da finimondo
Dominique Miséin
Alcuni anni or sono, in occasione di una scadenza elettorale, un celebre giornalista italiano invitò i propri lettori a turarsi il naso e a compiere il proprio dovere di cittadini, recandosi a votare per il partito allora al potere. Il giornalista era ben consapevole che all’olfatto della gente quel partito emanava il fetore di decenni di putridume istituzionale — soprusi, corruzione, malaffare — ma la sola alternativa politica disponibile sul mercato, la sinistra, gli sembrava ancor più nefasta. Non rimaneva quindi che turarsi il naso e votare per i governanti già al potere.
All’epoca, per quanto oggetto di molte discussioni, questo invito riscosse un certo successo e in un certo senso si può dire che fece scuola. Non è sorprendente. In effetti il ragionamento di quel giornalista faceva leva su uno dei riflessi condizionati sociali più facilmente riscontrabile, quello che sia la politica del male minore a guidare le scelte quotidiane della maggior parte delle persone. Messo di fronte ai fatti della vita, il buon senso comune è sempre pronto a rammentarci che fra alternative parimenti detestabili non resta che optare per quella che ci sembra meno foriera di tristi conseguenze.
Come negare che tutta la nostra vita si riduce ad essere una lunga ed estenuante ricerca del male minore? Come negare che l’ipotesi di scegliere il bene — inteso non in senso assoluto, è naturale, ma più semplicemente come ciò che si reputa tale — sia in genere scartata a priori? L’intera nostra esperienza e quella delle generazioni passate ci insegnano che il mestiere di vivere è uno dei più duri e i sogni più ardenti non possono avere che un tragico epilogo: uccisi dal suono della sveglia, dai titoli di coda di un film, dall’ultima pagina di un libro. «Così è sempre stato» — ci viene detto con un sospiro. Dal che deduciamo che così sempre sarà.
Sia chiaro, tutto ciò non impedisce a noi tutti di cogliere la nocività di quanto abbiamo di fronte. Sappiamo di scegliere comunque un male. Ciò che ci manca — e ci manca perché ci è stata sottratta — non è tanto la capacità di giudicare il mondo che ci circonda, la cui infamia si impone con l’immediatezza di un pugno in faccia, quanto quella di andare al di là delle possibilità date. O anche solo di tentare di farlo. Così, adducendo l’eterno pretesto che si rischia di perdere tutto se non ci si accontenta di ciò che già si possiede, si finisce col trascorrere la propria esistenza all’insegna della rinuncia. È la stessa vita quotidiana, con la sua indiscrezione, ad offrirci numerosi esempi in proposito. In tutta sincerità, quanti di noi possono vantarsi di godere della vita, di esserne appagati? E quanti possono dirsi soddisfatti del proprio lavoro, di queste ore senza scopo, senza piacere, senza fine? Eppure, di fronte allo spauracchio della disoccupazione, siamo pronti ad accettare una miseria di salario pur di evitare una miseria senza salario. Ancora, come spiegare quel prolungare fino all’estremo gli anni dello studio, caratteristica assai diffusa, se non con l’ostinato rifiuto di entrare in un’età adulta in cui si avverte la fine di una già precaria libertà? E che dire poi dell’amore, di questa ricerca spasmodica di qualcuno da amare e da cui essere amati che il più delle volte si conclude con la sua parodia, quando, pur di allontanare lo spettro della solitudine, preferiamo prolungare rapporti affettivi ormai logori? Avari di stupore e d’incanto, i nostri giorni sulla terra sanno regalarci solo la noia della ripetizione seriale.
Così, malgrado i numerosi tentativi di nasconderle o almeno minimizzarle, le ferite provocate dall’odierno sistema sociale le vediamo tutti. Sappiamo tutti di vivere in un mondo che fa male. Ma per renderlo sopportabile, vale a dire accettabile, è sufficiente oggettivarlo, fornirlo di una giustificazione storica, dotarlo di una logica implacabile davanti alla quale la nostra coscienza da ragionieri non può che capitolare. Per rendere più sopportabile la mancanza di vita e il suo ignobile baratto con la sopravvivenza — la noia di anni trascorsi in ufficio, l’abbandono forzato di amori e passioni, l’invecchiamento precoce dei sensi, il ricatto del lavoro, la devastazione ambientale, e via deprimendosi — cosa c’è di meglio che relativizzare questa situazione, paragonarla ad altre di maggiore angoscia e oppressione, cosa c’è di più efficace che metterla a paragone con il peggio?
Naturalmente sarebbe un errore ritenere quella del male minore una logica che si limita a regolare esclusivamente le nostre piccole faccende domestiche. Essa regola e amministra anche e soprattutto l’intera vita sociale, come ben sapeva quel giornalista. Di fatto, ogni società conosciuta dall’uomo viene giudicata imperfetta. Quali che siano le proprie idee, chiunque ha sognato di vivere in un mondo diverso da quello attuale: una democrazia più rappresentativa, un’economia più svincolata dall’intervento dello Stato, un potere non più centralizzato ma “federalista”, una nazione senza stranieri e di seguito fino alle aspirazioni più estreme.
Ma il desiderio di realizzare il proprio sogno spinge all’azione, perché solo l’azione si propone di trasformare il mondo, cioè di renderlo simile al sogno. Agire risuona all’orecchio come il fragore delle trombe di Gerico. Non esiste imperativo che possieda un’efficacia più rude e, per chi l’intende, la necessità di venire agli atti si impone senza indugio e senza condizione. Ma chi domanda all’azione di realizzare le aspirazioni che lo animano, riceve presto strane e inaspettate risposte. Il neofita impara in fretta che un’azione efficace è quella che si limita a realizzare sogni circoscritti, cupi e tristi. Non solo le grandi utopie, ma anche gli obiettivi che sembrano più a portata di mano si dimostrano difficilmente realizzabili. Così, chi credeva di trasformare il mondo secondo il proprio sogno, si ritrova a non fare altro che trasformare il suo sogno adattandolo alla realtà più immediata di questo mondo: al fine di agire produttivamente, si vede costretto a soffocarlo. Ecco perché la prima rinuncia che l’azione produttiva domanda a colui che vuole agire è che egli riduca il proprio sogno alle proporzioni indicate da ciò che esiste. Si spiega così, in poche parole, perché la nostra è un’epoca di compromessi, di mezze misure, di nasi turati. Di mali minori, per l’appunto.
A pensarci bene, è proprio per questo che il concetto di riformismo, alla cui causa oggi tutti (si) votano, rappresenta un’espressione compiuta della politica del male minore: un agire prudente, sottoposto all’occhio vigile della moderazione, che non perde mai di vista il proprio indice di gradimento, e che procede con una cautela degna della diplomazia più consumata. La preoccupazione di evitare scossoni è tale che, quando alcune circostanze avverse li rendono inevitabili, ci si affretta a legittimarli ostentando la sciagura peggiore evitata. Non siamo forse appena “usciti” da una guerra che è stata giustificata come male minore rispetto a una feroce “pulizia etnica”, così come cinquant’anni fa l’uso delle testate atomiche su Hiroshima e Nagasaki venne giustificato come un male minore rispetto alla prosecuzione del conflitto bellico? E questo malgrado tutti i governi del pianeta dichiarino di aborrire il ricorso alla forza nella risoluzione dei conflitti.
Già. Anche la classe dirigente riconosce la fondatezza delle critiche formulate nei confronti dell’attuale ordine sociale, di cui essa è per altro responsabile. A volte capita addirittura di trovare alcuni suoi esponenti in prima linea nel denunciare formalmente le discriminazioni delle leggi del mercato, il totalitarismo del “pensiero unico”, gli abusi del liberalismo. Anche per queste realtà, tutto ciò è un male. Ma un male inevitabile, di cui si può tentare al massimo di diminuire gli effetti.
Il male in questione, quello da cui non ci si può liberare — lo avrete già capito —, è un ordinamento sociale basato sul profitto, sul denaro, sulla merce, sulla riduzione dell’uomo a cosa, sul potere, e che ha nello Stato uno strumento di coercizione indispensabile. Ed è solo dopo aver messo fuori discussione l’esistenza del capitalismo, con tutti i suoi corollari, che gli addetti alla politica possono interrogarsi su quale sia la forma capitalista che possa rappresentare il male minore da sostenere. Al giorno d’oggi la preferenza va accordata ad una democrazia, che non a caso viene presentata come il “meno peggiore dei sistemi politici conosciuti”. Se confrontata col fascismo o con lo stalinismo, essa ottiene facilmente l’adesione del senso comune occidentale, tanto più che la menzogna democratica si fonda sulla partecipazione (illusoria) dei propri sudditi alla gestione della cosa pubblica, che così verrebbe ad apparire perfezionabile. In questo modo diventa facile convincersi che una condotta dello Stato «più giusta», una «migliore ripartizione delle ricchezze», oppure un «più oculato sfruttamento delle risorse», costituiscono le uniche possibilità a disposizione per affrontare i problemi posti dalla nostra civiltà moderna.
Ma così facendo si omette un particolare fondamentale, vale a dire si omette di cogliere ciò che unisce nella loro essenza le diverse alternative avanzate: l’esistenza del denaro, del lavoro, del commercio, delle classi, del potere. Ci si dimentica, per così dire, che scegliere un male, seppur minore, è la maniera migliore di prolungarlo. Per riprendere gli esempi appena fatti, uno Stato «più giusto» è quello che decide di bombardare un intero paese per convincere uno Stato «più sbagliato» a cessare le operazioni di pulizia etnica al proprio interno. La differenza esiste, inutile negarlo, ma la percepiamo solo nella ripugnanza che ci ispira una logica di Stato capace di giocare con la vita di migliaia di persone, sgozzate o bombardate che siano. Allo stesso modo, una «migliore ripartizione delle ricchezze» è quella che intende evitare di concentrare nelle tasche dei soliti pochi il frutto del lavoro dei soliti molti. Ma questo cosa significa? In poche parole, che cambierà il coltello con cui i signori della terra taglieranno le fette della torta della ricchezza mondiale e che magari si aggiungerà un posto in più alla tavolata degli allegri commensali. Quanto al resto dell’umanità, dovrà continuare ad accontentarsi delle briciole. Per finire, nessuno oggi oserebbe negare che lo sfruttamento della natura abbia provocato innumerevoli catastrofi ambientali. Ma non occorre essere esperti in materia per capire che rendere questo sfruttamento «più oculato» non servirà ad impedire ulteriori catastrofi, bensì unicamente a rendere anche queste più oculate. Ma esiste una catastrofe ambientale oculata, e con quali parametri si può misurare?
Una piccola guerra è meglio di una grande guerra, essere plurimiliardari è meglio che essere miliardari, le catastrofi circoscritte sono meglio delle catastrofi estese. Come non vedere che, percorrendo questa strada, si continuano a perpetuare le condizioni sociali, politiche ed economiche che rendono possibile lo scoppio di guerre, l’accumulazione di privilegi, il verificarsi di catastrofi? Come non vedere che una simile politica non presenta nemmeno una minima utilità pratica, ché quando la misura è colma basta una goccia e il vaso trabocca? Dal momento in cui si rinuncia a mettere in discussione il capitalismo in quanto totalità comune a tutte le diverse forme di ordinamento politico e si preferisce passare al mero paragone fra le varie tecniche di gestione dello sfruttamento, la persistenza del male è assicurata. Non è forse vero che, davanti alla difficoltà di continuare ad imporre il sistema capitalista sotto i colori del socialismo dell’Est, è stato ripresentato sotto le vesti del liberalismo dopo aver fatto cadere il muro di Berlino? Non è forse vero che in Italia, davanti alla minaccia reazionaria di un governo di destra, si è preferito un governo di sinistra che ha surclassato il proprio avversario sul terreno stesso della reazione? Anziché porsi il problema se è il caso di avere un padrone a cui obbedire, si preferisce scegliere il padrone che bastona di meno. Attraverso questo procedimento ogni slancio, ogni tensione, ogni desiderio di libertà viene ricondotto a più miti consigli: invece di colpire le nocività che ci avvelenano, se ne biasimano gli eccessi. All’interno di questo contesto, più virulenza si usa per denunciare simili eccessi, più si consolida ciò che li produce. La piaga si richiude su questo glissamento ideologico, senza lasciare via di scampo. E fin quando la questione da risolvere sarà quella di come gestire il dominio anziché prendere in considerazione la possibilità di farne a meno e pensare a come realizzare ciò, la logica di chi ci governa e amministra continuerà a dettare le misure da prendere nei confronti di tutti.
Dopo il danno, non poteva mancare la beffa. Ad ogni giro di timone, ci viene assicurato che il risultato ottenuto non può essere peggiore di quello precedente; che la politica perseguita, sempre proiettata verso il progresso, sbarrerà la strada a quella più conservatrice; che dopo aver sopportato in silenzio tante difficoltà, ora siamo infine sulla strada giusta. Di male minore in male minore, gli innumerevoli riformisti che affollano questa società ci conducono così di guerra in guerra, di catastrofe in catastrofe, di sacrificio in sacrificio. Ed è accettando questa logica mortificante di ragione spicciola e di sottomissione quotidiana allo Stato che — a forza di fare calcoli, di soppesare tra male e male — si può arrivare un giorno a mettere sul piatto della bilancia la propria stessa vita: meglio crepare subito, che continuare a languire su questa terra. Deve essere questo il pensiero che arma la mano del suicida. A furia di turarsi il naso per votare a favore del potere, si finisce con lo smettere di respirare.
Come abbiamo visto, restare nell’ambito del male minore non pone troppi problemi; il problema comincia nel momento in cui si esce da questo ambito, nel momento in cui lo si distrugge. Basta osservare che tra due mali il peggiore è sceglierne uno, ed ecco la polizia bussare alla porta. Se si è nemici di qualsiasi partito, di qualsiasi guerra, di qualsiasi ricco, di qualsiasi sfruttamento della natura, non si può che risultare sospetti all’occhio dell’autorità. In effetti, è qui che comincia la sovversione. Rifiutare la politica del male minore, rifiutare questo istinto che induce a conservare la propria esistenza invece di viverla, porta necessariamente a mettere in gioco ogni cosa in quanto il mondo reale e le sue “necessità” perdono di significato. Non che l’Utopia sia immune alla logica del male minore, no di certo. Durante i periodi rivoluzionari è proprio in questo modo che sono stati fermati gli assalti degli insorti: quando infuria la tempesta e le ondate minacciano di spazzare via tutto, c’è sempre qualche rivoluzionario più realista del Re che si affretta a dirottare la rabbia popolare verso rivendicazioni più “ragionevoli”. Dopo tutto, anche chi vuole mettere sottosopra questo mondo ha paura di perdere tutto. Anche se di quel tutto, non c’è nulla che davvero gli appartenga.
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