da http://senzafrontiere.
“Contrastare la clandestinità è un dovere di civiltà”.
Queste sono state le parole del ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri¹ all’inaugurazione del Centro nazionale di coordinamento per l’immigrazione, lo scorso 15 febbraio a Roma. Tale centro dovrebbe essere una base organizzativa per i diversi corpi di polizia e le forze armate (carabinieri, guardia di finanza, marina militare e capitaneria di porto) impegnati nella guerra ai migranti. Non c’è altro termine per descrivere ciò che i governi europei, e quelli affacciati sul mare in primis, stanno mettendo in pratica lungo la fascia costiera del Mediterraneo: militarizzazione delle coste, uso dei più avanzati dispositivi tecnologici, cacce all’uomo per rinchiudere uomini e donne dentro lager in cui la vita umana non vale nulla. Perché i Centri di Identificazione ed Espulsione sono lager, lo abbiamo sempre detto e lo ribadiamo.
A Bologna, nel CIE di Via Mattei², le celle e i corridoi sono chiusi dalle sbarre. Non c’è nessuna attività prevista, come avviene normalmente in carcere, e, quando non si viene svegliati all’improvviso dalle perquisizioni o dai frequenti pestaggi da parte dei poliziotti e dei finanzieri, sono la noia e la terribile solitudine a fare compagnia ai prigionieri. Nei pasti vengono mischiati psicofarmaci per mantenere i reclusi in uno stato permanente di catatonia. Gli atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno. Questa situazione, è bene ricordarlo, non rappresenta assolutamente un’eccezione. E’ la regola di vita all’interno di tutti i CIE in Italia. A Bari, una perizia fatta eseguire dallo stesso Comune, ha concluso che il CIE non è una struttura abitabile, i servizi igienici sono in condizioni raccapriccianti, e infine che “nel centro non sono garantiti neanche gli standard minimi previsti dalle norme sull’ordinamento penitenziario”. Eppure nessun centro viene fatto chiudere. Nei CIE continuano ad essere rinchiuse centinaia di persone, la cui unica colpa è quella di non possedere quel pezzo di carta chiamato “permesso di soggiorno”, o di averlo perso in seguito al licenziamento, evento sempre più frequente. La capienza totale dei 13 centri italiani è di 1806 posti, ma durante la scorsa estate è stata spesso superata. Questo inverno la presenza dei prigionieri è leggermente calata, ma non per questo sono migliorate le condizioni di prigionia: in molti centri l’impianto di riscaldamento ha subito rotture e malfunzionamenti e i soprusi e le angherie da parte dei poliziotti, dei militari e del personale sono continuate dappertutto.
Ribellarsi per vivere
Soprusi e botte raramente riescono a fermare la voglia di libertà di coloro che sono rinchiusi nei CIE: rivolte e fughe si susseguono, anche se non ve n’è traccia in televisione o sui giornali. Nel 2011 almeno 580 persone sono riuscite ad evadere³ e le rivolte hanno causato danni per milioni di euro. A febbraio nel CIE di Modena tutti i 56 reclusi hanno portato avanti uno sciopero della fame e della sete per diversi giorni. Sempre a febbraio dal Centro di Trapani sono fuggiti in massa, dopo aver inscenato una sommossa. Nei primi giorni di marzo nel CIE di Torino ci sono stati due tentativi di fuga e sono piovuti calcinacci contro i poliziotti che lanciavano lacrimogeni per sedare la rivolta. Nel centro d’accoglienza di Palma di Montechiaro (Agrigento), una ventina di richiedenti asilo, per protestare contro i ritardi nella concessione dello status di rifugiato e per essere portati a Mineo, dove si trovavano parenti e amici, hanno proclamato l’autogestione della struttura, trattenendo per qualche ora un operatore della Cooperativa “Sole”, ente gestore della struttura.
Censura totale
A dicembre dello scorso anno una direttiva del ministro dell’Interno decretava la sospensione dello stop alle visite dei giornalisti ai CIE e ai CARA, imposto lo scorso primo aprile dal precedente ministro, Roberto Maroni. Poneva però dei limiti molto rigidi e soprattutto stabiliva che il prefetto potesse decidere a propria discrezione se accettare o meno le visite. In questo modo vengono tenuti fuori dai centri i giornalisti scomodi, che possono raccontare troppe verità, com’è accaduto ad esempio, lo scorso gennaio, a Ilaria Roberta Sesana di “Terre di Mezzo” e a Milena Boccadoro del Tg3 Regionale del Piemonte. Sono state fatte entrare nel CIE di Corso Brunelleschi ma ad entrambe è stato impedito di parlare con i reclusi. A Gradisca i giornalisti sono invece tenuti debitamente alla larga, per decisione prefettizia, perché non ci sia nemmeno il rischio che trapelino notizie all’esterno.
Affaristi e aguzzini
I CIE, oltre ad essere luoghi di reclusione e sopraffazione, offrono anche grandi possibilità di lucro a coloro che li gestiscono, naturalmente sulla pelle degli stessi che subiscono le catene e le botte. Per questo dietro ad ogni lager nostrano ci sono accordi sottobanco, bustarelle, guerre a colpi di carte bollate fra i vari pretendenti alla gestione. Quello di Gradisca d’Isonzo è un esempio emblematico. Un anno fa (febbraio 2011) fu varata una nuova gara d’appalto, vinta da una cordata di cooperative guidata dalla francese Gepsa. La nuova gestione fu però subito congelata a causa del ricorso della Connecting People, consorzio trapanese che aveva in mano fino ad allora la direzione del centro.La Procuradiede ragione a Connecting People, avviando indagini sulle cooperative vincenti.La Connecting Peopleriuscì quindi a mantenere la gestione (e ce l’ha tuttora), ma – quale sorpresa – a febbraio è stata anch’essa indagata per truffa ai danni dello Stato: secondo l’accusa avrebbe infatti gonfiato le fatture e i numeri reali dei reclusi per incamerare più profitti possibili. Questo dimostra come siano gli affari a guidare le varie cooperative ed associazioni dietro la macchina dei CIE e non certo “le spinte etiche e sociali”, come viene invece sbandierato in tutti gli statuti.
Nel frattempo, il 10 marzo è entrato in vigore il permesso di soggiorno a punti: si perdono punti in caso di condanna, anche in via non definitiva, e in caso di sanzione pecuniaria di almeno diecimila euro (la vendita di oggetti può comportare, in alcuni casi, una sanzione anche superiore ai diecimila euro). Quando i punti arrivano a zero, scatta l’internamento nel CIE e l’espulsione. Sembra un gioco, ma in gioco c’è la vita di decine di migliaia di persone. Ci sono anni e anni di lavoro e sudore che possono essere cancellati in un giorno. Ci sono famiglie che possono venire distrutte, come già succede in molti, troppi casi. La guerra ai migranti – e ai loro figli, nati e cresciuti in Italia, ma irrimediabilmente diversi – non accenna a fermarsi.
Raffaele Viezzi
¹ fonte: repubblica.it
² fonte: repubblica.it edizione Bologna
³ fonte: www.fortesseurope.org
Questo articolo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 10 del 18 Marzo 2012 www.umanitanova.org
Queste sono state le parole del ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri¹ all’inaugurazione del Centro nazionale di coordinamento per l’immigrazione, lo scorso 15 febbraio a Roma. Tale centro dovrebbe essere una base organizzativa per i diversi corpi di polizia e le forze armate (carabinieri, guardia di finanza, marina militare e capitaneria di porto) impegnati nella guerra ai migranti. Non c’è altro termine per descrivere ciò che i governi europei, e quelli affacciati sul mare in primis, stanno mettendo in pratica lungo la fascia costiera del Mediterraneo: militarizzazione delle coste, uso dei più avanzati dispositivi tecnologici, cacce all’uomo per rinchiudere uomini e donne dentro lager in cui la vita umana non vale nulla. Perché i Centri di Identificazione ed Espulsione sono lager, lo abbiamo sempre detto e lo ribadiamo.
A Bologna, nel CIE di Via Mattei², le celle e i corridoi sono chiusi dalle sbarre. Non c’è nessuna attività prevista, come avviene normalmente in carcere, e, quando non si viene svegliati all’improvviso dalle perquisizioni o dai frequenti pestaggi da parte dei poliziotti e dei finanzieri, sono la noia e la terribile solitudine a fare compagnia ai prigionieri. Nei pasti vengono mischiati psicofarmaci per mantenere i reclusi in uno stato permanente di catatonia. Gli atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno. Questa situazione, è bene ricordarlo, non rappresenta assolutamente un’eccezione. E’ la regola di vita all’interno di tutti i CIE in Italia. A Bari, una perizia fatta eseguire dallo stesso Comune, ha concluso che il CIE non è una struttura abitabile, i servizi igienici sono in condizioni raccapriccianti, e infine che “nel centro non sono garantiti neanche gli standard minimi previsti dalle norme sull’ordinamento penitenziario”. Eppure nessun centro viene fatto chiudere. Nei CIE continuano ad essere rinchiuse centinaia di persone, la cui unica colpa è quella di non possedere quel pezzo di carta chiamato “permesso di soggiorno”, o di averlo perso in seguito al licenziamento, evento sempre più frequente. La capienza totale dei 13 centri italiani è di 1806 posti, ma durante la scorsa estate è stata spesso superata. Questo inverno la presenza dei prigionieri è leggermente calata, ma non per questo sono migliorate le condizioni di prigionia: in molti centri l’impianto di riscaldamento ha subito rotture e malfunzionamenti e i soprusi e le angherie da parte dei poliziotti, dei militari e del personale sono continuate dappertutto.
Ribellarsi per vivere
Soprusi e botte raramente riescono a fermare la voglia di libertà di coloro che sono rinchiusi nei CIE: rivolte e fughe si susseguono, anche se non ve n’è traccia in televisione o sui giornali. Nel 2011 almeno 580 persone sono riuscite ad evadere³ e le rivolte hanno causato danni per milioni di euro. A febbraio nel CIE di Modena tutti i 56 reclusi hanno portato avanti uno sciopero della fame e della sete per diversi giorni. Sempre a febbraio dal Centro di Trapani sono fuggiti in massa, dopo aver inscenato una sommossa. Nei primi giorni di marzo nel CIE di Torino ci sono stati due tentativi di fuga e sono piovuti calcinacci contro i poliziotti che lanciavano lacrimogeni per sedare la rivolta. Nel centro d’accoglienza di Palma di Montechiaro (Agrigento), una ventina di richiedenti asilo, per protestare contro i ritardi nella concessione dello status di rifugiato e per essere portati a Mineo, dove si trovavano parenti e amici, hanno proclamato l’autogestione della struttura, trattenendo per qualche ora un operatore della Cooperativa “Sole”, ente gestore della struttura.
Censura totale
A dicembre dello scorso anno una direttiva del ministro dell’Interno decretava la sospensione dello stop alle visite dei giornalisti ai CIE e ai CARA, imposto lo scorso primo aprile dal precedente ministro, Roberto Maroni. Poneva però dei limiti molto rigidi e soprattutto stabiliva che il prefetto potesse decidere a propria discrezione se accettare o meno le visite. In questo modo vengono tenuti fuori dai centri i giornalisti scomodi, che possono raccontare troppe verità, com’è accaduto ad esempio, lo scorso gennaio, a Ilaria Roberta Sesana di “Terre di Mezzo” e a Milena Boccadoro del Tg3 Regionale del Piemonte. Sono state fatte entrare nel CIE di Corso Brunelleschi ma ad entrambe è stato impedito di parlare con i reclusi. A Gradisca i giornalisti sono invece tenuti debitamente alla larga, per decisione prefettizia, perché non ci sia nemmeno il rischio che trapelino notizie all’esterno.
Affaristi e aguzzini
I CIE, oltre ad essere luoghi di reclusione e sopraffazione, offrono anche grandi possibilità di lucro a coloro che li gestiscono, naturalmente sulla pelle degli stessi che subiscono le catene e le botte. Per questo dietro ad ogni lager nostrano ci sono accordi sottobanco, bustarelle, guerre a colpi di carte bollate fra i vari pretendenti alla gestione. Quello di Gradisca d’Isonzo è un esempio emblematico. Un anno fa (febbraio 2011) fu varata una nuova gara d’appalto, vinta da una cordata di cooperative guidata dalla francese Gepsa. La nuova gestione fu però subito congelata a causa del ricorso della Connecting People, consorzio trapanese che aveva in mano fino ad allora la direzione del centro.La Procuradiede ragione a Connecting People, avviando indagini sulle cooperative vincenti.La Connecting Peopleriuscì quindi a mantenere la gestione (e ce l’ha tuttora), ma – quale sorpresa – a febbraio è stata anch’essa indagata per truffa ai danni dello Stato: secondo l’accusa avrebbe infatti gonfiato le fatture e i numeri reali dei reclusi per incamerare più profitti possibili. Questo dimostra come siano gli affari a guidare le varie cooperative ed associazioni dietro la macchina dei CIE e non certo “le spinte etiche e sociali”, come viene invece sbandierato in tutti gli statuti.
Nel frattempo, il 10 marzo è entrato in vigore il permesso di soggiorno a punti: si perdono punti in caso di condanna, anche in via non definitiva, e in caso di sanzione pecuniaria di almeno diecimila euro (la vendita di oggetti può comportare, in alcuni casi, una sanzione anche superiore ai diecimila euro). Quando i punti arrivano a zero, scatta l’internamento nel CIE e l’espulsione. Sembra un gioco, ma in gioco c’è la vita di decine di migliaia di persone. Ci sono anni e anni di lavoro e sudore che possono essere cancellati in un giorno. Ci sono famiglie che possono venire distrutte, come già succede in molti, troppi casi. La guerra ai migranti – e ai loro figli, nati e cresciuti in Italia, ma irrimediabilmente diversi – non accenna a fermarsi.
Raffaele Viezzi
¹ fonte: repubblica.it
² fonte: repubblica.it edizione Bologna
³ fonte: www.fortesseurope.org
Questo articolo è stato pubblicato su Umanità Nova numero 10 del 18 Marzo 2012 www.umanitanova.org
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