Quanto è accaduto a Roma lo scorso 15 ottobre ha riscaldato il cuore di molti, che guardano con gioia al riaprirsi di un conflitto sociale che potrebbe allargarsi, ma quegli stessi cuori pare non si siano rattristati nel veder circolare alcuni consigli “utili” a chi aveva preso parte agli scontri, per non incappare nella caccia repressiva che si è scatenata subito dopo, sostenuta come al solito dalla canea mediatica e dalla delazione mediattivista – simbolo di tempi di rappresentazione più che di contenuti.
Tra questi intelligenti consigli, due spiccavano per la loro acutezza: quello che invitava a tenere per un po’ un basso profilo, ed un altro che incitava a liberare la casa dai testi radicali. Personalmente non so se siano consigli utili per sfuggire all’apparato repressivo, ma li trovo miserabili se penso che circolano in un ambiente che afferma di voler fare tabula rasa di questo mondo.
Mi chiedo come sia possibile consigliare di togliere libri e riviste dalla propria abitazione senza che ciò comporti una forma di rinnegamento di se stessi, dei propri ideali, dei propri sogni, delle aspirazioni e dei desideri più profondi. Come sia possibile consigliare di occultare una delle nostre armi, quella che più di ogni altra ci consente di approfondire i problemi che ci troviamo ad affrontare per arrivare ai ferri corti con questo mondo, ed in cui possiamo cercare percorsi teorici e pratici che ci aprano il cammino della liberazione totale. Mi chiedo con quale leggerezza si possa chiedere di nascondere a se stessi, senza peraltro nasconderlo ai repressori, il proprio pensiero, senza provare vergogna per questo.
Perché mai, poi, tenere un basso profilo, e non rivendicare a gran voce, pubblicamente, la validità di alcune pratiche? Perché non rivendicare la sacrosanta giustezza di attaccare ed incendiare una banca o un edificio di un qualunque Ministero, spiegando i mille e uno motivi per cui bisognerebbe farlo, in tempi in cui perfino nelle banche – le istituzioni più odiate da tutti in assoluto – in molti non riescono più ad identificare un nemico? Perché non difendere la scelta di assaltare il mondo della merce o di attaccare gli sgherri preposti a difenderlo? Se si va nelle strade e nelle piazze ad attaccare il dominio, polverizzato nelle sue mille sfaccettature, bisognerebbe tornare nelle strade e nelle piazze a difendere alcune pratiche e modalità, rivendicarle patrimonio dei movimenti sovversivi di ogni tempo e luogo. Se faccio l’apologia dello scontro, non posso poi accettare di occultare una parte di me; devo rivendicare con coraggio le mie idee e le mie pratiche, per arrivare ad incontrar la gente, senza dovermi fingere innocente.
Non facendo tutto questo, mi sembra si faccia il gioco del Potere. Un Potere che vuole rinchiuderci sempre più in un angolo, impedendoci di agire, di riunirci, di parlare e, infine, anche di pensare. Liberarsi dei testi radicali, seppure momentaneamente, per me significa indietreggiare e dare una mano proprio a chi vorrebbe estirpare il mio senso critico, estendendo quel processo di lobotomizzazione sociale che è già in una fase piuttosto avanzata. Liberarsi dei libri di critica sociale vuol dire introiettare il pensiero repressivo del Potere, secondo cui basta trovare un certo genere di testi, nella case di alcuni compagni, per provare una associazione sovversiva.
Il passo successivo potrebbe essere l’arrivo, come in un celebre libro, di squadre di vigili del fuoco preposte all’incendio dei libri stessi. Ce ne staremo a guardare, o indirizzeremo quelle fiamme altrove?
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