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giovedì 28 aprile 2011

cent’anni di colonizzazione

da la miccia


Gli avvenimenti che, a partire dal diciassette febbraio di quest’anno, hanno sconvolto la quiete del regime libico, sono la palese rappresentazione di come la rivolta di un popolo ad un quarantennale sistema oppressivo possa trasformarsi in qualcosa di ben lontano dalle aspirazioni di coloro che hanno finalmente trovato la forza di reagire; una pietosa raffigurazione di come un impeto rivoluzionario distruttore delle gabbie dell’umanità, possa essere incanalato in una più strutturata (controllabile) guerra civile, nella quale la pulsione demolitrice diventa mera antagonista al potere esistente.
Il regime di Mu’ammar Gheddafi è sempre stato un avamposto degli interessi occidentali in Africa, che grazie alle riserve petrolifere garantiva gli investimenti delle maggiori potenze occidentali sotto forma di diritti di estrazione. Col colonnello, multinazionali energetiche come l’ENI sono riuscite ad ottenere, per anni, agevolazioni allo sfruttamento senza neanche fomentare e organizzare moti pseudo rivoluzionari, come quelli in Iran e Algeria, risultando, così, conveniente fare affari col rais anche a fronte delle sanzioni USA.
Era evidente, quindi, di fronte alla mole di interessi presenti nella regione, che le conseguenze in Libia delle rivolte che hanno attraversato l’Africa Mediterranea, suscitassero presso la “comunità internazionale” maggiori preoccupazioni. La crisi umanitaria dei ribelli massacrati dal colonnello, tanto sventolata, è stato il solito espediente per un’azione di più ampio respiro. Un’azione che sottraesse questi profitti dalla volubilità del rais. Un’azione che potesse rappresentare la rivalsa del tanto odiato nemico americano, e una maggiore penetrazione delle ragioni economiche francesi che, non a caso, ha fatto notevoli pressioni all’interno del consiglio di sicurezza per accaparrarsi il comando della missione (spingendo l’Italia a garantire l’intervento militare pur di tutelare questi interessi).
La rivolta di popolo è stata quindi fatta diventare consiglio transitorio dei ribelli e subito riconosciuto come governo legittimo della Libia da detti Paesi, Italia compresa (che ancora in vena di celebrazione d’anniversari, a un secolo esatto dall’esperienza giolittiana coloniale del 1911, ha voluto festeggiare la ricorrenza riaffondando gli artigli in questa terra).
Con la risoluzione ONU 1973 le porte della Libia sono state se non aperte, perché già lo erano, spalancate all’occidente e ai suoi scopi economici.
Le bombe intelligenti della NATO risultano ancora una volta esserlo, stroncando da un lato le truppe lealiste al colonnello, dall’altro, sbagliando lancio di tanto in tanto, i ribelli cooptati, che tanto le hanno volute, in modo da rimarcare quali saranno le reali relazioni di forza che ci saranno anche nel periodo post-Gheddafi.
Per quanto riguarda il nostro bel paese, le motivazioni che hanno indotto il governo ad una sterzata nelle relazioni con la Libia sono riconducibili alle ragioni, come un buono stato borghese impone, delle maggiori imprese economiche:
Eni. E’ il principale operatore internazionale nell’estrazione del petrolio e del gas nel paese nordafricano. A preoccupare c’è l’impatto diretto sul fatturato del gruppo e anche il timore generale del balzo del prezzo del petrolio. Sia gli esponenti libici che i vertici dell’Eni hanno comunque ribadito per ora una reciproca “amicizia”. Tripoli ha confermato tutti i contratti anche dopo l’inizio della guerra civile. Il gruppo guidato da Scaroni, per altro, paga al governo di Tripoli anche una tassa, del 4% sugli utili, imposta alle compagnie petrolifere. Un onere che per la società italiana, che è in Libia dai tempi di Mattei e ha una presenza assicurata fino al 2045 grazie al rinnovo delle concessioni, ammonta a 280 milioni di euro l’anno.
Unicredit. Sotto i riflettori, da mesi, c’è la partecipazione libica nella banca di Piazza Cordusio. Tra gli azionisti, infatti, ci sono la Central Bank of Libya (4,988%) e Libyan Investment Authority (2,594%). Sommando le due quote, la componente libica è di gran lunga il primo azionista, con oltre il 7,5%.
Finmeccanica. Lybian Investment Authority detiene anche una quota del 2,01 per cento in Finmeccanica. Grazie alla collegata Ansaldo Sts, la società guidata da Pierfrancesco Guarguaglini ha una buona presenza in Libia. Nel luglio del 2009, Finmeccanica e Libya Africa Investment Portfolio, il fondo di investimento posseduto da LIA, hanno costituito una joint venture paritetica per una cooperazione strategica nei settori dell’aerospazio, trasporti ed energia. Inoltre, Finmeccanica si è aggiudicata numerosi contratti in Libia attraverso le sue controllate, come Ansaldo Sts e Selex Sistemi Integrati. Nel campo elicotteristico, AgustaWestland ha messo in piedi un sistema industriale di manutenzione e assemblaggio tramite la Liatec. Si calcola che le commesse di Finmeccanica in Libia ammontino a circa 1 miliardo di euro nei settori dell’elicotteristica civile e ferroviario.
Impregilo. Altrettanto presente in Gran Jamahiria è Impregilo. E’ impegnata attraverso una società mista (Libco) partecipata dalla multinazionale italiana al 60% e al 40% da Libyan development investment. Impregilo ha in essere progetti nel settore costruzioni, come la Conference hall di Tripoli, la realizzazione di tre poli universitari e la progettazione e realizzazione di lavori infrastrutturali e di opere di urbanizzazione nelle città di Tripoli e Misurata. Si tratta di ordini che si aggirano, complessivamente, attorno al miliardo di euro.
Autostrada dell’amicizia. La maxi infrastruttura chiesta dal colonnello Gheddafi come riparazione per i danni subiti nel periodo coloniale. Con i suoi 1700 km che dovrebbero attraversare la Libia da Rass Ajdir a Imsaad, ovvero dal confine con l’Egitto a quello con la Tunisia, è la più imponente e impegnativa infrastruttura stradale mai realizzata da aziende italiane, con tempi di lavoro stimati fino a vent’anni e una spesa di 3 miliardi di dollari. Nel dicembre scorso, al termine di una gara affidata a una commissione italo-libica, il raggruppamento di imprese costituito da Anas (capofila)-Progetti Europa & Global- talsocotec si è aggiudicato la gara da 125,5 milioni di euro, bandita dall’ambasciata di Tripoli in Italia, per il servizio di ‘advisor’ per tutto il processo che condurrà alla costruzione dell’autostrada.
Altre partecipazioni libiche. Si può ormai definire “storica” la presenza libica nella Juventus, di cui la Libyan arab foreign investment company detiene ancora una quota pari al 7,5%. Presenze minori, con forte possibilità di forte crescita, risultano in Eni (meno dello 0,1%, ma con il consenso alla possibilità di salire fino al 5) e Telecom (con meno dello 0,01%). Lybian Post, con il 14,8%, è presente in Retelit, operatore di tlc specializzato nella fornitura di servizi a banda larga a enti e aziende.
Non si può, di fronte ad uno scenario simile, restare inerti. Il nemico come sempre è ben identificato: la solidarietà al popolo libico, passato da una gabbia all’altra, va espressa in modo attivo e diretto.
Anche oggi come nel 1911 il bersaglio della nostra collera è diverso da quello indicatoci dal governo e dagli interessi che lo sostengono. Augusto Masetti ribellandosi all’intervento in Libia sparò contro un ufficiale dell’esercito; a noi di certo non dovrebbe mancare la fantasia per colpire il nemico in ogni modo e in ogni istante per rifiutare questo presente di sopruso e sfruttamento.

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