Da quasi un secolo ci chiediamo se la mediocrità del nostro
universo non dipenda essenzialmente dal nostro potere di enunciazione.
Se le catene della riproduzione sociale non siano forgiate direttamente
dentro la nostra testa. Quando parliamo, quando scriviamo, esprimiamo le
nostre idee e i nostri progetti. Comunichiamo le nostre tensioni, ciò
che ci muove e ciò che vorremmo realizzare. Ma le parole non le abbiamo
inventate noi e, così come ci sono state consegnate, avvolte nella loro
livrea domestica, rispondono per lo più ai richiami all'ordine. La
fantasia non trova spazio nel blocco monolitico dell'ideologia
dominante, finisce per essere risucchiata nei suoi anfratti. Il detto e
il ridetto ci inchiodano a questo universo comune, in cui tutto lavora,
produce, consuma, sciopera perfino; tra un salario da guadagnare e un
conto da pagare, non c'è tempo, non ci sono occasioni per l'avventura.
Attingiamo pensieri e concetti da un immaginario che percepiamo nostro
solo perché ci siamo cresciuti assieme, ma che non abbiamo ideato noi.
Non è affatto una nostra creatura, unica ed originale, strappata alle
banalità dei luoghi comuni attraverso una dura ricerca e una selezione.
Ci è stato instillato giorno dopo giorno, già fabbricato e
preconfezionato. Noi lo abbiamo solo adattato alla nostra misura. Da qui
abbiamo assorbito il rispetto per l'autorità, il sentimento di
"appartenenza", la paura o l'orrore per l'ignoto. Da qui abbiamo
ricavato anche quella critica spuntata, incapace di andare oltre i
confini del già dato (quella che davanti alle devastazioni del
capitalismo è in grado di rivendicare al massimo merci senza logo,
quella per cui il conflitto non può che essere istituzionale e
normativo). Non potendo battersi per un'esistenza che sia tutt'altro, ci si limita a pretendere una diversa configurazione del medesimo.
Questa riduzione dell'orizzonte umano ad una realtà sordida quanto
definitiva non è una scelta consapevole, non viene teorizzata e
giustificata, avviene da sé, s'impone con la forza dell'abitudine. Chi
nel passato ha avuto la sfortuna di essere testimone dell'avvento del
totalitarismo ha osservato come esso non si sia insinuato nella carne e
nel sangue delle persone attraverso i comizi, l'ideologia, le
manifestazioni o le parate. No, sono state le singole espressioni, le
frasi fatte, le locuzioni apparentemente innocue ripetute innumerevoli
volte, mandate in memoria, accettate meccanicamente, a preparare
l'orrore.
Il linguaggio – come è più volte stato osservato – non si limita a
creare e a pensare per noi, dirige anche il nostro sentire, indirizza il
nostro essere. La lingua dello Stato, quella che ci è stata insegnata
fin dalla nascita, quella capace solo di coniugare Diritti e Doveri, non
è uno strumento neutro di comunicazione. È una macchina da guerra
contro il possibile, una camicia di forza del desiderio: «Le parole
possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo
sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi
l'effetto tossico. Se per un tempo sufficientemente lungo al posto di
eroico e virtuoso si dice "fanatico", alla fine si crederà veramente che
un fanatico sia un eroe pieno di virtù e che non possa esserci un eroe
senza fanatismo».
L'inversione di senso, la mutazione delle parole, sono fenomeni che
all'alba del Partito Unico, dell'irreggimentazione di massa, lasciarono
sbalorditi i filologi più attenti per l'insidioso assalto ad un
linguaggio da essi ritenuto consolidato. Nella moderna società
tecnologica, dove tutto procede ad alta velocità in una frenesia che ha
abolito ogni certezza rendendo precaria ogni cosa, i dizionari
andrebbero rivisti quotidianamente. Col tempo, di fronte alla vanità di
opporsi all'erosione del significato, è andato diffondendosi un relativo
disinteresse al riguardo. O, per meglio dire, una noncuranza nei
confronti della logica interna, della coerenza del discorso. Ci si è
applicati a rendere mirabolante la forma che è sotto gli occhi di tutti,
mutevole e disponibile come una merce, a scapito di un contenuto che
ormai non appassiona più nessuno. Come se, in mezzo al marasma
contemporaneo, non occorra prestare più alcuna attenzione al senso delle
parole. Tanto, fare altrimenti equivarrebbe ad incaponirsi in una
battaglia persa in partenza. Evitiamoci l'umiliazione della sconfitta.
Appurato che il linguaggio è reversibile, appurato che la parola può
sempre esprimere tutto e il suo contrario, non vale la pena perdere
tempo a rincorrere un'inesistente e ormai poco interessante rigorosa
precisione. Tanto vale usare il vocabolario che già si possiede, quello
in dotazione a tutti, e giostrarvi all'interno. Questa realistica
constatazione esenta dallo sforzo di inventare un linguaggio della
libertà, facendo ricadere dritti nella grammatica dell'ordine.
Perché è questo il punto: non si parla senza conseguenze la lingua
dello Stato. Si finisce per assimilarla, per introiettarla, per vivere
all'ombra del suo modello e del suo significato. S'incomincia usandola
per esprimere ciò che si pensa – così, per approssimazione, in mancanza
d'altro, «tanto per intendersi» – e si finisce col pensare ciò che si
afferma. Se per un tempo sufficientemente lungo invece di organizzazione
sociale si dice «Stato», alla fine si crederà veramente che non possa
esistere organizzazione sociale senza Stato. O attività senza lavoro. O
azione trasformatrice senza politica. Se per contrastare l'annientamento
della vita umana provocato dal dominio si è capaci solo di invocare i
«diritti negati» o la «democrazia tradita», prima si farà campagna
elettorale per il proprio politico di fiducia e poi si finirà come in
Grecia a presidiare il Parlamento per difenderlo dai manifestanti
arrabbiati.
Ma torniamo ai fatti di Roma. Perché sta dilagando la delazione
anche all'interno del "movimento"? Perchè il trionfo della destra più
becera e reazionaria sembra aver insegnato il segreto del successo:
essere beceri e reazionari. E se la sinistra si è subito distinta
nell'imitare le peggiori politiche della destra, il movimento ha ripreso
i peggiori tratti della sinistra. Dopo aver rivalutato la Costituzione
in chiave antifascista, la legalità in chiave antiberlusconiana, il
tricolore in chiave antileghista, la religione in chiave antirazzista,
cosa ci è rimasto di sovversivo? Nulla. Come in carcere e in caserma, in
tutti gli spazi chiusi di coabitazione forzata dove aleggia il tanfo
della coercizione, si è ottenuta una comunanza che con una mano di
vernice ha nascosto le individualità precedenti creando nuove abitudini
linguistiche. In questa maniera, dopo averle a lungo masticate,
all'inizio a denti stretti e poi con maggior fervore, si sono
inghiottite parole nocive che ora stanno sprigionando il loro effetto
letale. Dopo aver intonato il mantra delle lotte sociali in cui ogni
iniziativa deve senza meno essere condivisa («condivisione o Stato»),
dopo aver preteso l'adeguamento del singolo all'azione collettiva («si
parte assieme e si torna assieme»), dopo aver prescritto regole di
comportamento ai manifestanti pena la loro esclusione dal movimento («a
mani nude, a volto scoperto»), dopo aver ripetuto per la milionesima
volta che l'operato delle istituzioni è «abusivo» e che la protesta è
quindi «legittima», come ci si può meravigliare davanti alla furibonda
reazione degli indignati a Roma? I nerovestiti – che arrivano
mascherati, attrezzati, decisi a fare quello che hanno in mente senza
chiedere permesso a nessuno – diventano per forza di cose loschi e
sospetti (se non addirittura fascisti e infiltrati, emanazione di oscuri
apparati di potere).
Non sono dispute sulle parole, non è vana pedanteria. Se non ci
decidiamo a seppellire per sempre la lingua dello Stato finiremo col
rimanere vittime del suo arsenico. Noi non vogliamo spostare i limiti
del sedicente reale, vogliamo annullarli. Quello che per altri è
allucinazione, per noi è evocazione. Il guaio del realismo è di
sottomettere ai suoi dogmi non rivedibili ogni possibilità, impedendone
così la messa in gioco. Offre una presa salda sugli avvenimenti, è vero,
ma impedisce e reprime ogni via di fuga, riporta ogni prospettiva
all'interno delle curve di crescita economica. I suoi ispettori penosi,
che non ci lasciano all'uscita della scuola o del lavoro, continuano ad
aggirarsi nelle nostre vite. Non si fidano, vogliono assicurarsi che un
gatto lo chiamiamo gatto. Ma per attentare alla fragile esistenza delle
cose, occorre anche scompigliare l'ordine del discorso, sottrarre il
linguaggio alla sua servitù. Farla finita con le descrizioni del fatto,
con gli studi di costume, con le apologie del pragmatico. Per andare
dove nessuno è mai passato, se non si sceglie di fare silenzio («ma
questo è autismo!»), bisogna dire ciò che nessuno osa proferire («ma non
verremmo capiti!»). Il feticismo politico, quello che ha bisogno di
contare i partecipanti ad una manifestazione, di far andare almeno in
pareggio il bilancio della propria piccola impresa militante, non ha
orecchio per questo genere di poesia. La può accettare solo come
occasionale innovazione alla propria ammuffita propaganda. La politica,
in qualsiasi modo venga declinata, ha l'assoluta necessità di credere
solo a ciò che è successo, ovvero a ciò che è Stato.
Noi non saremo i cantori di questo mondo di realtà quantificate, di
questo disastro che si impone a scapito di tutti i possibili, di questa
sopravvivenza in cui ogni essere abolisce la propria singolarità nel
valore d'uso. Non è qui che si possono scambiare altre voci, altri
oggetti del desiderio. Contro un universo che produce, su ordinazione,
sempre maggiore realtà, ovvero sempre più spettacoli, più sostituti
virtuali, più fantasmi oggettivizzati, solo l'emancipazione
dell'immaginario è in grado di consentire l'emergere di nuove esperienze
di vita. Ecco perché vogliamo bonificare la nostra lingua dalle parole e
dai concetti che non smettono di (farci) lavorare e militare. Perché
siamo stanchi di essere trascinati in questi luoghi comuni, senz'altro
affollati, pieni di brusio e di agitazione, ma dove si incontrano solo
persone comuni con i loro pensieri comuni.
«L'idea di un letto di pietra o di piume mi è ugualmente insopportabile:
che volete, non posso dormire che su di un letto di midollo di sambuco.
Provate anche voi. Che comodità, vero?»
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