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giovedì 8 settembre 2011

Viva il lavoro

DA FINIMONDO.ORG

Vico Covi

Per carità non sono io ad inneggiare al lavoro — mi piace tanto poco che più volentieri inneggerei all'ozio.
L'hanno sublimato in tutte le salse i moderni deboli, compresi — s'intende — i redentori di popoli che se ne son fatto grido di battaglia.
Se voi sentite un borghese, un prete, un radicale, un socialista e perfino — strano e ridicolo a dirlo — qualche anarchico dei sommi, v'intronano le orecchie colla tediosa nenia, ed in ogni loro comizio, in ogni loro discorso non tralasciano occasione per fare eco stupida al vecchio Jehova, che col biblico detto sentenziò contro il primo peccato e la prima eresia: «Tu, donna, partorirai con gran dolore; tu, uomo, lavorerai con gran sudore».
Ma lasciamo il barbuto abitatore delle nuvole alle sue faccende; io capisco benissimo che il lavoro è una necessità; ma è poi ragionato che proprio le necessità debbano essere esaltate? Alla malora tutti i poeti delle necessità, perdio!...
Pazienza se mi si venisse ad esaltare il lavoro intellettuale dei geni inventori; ma quando mi si viene con seria convinzione a dire e gridare: viva il lavoro; il lavoro nobilita; viva le industri mani incallite — quando sotto ai miei occhi mi si viene a presentare su tutte le riviste, i giornali, i giornalini ed i giornaloni, l'immancabile colosso illustrativo con in mano tanto di martello o di mazza, mi sento irrefrenabile e spontanea la voglia di gridare: via... via... scimuniti; il lavoro è una condanna, è un ergastolo, è l'opera paziente delle bestie da soma!
Ma eccovi sorgere un pandemonio: dalli all'ozioso, al vagabondo, al sofista; mi sento gridare alle calcagna da cento voci, da mille cori, da ogni canto la maledizione della folla che ebbe rotto tra le mani il nuovo dio che santificava.
Io però — credetelo — non m'adonto al vespaio: volete lavorare, sgobbare, sudare ed inneggiare al lavoro?... Padronissimi mille volte!... Io però sento un'onta alla mia dignità quando devo prostituirmi ad un padrone che — usando ed abusando della mia intelligenza, sfruttando la mia opera muscolare ed avvalendosi dell'arditezza del mio cervello — trova modo e maniera di vivere bene in ozio e godere la vita.
Né questo lavoro potrebbe sembrarmi meno schiavista ed un pochino più "nobilitato", anche se me lo si diminuisse d'orario o mi si aumentasse la tara pecuniaria alla mia consueta energia; nel primo caso non è altro che una pietistica concessione, nel secondo è una palese e vergognosa carità: caratteristiche entrambi delle strombazzate vittorie dello sciopero.
Non voglio, perciò, spostare la questione fino al punto di rimpicciolirla — voglio invece attenermi alla critica semplice del concetto di quei sentimentalisti che del lavoro se ne son formato un nuovo idolo, una nuova legge, una stupido dogma, una novella schiavitù avveniristica.
E per far ciò bisogna partire da una semplice premessa, e cioè: Da chi viene eseguito il lavoro?
Rispondiamo subito: In natura è eterno ed indistruttibile il fenomeno evolutivo che ha sempre creato e creerà due categorie di esseri: forti e deboli. I primi — forti fisicamente, economicamente, intellettualmente a seconda le epoche ed a seconda le specie — hanno sempre  palesata come affermazione della loro superiorità: la soggezione dei deboli ed il loro piegamento al lavoro.
Così come nelle api troviamo le regine ed i pecchioni che vivono oziando, e le industriali che danno il lavoro per la produzione del miele; come pure tra le formiche abbiamo le operaie addette a provvedere il formicaio di quanto abbisogna per la rigida stagione, mentre le parassite s'accontentano di dirigerne le operazioni o di guidarle; così lo stesso fenomeno riscontrasi nell'uomo che ha saputo soggezionare a suo vantaggio il lavoro manovale delle bestie, che sono razze inferiori al suo confronto; e così tra gli uomini stessi — che certo non fanno eccezione alcuna alle leggi naturali — troviamo i più forti intellettualmente che dominano e vivono esenti dal lavoro manovale, mentre i più deboli ed i più ignoranti stentano la vita e prestano l'opera dei muscoli.
Dalla storia s'apprende che tutta l'evoluzione umana non è che un succedersi di domini e di dominazioni: dominio bruto o cannibale quando la sola forza fisica decideva, dominio economico oggi che la sola forza monetaria comanda, dominio intellettuale domani quando l'uomo ingentilito e scarico da ogni forma di tirannia statale, economica e politica — saprà far prevalere la forza della sua intelligenza, della sua perspicacia, della sua abilità.
Il Progresso infatti si avrà — o meglio si calcola — dal minore sforzo muscolare impiegato per procacciarsi la vita, come dalla sostituzione sempre crescente dell'intelligenza al braccio: tram, automobili, macchine e tutta la interminabile sequela delle moderne invenzioni stanno a confermarlo.
Se i borghesi, dunque, i radicali, i socialisti e quanti amano la conservazione della odierna società inneggiano stupidamente al lavoro, lo trovo logico, logicissimo; logico perché la magnificazione si riverbera a totale loro beneficio e si converte in moneta sonante nelle loro casseforti; ma... ma perdio, inneggiando al lavoro quei che pretendono di possedere l'etichetta "non plus ultra" del sovversivismo, è una scempiaggine ed un controsenso, quando non sia un inganno, una menzogna o una canzone imparata pappagallescamente e recitata scimmiescamente.
Intanto una constatazione dell'asinità magna del popolo è quando in qualche sommossa lo si sente gridare a squarciagola: Pane e lavoro, vogliamo!
Pane?... va bene, non c'è male la pretesa, è sempre qualche cosa se non vogliamo considerare  che l'uomo non vive solo di pane come i cani che spesso lo rifiutano; ma volere anche il lavoro? e gridarlo a voce forte?... Dico io: perché non si è più logici, ed invece non si grida piuttosto Pane e schiavitù?... considerato che "lavoro" e "schiavitù" hanno solo differenza etimologica nel vocabolario, ma che non costituiscono in pratica alcuna differenza sostanziale? Non deve quindi meravigliare se, per esempio, v'imbattete a sentire dei discorsi come questi: È un brav'uomo, lavoratore...; quell'altro è un cattivo soggetto, vagabondo, ozioso...; ormai è l'opinione dei più, e l'opinione dei più si chiama maggioranza, la maggioranza che sempre costituisce la grande imbecillità umana.
Via... via, non intronatemi più le orecchie, per carità, col vostro: viva il lavoro, col vostro: pane e lavoro; che il diavolo vi si porti per sempre, emeriti barbagianni!...
E cosa ne dicono i gran papà dell'umana redenzione?
Ah!... già, voi avete ragione, scusatemi... non mi sovveniva! già, voi volete preparare alla futura umanità una beata arcadia ove tutti siano lavoratori. Che felice trovata! Che bella mostra faranno e l'uniformità e il verde delle vostre future — troppo future — comunistiche "blouse"!
Che potessi crepare prima di trovarmici; sarebbe una gioia, una fortuna!...
Accidenti!... se oggi devo lavorare per un padrone — che è già tanto esigente ed altrettanto piattola — dovrei domani sacrificare la mia individualità per mille padroni?
No, non si va proprio d'accordo; perché io voglio vivere oziando e facendo da vagabondo appunto perché sento di non essere proprio nato sotto la buona luna di dover sempre sgobbare.
E né mi piacerebbe portare la stigma rossa se, in un dato tempo, preferissi per esempio costruire una macchina per volare ed assentarmi dal fumo dell'officina o infischiarmene delle statistiche che avessero da marcare la scarsità di una data produzione.
Perché — devo confessarlo? — io non sono per nient'affatto altruista, sono egoista invece — e troverei modo di procacciarmi il godimento della vita contro tutti, magari insorgendo contro la proprietà dei comuni magazzini come oggi — senza scrupolo alcuno — insorgerei, per la soddisfazione dei miei bisogni, contro l'area della "santa" ed "inviolabile" proprietà privata.
Sarà differenza di gusti, di tendenze, di pensiero? Potrebbe pur darsi; ma io so però — e ciò dà torto a più d'uno — che contro la natura non si cammina: perciò tengo piuttosto a rendermi forte, a riuscire astuto, ad ingentilirmi in una parola e riscattarmi dalla schiavitù del lavoro da oggi fin che vivrò.
E ciò perché: voglio vivere, voglio godere: non voglio consumarmi, non intendo soffrire. Padronissimi dunque tutti i simboleggiatori dei bracci muscolosi, delle vanghe, degli aratri, delle mazze; padronissimi tutti i redentori a rovescio di spolmonarsi ed inneggiare alla soma ed al basto della schiavitù lavoratrice.
Io non inneggio, pratico con preferenza l'ozio.
Sono un vagabondo! 

[da Nihil, anno I, n. 6 del 1 maggio 1909]

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