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lunedì 7 novembre 2011

Da naufraghi ad ammutinati


Naufraghi in un mare di fango, dopo giorni infiniti di caldo e di pioggia. La piena dei torrenti ci ha sommerso proprio dove ci sentivamo più sicuri: all’ombra delle nostre montagne, per le strade dei nostri paesi, si è infiltrata fin dentro le nostre case. I morti, le case distrutte e l’urlo delle sirene hanno riempito lo spazio lasciato vuoto per un giorno dalla millenaria illusione di poter costruire un muro immenso e invalicabile tra noi e la natura. Di qua il tepore delle case, i ritmi del lavoro, le città fortificate ed i paesi sonnolenti; di là il freddo, le insidie dei boschi, il ricatto della fame.
La nostra civiltà si costruisce dentro al perimetro di una diga immaginaria che giustifica ogni sacrificio. Per innalzarla ci siamo piegati alle leggi crudeli dell’economia, abbiamo marciato compatti ai ritmi della produzione, abbiamo respirato veleni industriali e mangiato cibi di plastica, abbiamo visto i ricchi diventare sempre più ricchi ed i poveri inabissarsi nella miseria. 
Siamo già morti in nome del Progresso, ora vicini di casa ed amici ci muoiono tra le mani perché il Progresso non regge a cinque giorni di pioggia. Chi definisce questa alluvione solo come una catastrofe naturale vuole nascondere il fatto che si è trattato innanzitutto di una catastrofe sociale. Non solo perché il vecchio muro che ci divide dalla natura non ha retto, ma perché proprio erigendo quel muro abbiamo via via ingrossato i torrenti. Il sistema industriale ha causato danni tali alla terra da provocare un rapidissimo mutamento climatico. Cambiamenti della temperatura che un tempo si producevano nel giro di generazioni ora maturano in pochi anni: la temperatura si alza facendo avanzare i deserti nel Sud del mondo, sciogliendo i ghiacciai ed allagando le terre al Nord. È il sistema industriale, è la produzione, è il cuore pulsante della nostra civiltà che ci costringe a scappare di fronte all’acqua, così come nel Sud da anni i poveri arretrano di fronte al deserto.
Del resto, tutte le innovazioni tecniche che per funzionare hanno bisogno di una complessa organizzazione sociale, di specialisti e di scienziati, sono pericolose proprio perché non sono nostre, perché non le possiamo controllare. Pensiamo solo alle applicazioni pratiche delle scienze biotecnologiche: nessuno sa ancora quali meccanismi potranno innescare, quali danni potranno causare ai nostri corpi, al cibo che mangeremo, all’acqua che berremo. L’unica certezza è che ci guadagneranno gli industriali e i governi, e che le cavie saremo noi.
Due alluvioni in sei anni dimostrano che l’innalzamento delle temperature è un dato oramai acquisito e che, purtroppo, dovremo aspettarcene delle altre. Proprio qui, in un territorio che in questi anni sembra essere stato modificato apposta per non resistere all’acqua.
Quella in cui abbiamo sempre vissuto è la società dell’alluvione, la società che l’ha causata e che non ha saputo farvi fronte. Fra una alluvione e l’altra, dobbiamo saper scegliere se continuare a dar credito al Progresso, che ci rende schiavi promettendoci sicurezze illusorie, o se pensare ed organizzare un modo nuovo di vivere con la natura e tra di noi. Ecco cosa ci rimane dopo il diluvio, oltre a fango e a vecchie certezze incrinate. La forza di non voler più essere naufraghi, ma ammutinati.
 
[Dal numero unico Il diluvio, Nus, ottobre 2000]

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