Naufraghi in un mare di fango, dopo giorni infiniti di caldo e di
pioggia. La piena dei torrenti ci ha sommerso proprio dove ci sentivamo
più sicuri: all’ombra delle nostre montagne, per le strade dei nostri
paesi, si è infiltrata fin dentro le nostre case. I morti, le case
distrutte e l’urlo delle sirene hanno riempito lo spazio lasciato vuoto
per un giorno dalla millenaria illusione di poter costruire un muro
immenso e invalicabile tra noi e la natura. Di qua il tepore delle case,
i ritmi del lavoro, le città fortificate ed i paesi sonnolenti; di là
il freddo, le insidie dei boschi, il ricatto della fame.
La nostra civiltà si costruisce dentro al perimetro di una diga
immaginaria che giustifica ogni sacrificio. Per innalzarla ci siamo
piegati alle leggi crudeli dell’economia, abbiamo marciato compatti ai
ritmi della produzione, abbiamo respirato veleni industriali e mangiato
cibi di plastica, abbiamo visto i ricchi diventare sempre più ricchi ed i
poveri inabissarsi nella miseria.
Siamo già morti in nome del Progresso, ora vicini di casa ed amici
ci muoiono tra le mani perché il Progresso non regge a cinque giorni di
pioggia. Chi definisce questa alluvione solo come una catastrofe
naturale vuole nascondere il fatto che si è trattato innanzitutto di una
catastrofe sociale. Non solo perché il vecchio muro che ci divide dalla
natura non ha retto, ma perché proprio erigendo quel muro abbiamo via
via ingrossato i torrenti. Il sistema industriale ha causato danni tali
alla terra da provocare un rapidissimo mutamento climatico. Cambiamenti
della temperatura che un tempo si producevano nel giro di generazioni
ora maturano in pochi anni: la temperatura si alza facendo avanzare i
deserti nel Sud del mondo, sciogliendo i ghiacciai ed allagando le terre
al Nord. È il sistema industriale, è la produzione, è il cuore pulsante
della nostra civiltà che ci costringe a scappare di fronte all’acqua,
così come nel Sud da anni i poveri arretrano di fronte al deserto.
Del resto, tutte le innovazioni tecniche che per funzionare hanno
bisogno di una complessa organizzazione sociale, di specialisti e di
scienziati, sono pericolose proprio perché non sono nostre, perché non
le possiamo controllare. Pensiamo solo alle applicazioni pratiche delle
scienze biotecnologiche: nessuno sa ancora quali meccanismi potranno
innescare, quali danni potranno causare ai nostri corpi, al cibo che
mangeremo, all’acqua che berremo. L’unica certezza è che ci
guadagneranno gli industriali e i governi, e che le cavie saremo noi.
Due alluvioni in sei anni dimostrano che l’innalzamento delle
temperature è un dato oramai acquisito e che, purtroppo, dovremo
aspettarcene delle altre. Proprio qui, in un territorio che in questi
anni sembra essere stato modificato apposta per non resistere all’acqua.
Quella in cui abbiamo sempre vissuto è la società dell’alluvione,
la società che l’ha causata e che non ha saputo farvi fronte. Fra una
alluvione e l’altra, dobbiamo saper scegliere se continuare a dar
credito al Progresso, che ci rende schiavi promettendoci sicurezze
illusorie, o se pensare ed organizzare un modo nuovo di vivere con la
natura e tra di noi. Ecco cosa ci rimane dopo il diluvio, oltre a fango e
a vecchie certezze incrinate. La forza di non voler più essere
naufraghi, ma ammutinati.
[Dal numero unico Il diluvio, Nus, ottobre 2000]
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