repubblica è forte come il terrorismo, per mezzo del terrorismo». Certo sarebbe semplicistico vedere nel dominio solo il risultato del terrore imposto con la forza. Esiste anche una forma di consenso, di interesse talvolta condiviso fra lo Stato e alcuni pezzi della società, di accettazione più o meno velata di disgusto. Servitù volontaria e rassegnazione, servilismo per vigliaccheria o per convinzione, per paura o per rassegnazione. Una rassegnazione più o meno monetizzata. Una sottomissione ottenuta col ricatto di crepare di fame, di ritrovarsi sulla strada. Con la carota ed il bastone, con il salario e la prigione. 
Fatto sta che il governo ne ha approfittato per decretare il passaggio al livello «scarlatto», ossia il massimo grado, del piano Vigipirate nella regione meridionale dei Pirenei e nei dipartimenti limitrofi. Non una sola delle carogne politiche, adoratrici del potere, che l'abbia criticato su quel punto, e questo può stupire solo gli stupidi. Nella fraseologia cangiante propria della lingua di Stato, ecco a cosa mira il piano Vigipirate elevato a quel livello: «prevenire il rischio di attentati maggiori (simultanei o meno), avviare appropriati mezzi di soccorso e di risposta, possibilità di mettere in atto misure particolarmente restrittive, proteggere le istituzioni e garantire la continuità dell'azione di governo». In due parole come in mille: occupazione poliziesca e militare ad ogni angolo di strada, sorveglianza onnipresente, possibilità di controlli in qualsiasi momento, in ogni luogo e senza «giustificazione formale», paura diffusa. Si tratta dell'ultimo stadio prima dello stato d'emergenza. La stessa cosa dei tempi normali, si sarebbe tentati di dire. Sì, solo con in più l'effetto dell'annuncio, e con un po' più di intensità e soprattutto di mezzi. Il piano Vigipirate è attivo dall'inizio degli anni 90, al livello «rosso» dopo gli attentati a Londra nel 2005. Ma la democrazia si riserva sempre la possibilità di stringere o allentare la stretta del suo controllo sociale sulle popolazioni in funzione della situazione: sommosse generalizzate, situazione pre-insurrezionale, stato di guerra, catastrofe nucleare... Le situazioni cosiddette d'emergenza, decretabili e moltiplicabili a piacimento, permettono di meglio radicare nella mente e nella vita di ciascuno l'abitudine ad essere rinchiusi, sorvegliati, trasferiti, schedati, controllati. Di riconfermare il monopolio della violenza nelle sole mani dello Stato, e in modo visibile, perfino dimostrativo. È quindi inutile indignarsi davanti a presunte «leggi eccezionali» che sarebbero il rovesciamento della normalità democratica. Le due cose sono inseparabili.
Che dire inoltre di questo mondo polarizzato in identità immaginarie? Quando l'assassino ammazza persone di origine musulmana, vengono convocati i «rappresentanti» della «comunità» musulmana per esprimere il proprio cordoglio. Poi, quando vengono ammazzate persone di origine ebraica, si convocano gli equivalenti ebrei. Come se il dispiacere causato dalla morte di un individuo riguardasse solo i suoi correligionari, come se dovesse appartenere per forza ad un gruppo sociale ben definito. È in questa confusione identitaria tipica dell'epoca, unita a quella che Dagerman definiva «dittatura del dispiacere», che il velo nauseante dell'autorità consolida il proprio dominio sui suoi sudditi. Perché il presidente si sente obbligato ad andare a spiegarsi con il primo ministro israeliano ogni qualvolta viene perpetrato un crimine razzista contro una persona indicata dai suoi aggressori come ebreo? Quelle persone appartengono allo Stato israeliano? Appartengono ad una qualsivoglia comunità prima di appartenere a se stesse? Quando fa comodo al potere, le vittime sono prima di tutto francesi, «figli della Repubblica», e quando bisogna lisciare il pelo alle lobby religiose si utilizza il discorso opposto. Comunque sia, si resta nel culto della carogna e nelle logiche politiche ed elettorali di recupero, a seconda delle opportunità.
In una toccante unanimità, i nostri eco-social-sovrano-centro-frontedisinistra-fascio-reazionari mescolano le loro voci per intonare: «Viva la Repubblica! Viva l'Unità Nazionale!». Le poche voci parzialmente critiche di questo ricatto si sono affrettate a precisare che comunque incoraggiano il lavoro degli inquirenti e delle forze dell'ordine, ovvero la Sezione Anti-Terrorista, e che in caso di cambio della maggioranza in parlamento gli strumenti dei servizi di sicurezza saranno accresciuti. L'Unità Nazionale, parliamone. Quella che si entusiasmava nel XIX secolo ad andare nelle contrade lontane a portare i lumi repubblicani a colpi di cannone, sciabola ed aspersorio, quella che collaborò al macello del 14-18, quella che portò Pétain sul trono, quella che rimise in piedi il capitalismo nel 45 sganciando qualche bomba a Sétif e lasciando tranquilli i collaborazionisti, che massacrò, torturò e gettò allegramente nella Senna durante la guerra d'Algeria. Quella che permise al potere di meglio isolare, reprimere ed eliminare i refrattari, i ribelli, i senzapatria, i rivoluzionari, quelli che sputano su tutte le bandiere e su tutti i regimi. Che rifiutano di andare a farsi bucare la pelle e di bucare la pelle altrui per interessi che non sono i loro, che non lo saranno mai.
Noi siamo fra questi ultimi, e contiamo di non restare impotenti in una posizione di rifiuto. Rifiutiamo e ci battiamo al tempo stesso contro il ricatto dell'unità nazionale, l'adesione sotto la bandiera repubblicana, che è sempre l'orrore statale e capitalista. Così come rifiutiamo di ululare insieme ai lupi avidi dei racket comunitari e religiosi, quest'altra forma di museruola universale che, lungi dall'opporsi all'addomesticamento politico e al regno del denaro, ne è storicamente compagna di strada, assai efficiente nel diffondere gerarchia, fatalismo, obbedienza e divisione fra i poveri.
Se noialtri oppressi, indesiderabili e ribelli in questo mondo dobbiamo criticare e combattere giorno dopo giorno tutto ciò che ci rende schiavi, questo non avverrà mai sparando nel mucchio, né per diffondere il terrore e l'orrore, ma precisamente per farla finita con tutto ciò che ne è la causa: lo Stato, il razzismo ed il nazionalismo, il denaro, Dio.
 
Per la libertà. Libertà per tutti e tutte.
Né cittadini, né sbirri. Né fascismo, né democrazia. Né religione, né terrore. Né denaro, né Stato. Né patria, né nazioni, né frontiere. Né padroni, né schiavi.



fonte: finimondo

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