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martedì 15 novembre 2011

La sovranità nella bancarotta del capitalismo





Si parla ormai abitualmente (e impropriamente) di “debito sovrano”. Ma non c’è nulla di più errato e fuorviante del concetto di “debito sovrano”, coniato non a caso in un momento storico in cui gli Stati nazionali hanno ceduto totalmente la loro sovranità e autonomia decisionale di fronte all’arroganza e allo strapotere dei mercati finanziari.
In un’assurda e perversa catena di domino, i bilanci degli Stati più esposti al debito pubblico sono a turno travolti e assorbiti nel dissesto finanziario, coinvolgendo le altre nazioni, per cui risulta sempre più complicato adottare le politiche di “austerità” che mirano ad intensificare oltremisura la pressione fiscale e ad inasprire l’offensiva contro le tutele sociali del mondo del lavoro, al fine di sottrarre ingenti risorse dirottate verso il capitale bancario e finanziario, poiché una simile prospettiva comporta la dissoluzione definitiva di ogni intesa sociale, causando e autorizzando la sollevazione del popolo.
Papandreu ha dovuto sottomettersi alle costrizioni delle oligarchie finanziarie e revocare il referendum appena poche ore dopo l’annuncio. Papandreou non è Lenin e non serviva una mente eccezionale per capirlo. Diversamente da Papandreou, Lenin avrebbe promosso il referendum dichiarando l’insolvenza del debito pubblico del suo Paese. D’altronde è esattamente ciò che fece nel 1917: denunciò il debito pubblico dell’impero zarista e promulgò un decreto che fece tremare il mondo, azzerando l’enorme debito accumulato dalla Russia nei confronti delle potenze occidentali. Invece Papandreou non ha affrontato la sfida, temendo che un default della Grecia avrebbe risucchiato nel baratro finanziario l’intera Europa: ha preferito demolire la democrazia piuttosto che contrastare ed eliminare l’accerchiamento usuraio del proprio popolo da parte del capitale finanziario. L’entità del debito pubblico greco è assai modesta, ma sufficiente a rompere i rapporti di forza vigenti negli assetti della finanza capitalista internazionale.
Salvare la Grecia è un’impresa già ardua per gli equilibri politici europei, ma salvare un mondo sull’orlo della bancarotta è un’impresa praticamente impossibile. In un sistema globale in cui si agita lo spauracchio della crisi e si pretende di usare l’arma del ricatto finanziario per costringere gli Stati nazionali a compiere scelte inique e impopolari, ogni governo rischia di trasformarsi in una mostruosa tirannide esercitata in nome delle banche, un abietto strumento di rapina ed estorsione che annienta ogni elemento di sovranità popolare. Solo pochi mesi fa la maggioranza degli Italiani non sapeva nemmeno che esistesse il Fondo Monetario Internazionale, mentre oggi lo scopre improvvisamente a tutela del Paese. Anche dopo l’imminente cacciata di Berlusconi il rapporto stretto con il FMI vincolerà l’azione dei futuri esecutivi nazionali. Nei periodi di assenza di credibilità e sovranità della politica, le tecnocrazie finanziarie hanno imposto direttamente i loro fiduciari alla guida di governi detti impropriamente “tecnici”. E’ già avvenuto in Italia negli anni ’90 con Ciampi, Dini, Amato. Accadrà di nuovo con Monti.
Chiudo con un episodio salito recentemente alla ribalta della cronaca, destando un certo scalpore: un negozio di gadget elettronici, situato nel centro di Roma, è stato assalito da un’enorme ressa di clienti attirati dall’offerta di prezzi stracciati. La notizia è la classica eccezione che conferma la regola, la riprova del delirio allucinante del capitalismo, una testimonianza ulteriore che certifica l’aberrazione consumistica di massa, una droga che procura demenza e assuefazione: chi non consuma, sprofonda in una crisi d’astinenza.
Lucio Garofalo

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