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domenica 15 gennaio 2012

Dalla Politica alla Vita

Wolfi Landstreicher

Fin dai tempi in cui per la prima volta si è definito movimento radicale autonomo, l’anarchismo è stato associato alla sinistra. Un’associazione il più delle volte problematica. I militanti di sinistra con un incarico di potere (compresi quelli anarchici, come i capi della C.N.T. e della F.A.I. nella Spagna del 1936-37) hanno sempre considerato d’ostacolo ai propri programmi politici il fine anarchico della trasformazione totale della vita — e il conseguente principio secondo cui i fini dovrebbero essere già insiti nei mezzi di lotta impiegati. L’insorgenza reale è sempre scoppiata altrove rispetto a qualsivoglia programma politico e gli anarchici più coerenti hanno intravisto la possibilità di realizzare i loro sogni proprio in un luogo sconosciuto ed altro. Tuttavia, a più riprese, quando i fuochi dell’insurrezione si raffreddavano (e talvolta perfino mentre bruciavano ancora ardentemente, come nel 1936-37), i leader anarchici hanno finito coll’assumere il ruolo di «coscienza della sinistra». Ma se l’espansione dell’utopia anarchica ed i principi ad essa connessi sono stati un ostacolo agli schemi politici della sinistra, questi schemi hanno costituito un ben più pesante macigno attorno al collo del movimento anarchico, appesantendolo con quel “realismo” che non sa sognare.

Per la sinistra, la lotta sociale contro lo sfruttamento e l’oppressione è essenzialmente un programma politico da realizzare con qualsiasi mezzo ed espediente. Una tale concezione richiede una metodologia politica palesemente in contrasto con alcuni principi anarchici di fondo. In primo luogo, la politica come categoria distinta dell’esistenza sociale comporta la separazione delle decisioni che determinano la nostra vita dalla loro esecuzione. Questa separazione risiede nelle istituzioni — poco importa quanto democratiche o consensuali esse siano — che assumono ed impongono dette decisioni. Del resto la politica esige che le decisioni vengano prese prima che si creino le circostanze cui applicarle, e ciò rende necessaria la loro costituzione come regole generali sempre applicabili nelle situazioni, senza alcun riguardo alle circostanze specifiche. I semi del pensiero ideologico — per cui le idee regolano le attività degli individui invece di risultare loro utili per lo sviluppo dei propri progetti — sono qui evidenziati. Un punto da approfondire meglio in seguito. 
La concezione di lotta sociale della sinistra mira ad influenzare le istituzioni decisionali di potere o a crearne delle versioni alternative. In altre parole, si tratta di una lotta parziale per il cambiamento, non certo per la distruzione, dei rapporti di dominio.
Una simile concezione, con la relativa base programmatica, richiede come strumento una forma organizzativa che rappresenti la lotta, quale espressione concreta del suo programma. Se le persone coinvolte stabiliranno che quel programma è rivoluzionario, allora l’organizzazione finirà col rappresentare per loro la rivoluzione; e la forza dell’organizzazione verrà equiparata alla forza della lotta rivoluzionaria. 
Un chiaro esempio lo troviamo ancora nella rivoluzione spagnola, allorché la direzione della CNT, dopo aver incitato gli operai e i contadini della Catalogna ad espropriare i mezzi di produzione (oltre alle armi con cui formarono le libere milizie), una volta assunto il comando della gestione produttiva si guardò bene dal dissolvere l’organizzazione o dal permettere agli operai di esplorare la ri-creazione di una propria vita sociale. La confusione tra gestione sindacale ed autogestione operaia ha avuto esiti che possono essere esaminati da chiunque voglia considerare in modo critico quegli eventi. Quando la lotta contro l’ordine costituito viene separata dagli individui che la conducono e messa nelle mani di un’organizzazione, cessa di essere un progetto autodeterminato da quegli individui e si trasforma in una causa esterna cui aderire. Ed essendo quella causa identificata con l’organizzazione, l’attività principale degli individui che vi aderiscono sarà inevitabilmente il mantenimento e l’espansione dell’organizzazione medesima. 
L’Organizzazione è il mezzo con cui la sinistra intende trasformare i rapporti istituzionalizzati di dominio. Che questo avvenga attraverso l’appello ai governanti del momento e l’esercizio dei diritti democratici, attraverso la conquista elettorale o violenta del potere statale, attraverso l’espropriazione istituzionale dei mezzi di produzione o attraverso una combinazione di questi mezzi, non è rilevante. Per compiere ciò, l’organizzazione tenta di trasformarsi in potere alternativo o in contro-potere. Ecco perché deve abbracciare l’ideologia corrente del potere, ovvero la democrazia. La democrazia è quel sistema decisionale separato che richiede una creazione di consenso sociale per i programmi proposti. Anche se il potere risiede sempre nella coercizione, nel contesto democratico esso è giustificato dal consenso che può ottenere. Ed ecco perchè la sinistra è costretta ad aggregare quanti più aderenti è possibile, numeri da contare a sostegno dei propri programmi. Nella sua adesione alla democrazia, deve inevitabilmente abbracciare l’illusione quantitativa. 
La necessità di acquisire sostenitori richiede il ricorso al denominatore comune più basso. Così, invece di sviluppare una vitale esplorazione teorica, la sinistra elabora un insieme di dottrine semplicistiche con cui guardare il mondo ed una litania di soperchierie morali compiute dai dominatori odierni, con cui spera di ottenere una discreta attrazione di massa. Ogni riflessione o esplorazione al di fuori di questo contesto ideologico viene condannata con veemenza o guardata con incomprensione. L’incapacità di una seria esplorazione teorica è il costo dell’accettazione dell’illusione quantitativa, secondo la quale il riflesso di un movimento forte è dato dal numero di aderenti — senza badare alla loro passività ed ignoranza — più che dalla qualità e coerenza delle idee e delle pratiche.
La necessità politica di appellarsi alle «masse» spinge metodologicamente la sinistra ad avanzare richieste frammentarie ai dominanti: un metodo senz’altro coerente con un progetto di mera trasformazione dei rapporti di potere, proprio perché non affronta quei rapporti alla radice e sottende che semplici (benché talvolta estremi) aggiustamenti dei rapporti odierni siano sufficienti per la realizzazione del proprio programma. La sinistra non intende mettere in discussione l’ordine dominante in sé, perché ciò costituirebbe una minaccia anche per se stessa.
Implicita in questo approccio frammentario al cambiamento è la dottrina del progressismo (una delle etichette più in voga fra militanti di sinistra e liberali al giorno d’oggi — che si lasciano volentieri alle spalle altre etichette ormai insudiciate — è appunto «progressista»). Il Progressismo è l’idea secondo cui l’ordine odierno delle cose è il risultato di un continuo (sebbene forse «dialettico») processo di miglioramento e che se ci diamo da fare (con il voto, la petizione, la controversia, la disobbedienza civile, la violenza politica o persino la conquista del potere — tutto, fuorché la sua distruzione), possiamo spingere questo processo in avanti. Il concetto di progresso e l’approccio frammentario che ne è espressione pratica indicano nella concezione della sinistra un ennesimo aspetto quantitativo della trasformazione sociale: è solo questione di gradi, di posizioni lungo una traiettoria continua. La giusta quantità di aggiustamenti ci porterà «là» (dovunque sia questo «là»). Riforma e rivoluzione in questo contesto sono semplicemente livelli differenti della stessa attività. 
La sinistra non riesce proprio a percepire la schiacciante evidenza che l’unica traiettoria su cui ci troviamo, fin dalla nascita del capitalismo e dell’industrialismo, è il crescente impoverimento dell’esistenza — e questo non può essere riformato.

L’approccio frammentario e l’esigenza politica di incasellare porta inoltre la sinistra a valorizzare le persone in base all’appartenenza ai diversi gruppi di oppressi e sfruttati: «lavoratori», «donne», «immigrati», «gay e lesbiche», «persone di colore» e così via. Questo incasellamento sta alla base di una politica identitaria, particolare forma di falsa opposizione: le persone oppresse scelgono di identificarsi in una data categoria sociale, un preteso atto di sfida alla propria oppressione che viceversa contribuisce a rafforzarla. Infatti, l’identificazione continua in un ruolo sociale inibisce la capacità di analizzare la propria situazione in questa società, e di agire in quanto individui contro la propria oppressione, garantendo la continuazione dei rapporti sociali che la determinano. In fondo le persone sono utili alle manovre politiche della sinistra solo in quanto membri di categorie sociali, perché nel contesto democratico tali categorie possono diventare gruppi di pressione e blocchi di potere.
La logica politica della sinistra coi suoi fabbisogni organizzativi — l’adesione alla democrazia e all’illusione quantitativa, e la valorizzazione delle persone in funzione della loro appartenenza a una data categoria sociale — è implicitamente collettivista e liquida l’individuo in quanto tale. Come non riconoscere nei reiterati appelli agli individui di sacrificarsi alle più svariate cause, ai programmi, all’organizzazione..., le ideologie manipolatrici dell’identità collettiva, della responsabilità collettiva, della colpa collettiva. 
Ciascun appartenente ai gruppi “privilegiati” — «perbene», «bianco», «maschio», «del primo mondo», «della classe media» — diventa responsabile di tutta l’oppressione attribuita a quel gruppo. Ecco perché è indispensabile che si attivi, onde espiare per quei “crimini”, fornendo un sostegno acritico ai movimenti di quelli più oppressi di lui. A loro volta, gli individui che sono definiti in base alla loro appartenenza ad un gruppo oppresso vengono spinti ad accettare l’identità collettiva del gruppo col ricatto di una vincolante “solidarietà” — sorellanza, nazionalismo nero, identità queer, ecc. Qualora si sottraessero, magari azzardando una critica radicale di questa identità di gruppo, ciò verrebbe considerato un’accettazione della propria oppressione. L’individuo che agisce autonomamente (o al più con coloro con cui ha sviluppato un’affinità reale) contro l’oppressione e lo sfruttamento che ha sperimentato nel corso della sua esistenza, viene accusato di «individualismo borghese», malgrado stia lottando proprio contro l’alienazione, la separazione e l’atomizzazione, che sono il risultato implicito dell’attività sociale collettiva che il potere ed il capitale — la cosiddetta «società borghese» — ci impongono.
La lotta della sinistra non nasce dai desideri, dalle esigenze e dai sogni degli individui sfruttati, oppressi, dominati e spossessati dalla società. Non è un’attività di persone che si sforzano di riappropriarsi della propria vita e che ricercano gli strumenti necessari per riuscirci; è piuttosto un programma, formulato nelle menti dei leader o nelle riunioni organizzative, che si situa al di sopra e prima delle lotte degli individui, e a cui questi devono subordinarsi. E qualunque sia il suo slogan — socialismo, comunismo, anarchismo, sorellanza, popolo africano, diritti animali, liberazione della terra, primitivismo, autogestione dei lavoratori, ecc. ecc. —, non fornisce agli individui uno strumento da poter usare nella propria lotta contro il potere, pretendendo che essi sostituiscano all’attuale ordine dominante il dominio del programma di sinistra. In altre parole, esige che gli individui continuino a rinunciare alla possibilità di autodeterminare la propria esistenza.
Nella sua massima espressione, il tentativo anarchico è volto alla trasformazione totale dell’esistenza basata sulla riappropriazione della vita da parte di ogni singolo individuo, che agisce in libera associazione con altri individui liberamente scelti. Questa visione prende forma nei testi più poetici di molti anarchici noti, ed è quel che fa dell’anarchismo la «coscienza della sinistra». Ma qual è l’utilità di essere la coscienza di un movimento che non condivide, né potrebbe farlo, l’ampiezza e la profondità dei sogni dell’individuo, se questi desidera realizzarli? Nella storia del movimento anarchico le prospettive e le pratiche più contigue alla sinistra, quali l’anarco-sindacalismo ed il piattaformismo, hanno sempre racchiuso assai meno del sogno e assai più del programma. Ora che la sinistra ha cessato d’essere una forza significativa in qualche modo distinguibile dal resto della sfera politica, almeno nell’occidente del mondo, non c’è motivo di continuare a portare questo fardello sulle nostre spalle. 

La realizzazione dei nostri sogni, dei sogni di ogni individuo ancora capace di desiderare in modo autonomo d’essere creatore della propria esistenza, richiede una rottura consapevole e rigorosa con la sinistra. Come minimo questa rottura significa:
1. Il rifiuto di una percezione politica della lotta sociale; il riconoscimento che la lotta rivoluzionaria non è un programma, ma piuttosto una lotta per la riappropriazione individuale e sociale della totalità della vita. In quanto tale, essa è essenzialmente anti-politica. In altre parole, si contrappone a qualsiasi forma di organizzazione sociale — e a qualsiasi metodo — in cui le decisioni sul vivere e lottare sono separate dalla loro esecuzione, al di là di quanto democratico e partecipativo possa essere tale processo decisionale separato.
2. Il rifiuto dell’organizzazionismo, intendendo con questo il rifiuto dell’idea secondo cui una qualche organizzazione possa rappresentare individui o gruppi di sfruttati, la lotta sociale, la rivoluzione o l’anarchia. Quindi anche il rifiuto di tutte quelle organizzazioni — partiti, sindacati, federazioni e simili — che, data la loro essenza programmatica, assumono un ruolo rappresentativo. Ciò non significa il rifiuto della capacità di organizzare le attività specifiche necessarie alla lotta rivoluzionaria, ma piuttosto il rifiuto di sottomettere l’organizzazione dei propri compiti e dei progetti al formalismo di un programma organizzativo. Il solo compito che ha sempre mostrato di esigere un’organizzazione formale è lo sviluppo ed il mantenimento di se stessa.
3. Il rigetto della democrazia e dell’illusione quantitativa. Il rifiuto della prospettiva secondo cui il numero di aderenti ad una causa, ad un’idea o ad un programma, sia ciò che determina la forza di una lotta, a scapito del valore qualitativo della lotta in quanto attacco contro le istituzioni del dominio e in quanto riappropriazione della vita. Il rifiuto di ogni istituzionalizzazione o formalizzazione del processo decisionale, oltre che di qualsiasi concezione del processo decisionale come momento separato dalla vita e dalla pratica. Il rifiuto, inoltre, del metodo «evangelico» che serve per conquistare le masse: un metodo che presuppone che l’esplorazione teorica sia al limite, che vi sia una risposta a cui tutti devono aderire e che quindi ogni mezzo è valido per diffondere il messaggio anche se dovesse contraddire ciò che si sostiene. Ciò spinge a ricercare seguaci che accettino la propria posizione piuttosto che compagni e complici con cui portare avanti le proprie esplorazioni. Ad attrarre i potenziali complici con cui sviluppare rapporti di affinità ed espandere la pratica della rivolta, è una lotta per la realizzazione dei propri progetti in modo coerente con le proprie idee, con i propri sogni e desideri.
4. Il rifiuto di fare richieste a chi è al potere, scegliendo piuttosto una pratica di azione diretta e di attacco. Il rifiuto dell’idea che ci si possa autodeterminare tramite richieste parziali che, nel migliore dei casi, apportano solo un temporaneo miglioramento alla nocività dell’ordine sociale. Il riconoscimento della necessità di attaccare questa società nella sua totalità, di raggiungere in ogni lotta parziale una consapevolezza pratica e teorica della totalità che deve essere distrutta. Quindi, anche la capacità di vedere cosa sia potenzialmente rivoluzionario — cosa si muove oltre la logica delle richieste e dei cambiamenti frammentari — nelle lotte sociali parziali, poiché dopo tutto una rottura radicale e insurrezionale si può scatenare nel corso di una lotta iniziata per ottenere risultati parziali, ma partendo da quella richiesta per andare oltre e pretendere di più.
5. Il rifiuto dell’idea di progresso, dell’idea che l’ordine attuale delle cose sia il risultato di un continuo processo di miglioramento che possiamo perseguire, forse fino all’apoteosi se ci impegniamo. Il riconoscimento che l’attuale traiettoria — che i potenti e la loro opposizione leale riformista e "rivoluzionaria" chiamano «progresso» — è implicitamente nociva per la libertà individuale, per la libera associazione, per avere relazioni umane soddisfacenti, per la totalità della vita e per lo stesso pianeta. Il riconoscimento che questa strada deve essere interrotta e che bisogna sviluppare nuovi modi di vivere e di rapportarsi, se vogliamo raggiungere l’autonomia e la libertà complete. (Questo non porta necessariamente ad un rigetto assoluto della tecnologia e della civiltà, che non costituisce certo il culmine della rottura con la sinistra; benché il rifiuto del progresso implichi la volontà di esaminare e mettere in discussione seriamente la civiltà, la tecnologia e soprattutto l’industrialismo. Coloro che non sono disposti a sollevare tali questioni, probabilmente continuano a restare fedeli al mito del progresso).
6. Il rifiuto della politica identitaria. Il riconoscimento che, mentre i vari gruppi oppressi sperimentano la propria spoliazione relativa all’oppressione che vivono e l’analisi di tali specificità è necessaria per avere una piena comprensione di come funziona il dominio, comunque la spoliazione è la sottrazione della capacità in ciascuno di noi, in quanto individui, di autodeterminare la nostra esistenza e di associarci liberamente con gli altri. La riappropriazione della vita a livello sociale, come pure la sua piena riappropriazione a livello individuale, potrà avvenire solo allorché cesseremo di aggrapparci ad un’identità sociale.
7. Il rifiuto del collettivismo, della subordinazione dell’individuo al gruppo. Il rifiuto dell’ideologia della responsabilità collettiva (il che non determina il rifiuto di un’analisi sociale o di classe, ma piuttosto la rimozione del giudizio morale che ne deriva ed il rifiuto della pericolosa pratica di biasimare gli individui per le attività compiute nel nome di una categoria sociale, o che a questa sono state attribuite, di cui agli individui è stato detto di fare parte senza che lo abbiano scelto — «ebreo», «zingaro», «uomo», «bianco», ecc.). Il rifiuto dell’idea che chiunque, per «privilegio» o per una supposta appartenenza ad un particolare gruppo di oppressi, debba una solidarietà acritica a qualsiasi lotta o movimento, ed il riconoscimento che una simile concezione costituisce un forte ostacolo in qualsiasi processo rivoluzionario. La creazione di progetti e di attività collettive che servono i bisogni e i desideri degli individui coinvolti, e non viceversa. Il riconoscimento che l’alienazione di fondo imposta dal capitale non è basata su alcuna ideologia iper-individualista, ma semmai proviene dal programma collettivo di produzione imposto, che espropria le nostre capacità creative individuali al fine di realizzare i suoi scopi. Il riconoscimento che la liberazione di ogni singolo individuo, in grado di poter determinare le condizioni della propria esistenza in libera associazione con altri di sua scelta, sia lo scopo primario della rivoluzione. 
8. Il rifiuto dell’ideologia, vale a dire il rifiuto di ogni programma, astrazione, ideale o teoria, posto sopra la vita e gli individui come una costruzione da servire e riverire. Quindi il rifiuto di Dio, dello Stato, della Nazione, della Razza, ecc., ma anche dell’Anarchismo, del Primitivismo, del Comunismo, della Libertà, della Ragione, dell’Individuo, ecc. quando questi si trasformino in ideali cui sacrificare se stessi, i propri desideri, le aspirazioni, i sogni. L’uso delle idee, dell’analisi teorica e della capacità di ragionare e pensare astrattamente e criticamente come strumento per la realizzazione dei propri obiettivi, per riappropriarsi della vita ed agire contro tutto ciò che ostacola tale percorso. Il rifiuto delle facili risposte che interdicono ogni tentativo di esaminare la realtà che si affronta, attraverso un’interrogazione ed un’esplorazione teorica continua.

Per come la vedo, questi sono i punti che determinano una rottura reale con la Sinistra. Qualora se ne trascurasse qualcuno — nella teoria o nella pratica —, rimarrebbero in piedi le vestigia della sinistra, la qual cosa costituirebbe un ostacolo al nostro progetto di liberazione. La rottura con la sinistra è basata sulla necessità di liberare la pratica dell’anarchia dai confini della politica; ciò rende di fatto impossibile un’adesione alla destra o a qualunque altra fazione dello spettro politico. Una lotta per la trasformazione della totalità della vita, una lotta per riprenderci ogni singola esistenza in un movimento collettivo per la realizzazione individuale, può solo essere intralciata dai programmi politici, dalle organizzazioni «rivoluzionarie» e dalle costruzioni ideologiche che richiedono il nostro asservimento, perché anch’essi, come lo Stato ed il Capitale, esigono che cediamo loro la nostra vita. 
Abbiamo sogni troppo grandi per i ristretti confini degli schemi politici. È tempo di lasciare la sinistra alle nostre spalle e proseguire sulla festosa strada verso l’ignoto dell’insurrezione e della creazione di un’esistenza piena ed appagante.


[trad. da Anarchy n. 54, 2002]

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