DA FINIMONDO.ORG
Vico Covi
Per carità non sono io ad inneggiare al lavoro — mi piace tanto poco che più volentieri inneggerei all'ozio.
L'hanno sublimato in tutte le
salse i moderni deboli, compresi — s'intende — i redentori di popoli che
se ne son fatto grido di battaglia.
Se voi sentite un borghese, un
prete, un radicale, un socialista e perfino — strano e ridicolo a dirlo
— qualche anarchico dei sommi, v'intronano le orecchie colla tediosa
nenia, ed in ogni loro comizio, in ogni loro discorso non tralasciano
occasione per fare eco stupida al vecchio Jehova, che col biblico detto
sentenziò contro il primo peccato e la prima eresia: «Tu, donna,
partorirai con gran dolore; tu, uomo, lavorerai con gran sudore».
Ma lasciamo il barbuto
abitatore delle nuvole alle sue faccende; io capisco benissimo che il
lavoro è una necessità; ma è poi ragionato che proprio le necessità
debbano essere esaltate? Alla malora tutti i poeti delle necessità,
perdio!...
Pazienza se mi si venisse ad
esaltare il lavoro intellettuale dei geni inventori; ma quando mi si
viene con seria convinzione a dire e gridare: viva il lavoro; il lavoro nobilita; viva le industri mani incallite
— quando sotto ai miei occhi mi si viene a presentare su tutte le
riviste, i giornali, i giornalini ed i giornaloni, l'immancabile colosso
illustrativo con in mano tanto di martello o di mazza, mi sento
irrefrenabile e spontanea la voglia di gridare: via... via... scimuniti;
il lavoro è una condanna, è un ergastolo, è l'opera paziente delle
bestie da soma!
Ma eccovi sorgere un pandemonio: dalli all'ozioso, al vagabondo, al sofista;
mi sento gridare alle calcagna da cento voci, da mille cori, da ogni
canto la maledizione della folla che ebbe rotto tra le mani il nuovo dio
che santificava.
Io però — credetelo — non
m'adonto al vespaio: volete lavorare, sgobbare, sudare ed inneggiare al
lavoro?... Padronissimi mille volte!... Io però sento un'onta alla mia
dignità quando devo prostituirmi ad un padrone che — usando ed abusando
della mia intelligenza, sfruttando la mia opera muscolare ed avvalendosi
dell'arditezza del mio cervello — trova modo e maniera di vivere bene
in ozio e godere la vita.
Né questo lavoro potrebbe
sembrarmi meno schiavista ed un pochino più "nobilitato", anche se me lo
si diminuisse d'orario o mi si aumentasse la tara pecuniaria alla mia
consueta energia; nel primo caso non è altro che una pietistica
concessione, nel secondo è una palese e vergognosa carità:
caratteristiche entrambi delle strombazzate vittorie dello sciopero.
Non voglio, perciò, spostare
la questione fino al punto di rimpicciolirla — voglio invece attenermi
alla critica semplice del concetto di quei sentimentalisti che del
lavoro se ne son formato un nuovo idolo, una nuova legge, una stupido
dogma, una novella schiavitù avveniristica.
E per far ciò bisogna partire da una semplice premessa, e cioè: Da chi viene eseguito il lavoro?
Rispondiamo subito: In natura è
eterno ed indistruttibile il fenomeno evolutivo che ha sempre creato e
creerà due categorie di esseri: forti e deboli. I primi — forti
fisicamente, economicamente, intellettualmente a seconda le epoche ed a
seconda le specie — hanno sempre palesata come affermazione della loro
superiorità: la soggezione dei deboli ed il loro piegamento al lavoro.
Così come nelle api troviamo
le regine ed i pecchioni che vivono oziando, e le industriali che danno
il lavoro per la produzione del miele; come pure tra le formiche abbiamo
le operaie addette a provvedere il formicaio di quanto abbisogna per la
rigida stagione, mentre le parassite s'accontentano di dirigerne le
operazioni o di guidarle; così lo stesso fenomeno riscontrasi nell'uomo
che ha saputo soggezionare a suo vantaggio il lavoro manovale delle
bestie, che sono razze inferiori al suo confronto; e così tra gli uomini
stessi — che certo non fanno eccezione alcuna alle leggi naturali —
troviamo i più forti intellettualmente che dominano e vivono esenti dal
lavoro manovale, mentre i più deboli ed i più ignoranti stentano la vita
e prestano l'opera dei muscoli.
Dalla storia s'apprende che
tutta l'evoluzione umana non è che un succedersi di domini e di
dominazioni: dominio bruto o cannibale quando la sola forza fisica
decideva, dominio economico oggi che la sola forza monetaria comanda,
dominio intellettuale domani quando l'uomo ingentilito e scarico da ogni
forma di tirannia statale, economica e politica — saprà far prevalere
la forza della sua intelligenza, della sua perspicacia, della sua
abilità.
Il Progresso infatti si avrà —
o meglio si calcola — dal minore sforzo muscolare impiegato per
procacciarsi la vita, come dalla sostituzione sempre crescente
dell'intelligenza al braccio: tram, automobili, macchine e tutta la
interminabile sequela delle moderne invenzioni stanno a confermarlo.
Se i borghesi, dunque, i
radicali, i socialisti e quanti amano la conservazione della odierna
società inneggiano stupidamente al lavoro, lo trovo logico, logicissimo;
logico perché la magnificazione si riverbera a totale loro beneficio e
si converte in moneta sonante nelle loro casseforti; ma... ma perdio,
inneggiando al lavoro quei che pretendono di possedere l'etichetta "non
plus ultra" del sovversivismo, è una scempiaggine ed un controsenso,
quando non sia un inganno, una menzogna o una canzone imparata
pappagallescamente e recitata scimmiescamente.
Intanto una constatazione dell'asinità magna del popolo è quando in qualche sommossa lo si sente gridare a squarciagola: Pane e lavoro, vogliamo!
Pane?... va bene, non c'è male
la pretesa, è sempre qualche cosa se non vogliamo considerare che
l'uomo non vive solo di pane come i cani che spesso lo rifiutano; ma volere anche il lavoro?
e gridarlo a voce forte?... Dico io: perché non si è più logici, ed
invece non si grida piuttosto Pane e schiavitù?... considerato che
"lavoro" e "schiavitù" hanno solo differenza etimologica nel
vocabolario, ma che non costituiscono in pratica alcuna differenza
sostanziale? Non deve quindi meravigliare se, per esempio, v'imbattete a
sentire dei discorsi come questi: È un brav'uomo, lavoratore...;
quell'altro è un cattivo soggetto, vagabondo, ozioso...; ormai è
l'opinione dei più, e l'opinione dei più si chiama maggioranza, la
maggioranza che sempre costituisce la grande imbecillità umana.
Via... via, non intronatemi più le orecchie, per carità, col vostro: viva il lavoro, col vostro: pane e lavoro; che il diavolo vi si porti per sempre, emeriti barbagianni!...
E cosa ne dicono i gran papà dell'umana redenzione?
Ah!... già, voi avete ragione,
scusatemi... non mi sovveniva! già, voi volete preparare alla futura
umanità una beata arcadia ove tutti siano lavoratori. Che felice
trovata! Che bella mostra faranno e l'uniformità e il verde delle vostre
future — troppo future — comunistiche "blouse"!
Che potessi crepare prima di trovarmici; sarebbe una gioia, una fortuna!...
Accidenti!... se oggi devo
lavorare per un padrone — che è già tanto esigente ed altrettanto
piattola — dovrei domani sacrificare la mia individualità per mille
padroni?
No, non si va proprio
d'accordo; perché io voglio vivere oziando e facendo da vagabondo
appunto perché sento di non essere proprio nato sotto la buona luna di
dover sempre sgobbare.
E né mi piacerebbe portare la
stigma rossa se, in un dato tempo, preferissi per esempio costruire una
macchina per volare ed assentarmi dal fumo dell'officina o
infischiarmene delle statistiche che avessero da marcare la scarsità di
una data produzione.
Perché — devo confessarlo? —
io non sono per nient'affatto altruista, sono egoista invece — e
troverei modo di procacciarmi il godimento della vita contro tutti,
magari insorgendo contro la proprietà dei comuni magazzini come oggi —
senza scrupolo alcuno — insorgerei, per la soddisfazione dei miei
bisogni, contro l'area della "santa" ed "inviolabile" proprietà privata.
Sarà differenza di gusti, di
tendenze, di pensiero? Potrebbe pur darsi; ma io so però — e ciò dà
torto a più d'uno — che contro la natura non si cammina: perciò tengo
piuttosto a rendermi forte, a riuscire astuto, ad ingentilirmi in una
parola e riscattarmi dalla schiavitù del lavoro da oggi fin che vivrò.
E ciò perché: voglio vivere,
voglio godere: non voglio consumarmi, non intendo soffrire. Padronissimi
dunque tutti i simboleggiatori dei bracci muscolosi, delle vanghe,
degli aratri, delle mazze; padronissimi tutti i redentori a rovescio di
spolmonarsi ed inneggiare alla soma ed al basto della schiavitù
lavoratrice.
Io non inneggio, pratico con preferenza l'ozio.
Sono un vagabondo!
[da Nihil, anno I, n. 6 del 1 maggio 1909]
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