In primo piano da infoaut
I
fans sono accontentati: Napolitano vuole l’approvazione della manovra
bis del governo, e subito. Per tranquillizzare i mercati, of course.
Come per l’affaire libico, con il cavaliere e tutto il governo in
estrema difficoltà l’autorevole supplente entra in campo a supporto dei
veri mandanti: il comitato di consulenza Draghi&Monti celere a
recapitare a Roma i messaggi congegnati a Francoforte e Bruxelles. Il
tutto in vista di quel “governo tecnico” di emergenza nazionale -su cui
l’opposizione avrebbe ancor meno voce in capitolo- perorato dalla
finanza internazionale che ha già allungato le mani sulla nuova preda.
Quando si dice “credibilità” sui mercati...
Sciopero, malgrado tutto
Che
la situazione italiana stia precipitando lo segnala proprio lo sciopero
generale proclamato dalla Cgil. Ha sorpreso un po’ tutti, probabilmente
la sua stessa base, dopo la firma apposta sotto l’accordo infame del 28
giugno che ha blindato la rappresentanza sindacale contro ogni minima
spinta autonoma dal basso e contro la stessa Fiom. Ora Camusso prende
atto che con la manovra si passa alla cancellazione definitiva non solo
dell’articolo 18 sulla licenziabilità ma della valenza dei contratti
nazionali e di ogni rappresentanza formale che non sia alla Bonanni, per
dirla in breve: da servi e/o utili idioti. Certo, la gabbia se l’è
preparata la stessa Cgil, ma adesso brucia.
Uno sciopero malgré soi, dunque. Vi è costretta per la durezza delle misure contro i soliti noti senza che il governo abbia voluto o saputo offrire la minima contropartita, anche solo simbolica, in termini di “sacrifici equi”. E per la nullità, nessuna sorpresa qui, dell’opposizione del Pd che attaccando la proclamazione dello sciopero -basta vedere la lettera dei galoppini di Chiamparino e della lobby pro-Tav a Torino- ha mostrato ancora una volta di essere separato come da un abisso dal paese reale, dalla crescente indignazione e rabbia trasversali ai diversi settori sociali, di essere incapace della minima seria interlocuzione con essi, completamente prono ai diktat dei mercati finanziari e, se è possibile, più realista del re.
Uno sciopero malgré soi, dunque. Vi è costretta per la durezza delle misure contro i soliti noti senza che il governo abbia voluto o saputo offrire la minima contropartita, anche solo simbolica, in termini di “sacrifici equi”. E per la nullità, nessuna sorpresa qui, dell’opposizione del Pd che attaccando la proclamazione dello sciopero -basta vedere la lettera dei galoppini di Chiamparino e della lobby pro-Tav a Torino- ha mostrato ancora una volta di essere separato come da un abisso dal paese reale, dalla crescente indignazione e rabbia trasversali ai diversi settori sociali, di essere incapace della minima seria interlocuzione con essi, completamente prono ai diktat dei mercati finanziari e, se è possibile, più realista del re.
In questo quadro, e senza nessun facile entusiasmo, il sei settembre può essere un’occasione
-lo hanno inteso i sindacati alternativi pur con le solite tentazioni
minoritariste- per iniziare a vedere in piazza la rabbia, per provare a
creare situazioni oltre la mera testimonianza cui gli stanchi cortei
sindacali ci hanno (mal) abituato, per riprendere una discussione sul
dove siamo e dove vogliamo andare. Tenuto conto che se la Cgil
programmaticamente esclude un percorso di crescita reale della
mobilitazione il dato di fondo è che l’Italia è oramai entrata nei gironi più interni della crisi globale
e da lì non si torna indietro. (Qualcuno lo ricordi all’intelligentone
Tremonti, quello che le banche italiane sono sane ecc.). Ma se le cose
stanno così, le dinamiche sociali una volte innescate non potranno
accontentarsi del magro menù di questo sciopero. Anzi, se il disagio si
allargherà e radicalizzerà, il primo problema sarà proprio come proseguire la mobilitazione, che forme e contenuti darle per renderla efficace,
che respiro farle assumere oltre le barriere nazionali palesemente
insufficienti, insomma: come andare oltre l’indignazione verso un
programma di lotta e insieme di effettiva alternativa alla situazione
attuale.
Problema per niente banale.
Proviamo allora ad approssimare qualche ipotesi di lavoro
sul presupposto che non solo la crisi globale sta entrando in una nuova
fase ma anche che le dinamiche soggettive possono e debbono fare un
salto.
Un nuovo giro di crisi
In
estrema sintesi, gli sviluppi agostani della crisi -sotto gli occhi di
tutti a partire dai paurosi capitomboli della borse, principalmente
europee, e dagli attacchi “speculativi” a Italia e Spagna- possono forse
essere ricondotti a due fili principali.
Il primo è il peggioramento della congiuntura economica negli States che segna, questo il punto, il fallimento
della strategia della Federal Reserve e di Obama di contrasto della
crisi attraverso la creazione di moneta (ripianamento del debito con
nuovo debito). Questo peculiare keynesismo finanziario ha mancato
proprio l’obiettivo principale: rilanciare la domanda. Profitti se ne
fanno, ma come prima e più di prima si sono involati nei rally
di borsa mentre occupazione e redditi della popolazione non fanno che
calare e la ripresa tarda. Così i nodi dell’indebitamento scaricato sui
bilanci statali vengono al pettine. Di qui l’inasprimento dello scontro
politico e la definitiva eclisse interna dell’esperimento Obama!
Ora,
l’elemento decisivo della nuova situazione è che proprio l’incrudirsi
della crisi negli Stati Uniti è la causa diretta dell’addensarsi della
seconda e più distruttiva tempesta sull’Unione Europea e sui due pezzi
grossi della sua “periferia”. Nel senso che, stante la non risoluzione
dei problemi e i rischi effettivi di un double dip, la partita si è spostata ora decisamente sul come ripartire i costi della crisi
tra i vari attori internazionali: di qui lo scontro sulle valute
(l’euro sopravviverà?), e su chi (Ue?) deve bruciare propri capitali per
salvare quelli degli altri (Usa) ovvero mettere risparmi patrimoni e
produzioni a disposizione dei grandi fondi della finanza internazionale
(v. crollo azionario delle banche italiche così più facili da
ingurgitare). Uno scontro che si intreccia, va da sè, con quello su chi
deve essere il beneficiario di ultima istanza del prelievo sul lavoro da
inasprire senza precedenti (questione di mesi e ci beccheremo una bella
“patrimoniale” sui conti correnti, copyright Profumo). Insomma, la
torta non si allargherà per un bel po’, quindi si tratta di sottrarne
porzioni agli altri non più solo con i classici meccanismi della
competizione sui mercati e sul lavoro ma costringendo gli avversari
direttamente a distruggere capitale (sub forma di titoli che divengono
inesigibili). Nell’intreccio complessissimo di quella catena di debiti e
crediti che è oggi il Finanzcapitalismo reale, in alto come tra alto e basso non siamo tutti nella stessa barca!
Geopolitica dell’interventismo umanitario
Il secondo fattore è che la partita si è esplicitamente fatta anche geopolitica e militare.
Se qualcuno crede che la fine del “tiranno” Gheddafi sia una questione
di intervento umanitario pro civili e di appoggio disinteressato alla
causa dei valorosi freedom fighters, auguri. In realtà Washington, con
l’aiuto (idiota) francese e (intelligente) inglese, ha con abilità
riguadagnato spazi di manovra nell’area mediorientale detournando la
promettente primavera araba per bloccarne la radicalizzazione,
rovesciare a modo proprio i regimi non fidati (il prossimo: Siria o
direttamente Iran?), dare uno schiaffo a Cina e Russia, mettere in
difficoltà l’Europa (sotto questa luce, ridicolo o patetico il giro di
valzer della politica italiota che ne esce con un sonoro schiaffone e
interessi decurtati,vedi Eni). Senza con questo voler semplificare le
contraddittorie dinamiche in atto e dare per definitivamente bloccata la
sollevazione araba, è evidente che sul terreno militare ad oggi non c’è
partita contro gli States. E Obama ha saputo dimostrare che questo
terreno non è agibile solo coi metodi bushiani. E neppure va
sottovalutato il messaggio politico che un leader come Cameron ha
lanciato alla sua middle class tartassata dalla crisi: il rischio per la
piccola proprietà non sarebbe rappresentato dalla finanza ma da
“tiranni” mediorientali e giovani della nuova underclass.
Dittatura dei mercati
Al
nuovo passaggio della crisi ci si arriva comunque sia con le armi
spuntate. Salvata la grande finanza privata a costo di un incredibile
socializzazione delle perdite, ma fallita la formula, ora ci si trova
con una caterva di debiti “pubblici” da pagare pena lo spettro del default, cifra del nuovo emergenzialismo post guerra al terrorismo.
In
questo quadro lo pseudo-bipolarismo in salsa italica è ben attestato su
un terreno comune: i mercati, le borse indicano quanto va fatto senza
appello e senza indugi, altrimenti sarà “come in Grecia”. Ci si può
dividere, e sempre meno in termini sostanziali, su come imbellettare i
sacrifici ma questi vanno fatti. In questa semplice formula si riassume
tutta la sapienza della politica istituzionale.
Con
una sfumatura e attenzione sociale differente, le “forze sociali
responsabili” (di fronte a chi? innanzitutto agli stessi diktat
dell’economia) come la Cgil, consapevole di dover in qualche modo
catturare il disagio e seriamente preoccupati del declino
socio-economico italico, propongono “sacrifici equi per tutti”. Il
debito pubblico è di “tutti”e va pagato ma non esclusivamente dai soliti
noti e non senza misure per la “crescita”. Anche qui, there is no alternative ma almeno...
Ora,
anche senza voler mettere in campo -ma è possibile a questo punto?- il
fatto che in fallimento è un intero meccanismo di crescita basato sulla
finanziarizzazione e non si vede perchè le ricette che hanno portato alla crisi
dovrebbero anche risolverla, è possibile avanzare due riflessioni. Ai
cosiddetti mercati più dai e più ingoiano ed esigono senza che per
questo ci sia ripresa dell’occupazione e delle condizioni sociali: non è
cattiveria o avidità, è un dato strutturale oramai con numerose
evidenze intorno a noi. Quindi, cedere significa imbucarsi in un tunnel
senza luce possibile al fondo, e anzi farlo da posizioni di sempre
maggiore debolezza.
Inoltre, e non è secondario, accettare sacrifici con questa
ineffabile classe politica e dirigente, centrodestra o centrosinistra
che sia, banchieri o confindustriali, Montezemolo o Profumo, e con
questo sistema istituzionale e di rappresentanza sempre più separato e
blindatoo, vale negarsi a priori, verrebbe da dire, ogni via d’uscita.
Debito di chi e per cosa? Spunti di soggettività altra
Non
si tratta di introdurre temi ideologici esterni al sentire comune della
gente, ancorchè confuso. Non è che non si vedono il disastro sociale in
Grecia, e le lotte che lì non si sono placate, o gli spunti degli
indignados spagnoli, o ancora il fallimento delle ricette obamiane e la
mancanza di prospettive delle élites europee. Da noi poi abbiamo avuto i
referendum contro la privatizzazione dei beni comuni, oggi rimessi
violentemente in discussione dalle manovre di agosto, ed è in pieno
corso la lotta NoTav.
Il nodo comune che sempre più emerge ed emergerà dalle disparate reazioni della gente comune è quello degli immani costi
umani sociali e ambientali dell’economia del debito. La
finanziarizzazione della vita, nelle sue molteplici forme, divora
letteralmente il presente e ancor più il futuro: che fine faranno le
pensioni? E l’istruzione? E la sanità? La precarietà è un destino
inappellabile? E tutto questo per cosa, per quale tipo di sviluppo e di
società?
Dietro tutto ciò la questione di fondo: a chi vanno i proventi del debito?
Ad una cupola ultraconcentrata di fondi finanziari internazionali (in
stragrande maggioranza anglosassoni ma con appendici e uomini
dappertutto) il cui potere non solo non è stato per nulla intaccato
dalla crisi ma oggi passano all’incasso elle risorse pubbliche che li
hanno salvati. Quale il dispositivo fondamentale? Il pagamento degli interessi
che insieme all’oscillazione alternata della curva dei tassi -ora bassi
per favorire l’indebitamento dei soggetti più disparati, poi alti per
strangolare e costringere all’emissione di sempre nuovi titoli debitori-
non fa che alimentare la malattia. Con ciò il capitale si autonomizza
dal lavoro. Ma la sua è un’autonomia illusoria e precaria: perchè è
comunque alla produzione sociale che sottrae la linfa. Ed è per questo
che la crisi attuale solleva questioni “di sistema”: continuare a pagare
il debito non può che riprodurre in maniera allargata le radici stesse
della crisi e prolungare, anzichè fermare, il nostro dissanguamento.
Senza pagamento del debito il meccanismo si arresterebbe, ma ad
arrestarsi sarebbe il meccanismo di una riproduzione capitalistica
sempre più distruttiva, niente affatto quello della riproduzione sociale
della vita, anche se ci vogliono convincere del contrario.
È
allora “solo” questione di tempo e le reazioni agli effetti ultimi
della crisi si troveranno costrette, non dalle idee di pochi “coscienti”
ma dall’esperienza di molti, moltissimi, ad affrontare il problema di
come organizzare diversamente la vita e il lavoro con un sistema “alternativo”
di riproduzione sociale. Ciò non significa, attenzione, che già oggi le
popolazioni siano disposte a rifiutare in generale il fardello del
debito anche a rischio di default (il caso greco, nonostante alcuni
promettenti segnali, lo dimostra mentre quello islandese è troppo
peculiare). Non è così almeno per due ragioni di fondo. Innanzitutto, la
finanziarizzazione è entrata profondamente nella vita dei soggetti, non
è una mera escrescenza esogena ma l’“illusione reale” di accedere al
reddito tramite l’esposizione sui mercati della potenza del proprio
corpo-mente e delle proprie relazioni, una potenza sociale percepita
però come capitale individuale. Non si salta senza scossoni e lotte
oltre questo passaggio, forte è ad oggi il timore di rimettere in
discussione con la crisi del sistema bancario e di borsa la propria
stessa esistenza così come con il fallimento dell’impresa di veder
cancellato il reddito legato al lavoro. In secondo luogo, non ci si
stacca da meccanismi così potenti senza intravedere un barlume di
alternativa “di sistema”, senza la capacità autonoma di ricostruire i
legami sociali che colmino la voragine apertasi.
È però vero anche l’inverso. Da un lato vediamo attestarsi la gran massa delle popolazioni sulla linea dei sacrifici purchè
distribuiti equamente fra tutti; dall’altro inizia a farsi strada
l’idea che la soluzione non stia nel “non pagare solo noi” ma nel “non
pagare” affatto per i costi della crisi. Su questo scarto
si giocherà probabilmente la dinamica sociale e politica a venire.
Esemplare al riguardo è la dinamica della lotta No Tav nella sua
capacità di agganciare il nodo del debito pubblico -chi paga l’alta
velocità e a chi/quale modello serve nella crisi?- che ha saputo
anticipare nel panorama italiano e però, al tempo stesso, nel suo
attestarsi ad oggi su un’indicazione per un suo abbattimento “virtuoso”
ancorché legato a una lotta per un diverso modello di sviluppo e di
politica.
In
questo processo non privo di ambivalenze, e a condizione che
proliferino e si ricompongano “vertenze” sui nodi della riproduzione
sociale, sarà possibile far crescere l’obiettivo generale del rifiuto in
quanto tale del pagamento del debito, e non solo come rivendicazione
difensiva ma come processo costituente di riappropriazione della
ricchezza sociale. (In una cornice almeno continentale: ma l’attuale
discussione su eurobond ed Europa, a sinistra ancora piuttosto imprecisa
e “scivolosa”, non è qui possibile affrontarla).
Tasse o reddito di esistenza?!
Nulla
di tutto questo, ovviamente, nel programma ufficiale del sei settembre.
Al contrario, risuona per l’ennesima volta la oramai incredibile
storiella della “lotta all’evasione fiscale” come misura risolutiva
delle difficoltà. A parte il fatto che messa così è poi difficile
prendere le distanze dalle declamazioni ipocrite di Tremonti e
Calderoli(!), sono i presupposti stessi a essere irrealistici e
deleteri. Irrealistici perchè la grande evasione sta molto in alto, è un
meccanismo strutturale che non verrà toccato in maniera incisiva da
nessun governo di qualsivoglia colore (v. anche Obama) stante la
necessità improrogabile di non disincentivare la “propensione a
investire” (in quali settori, è un altro discorso). Deleteri perchè
questo approccio -oltre a dimenticare che il lavoro tassato è sfruttato
due volte- mina alla radice la possibilità di ogni politica di
“alleanze” con la massa crescente di lavoro salariato di fatto ma
formalmente non dipendente, con il lavoro autonomo di seconda ma anche
di prima generazione (ovviamente non parliamo di ricchi professionisti,
faccendieri, consulenti ammanicati con la politica, palazzinari ecc.)
che si muove spesso al limite della sopravvivenza, tra fidi bancari e
assenza di ammortizzatori sociali, tra rancore individuale e però anche
disillusione verso berlusconismo e leghismo. Ecco un ampio settore da
sottrarre alla destra che invece la politica sindacale, in questo del
tutto consonante con l’opposizione di centrosinistra, si prepara
nuovamente a regalare a una destra postberlusconiana ancora più
incarognita. Frutti velenosi del mix di statalismo e moralismo quando
invece a pagare dovrebbero essere non gli “evasori” genericamente intesi
ma i “ricchi”, le grandi imprese, le banche, proprio quei soggetti a
favore dei quali (v. Marchionne) lo Stato storna ricchezze.
E
senza contare che il discorso anti-evasione presuppone comunque e
sempre un prelievo sul lavoro, sfruttato così due volte, e che pure
ammesso che si tolga ai ricchi lo si farebbe per dare ai ricchissimi
di Wall Street. Per intanto a pagare da subito e salato sarà il lavoro
salariato (v. l’aumento di tasse dirette e indirette della manovra
governativa) in vista di recuperi futuribili che puntualmente non si
sono mai dati e non si daranno. Su questo terreno come su quello del
precariato il discorso sindacale canonico veleggia tra la nostalgia per
il “buon tempo che fu” (il lavoro sfruttato ma “garantito” e
“rappresentato”) e l’insipienza di fronte alle forme di sfruttamento
“postmoderne” che si distendono sull’intero spettro della vita. Col
risultato che governo e padroni possono agitare la bandierina della
“riforma del welfare” per rompere del tutto un patto generazionale
tenuto oramai su solo dal perverso welfare familistico italico. E se
invece di tasse parlassimo finalmente di reddito di esistenza? (Non è un
caso che la Fiom sia costretta a orecchiare il tema pur restando ancora
legata al vecchio schema).
Disarticolazione in atto del sistema politico
Il
quadro politico italiano rende particolarmente evidente una verità
generale: la crisi destabilizza l’usuale gestione dei poteri, rimette in
discussione gli equilibri fra i vari livelli istituzionali e
territoriali, soprattutto disarticola i tanto declamati partiti
personali e mediatici mettendone a nudo le fragilità di fondo stante
l’incapacità strutturale di praticare mediazione sociale effettiva,
sostituita nella fase della finanziarizzazione ascendente dai quei
flussi clientelari di denaro definiti governance che oggi rischiano
appunto di prosciugarsi o comunque di perdere quella capacità di
composizione/scomposizione di un corpo sociale disperso in una miriade
di soggetti frammentati che fin qui hanno avuto.
Tutto
questo si dà in superficie nelle vesti di una “casta” politica arrivata
alla frutta, senza idee e proposte, abbarbicata sui privilegi che
declama ora di voler tagliare ma di cui non può fare a meno perchè sono i
vettori della governance a tutti i livelli. A quello nazionale, dove lo
Stato si è trasformato definitivamente in una funzione della sovranità
dei mercati finanziari e delle banche centrali sovranazionali; ai
livelli territoriali medio-grandi dove, in salsa leghista o
berlusconiana, mastelliana o pidiessina, l’intreccio tra enti locali,
imprese finanziarizzate, business dei derivati e “grandi opere” è
oramai strutturale e va ben oltre i singoli casi di “corruzione” (v.
Pisapia e l’expo milanese, il Pd torinese e l’alta velocità: non c’è
bisogno di un Penati...). Non è un caso che la critica alle misure del
governo da parte dei Comuni medi e metropolitani di ogni colore, per non
parlare delle ragioni guidate da Formigoni, si appunta -dietro la
generica denuncia dei “tagli”- sul venir meno proprio delle possibilità
di “investimento” e di privatizzazione dei servizi pubblici secondo le
esigenze della partnership pubblico-privato di questa neoborghesia
territoriale (vedere a riprova cosa è diventata in pochissimo tempo la
Lega: il Pci ci aveva messo qualche anno in più).
La disarticolazione
del sistema politico-partitico, che è l’altra faccia della crisi della
rappresentanza democratica, è un fatto. Il problema, in basso a
sinistra, è come agirla
dentro la crisi. Ci piacerebbero tante piazze Tahrir a scala
continentale, ma nella mora è importante rimettere al centro una
discussione sul come si prepara, o non si prepara, un percorso in
direzione di una trasformazione radicale. Non lo si prepara liquidando
tutto ciò che non si muove nei binari della vecchia politica e del
politically correct di sinistra come “antipolitica”, “populismo”, ecc.:
sia perchè si dimostra così di non capire le ragioni profonde delle
nuove forme di mobilitazione, anche nei contenuti ambigui e
contraddittori, sia perchè si finisce col rimanere al di qua del sentire
sempre più diffuso “sono tutti uguali” invece di contribuire a posizionarsi al di là
di esso e con la sua carica di rabbia. Non lo si prepara se non si
tiene conto che la trasformazione dei partiti (tutti) è irreversibile,
non solo per il loro farsi “impresa liquida”, ma perchè non possono più
rispondere in nessun caso alla valorizzazione del protagonismo
degli individui e delle relazioni umane che, seppur in maniera
ambivalente, è radicata strutturalmente nella nuova composizione
sociale. Non
lo si prepara senza fare i conti fino in fondo col fatto che se ciò che
è “politico” deve riacquisire significato per la vita deve essere
interno al sociale, il suo farsi “di parte” antagonistico in cerca di soluzioni comuni:
non a caso è (anche, a volte) quel che resta di un movimento sindacale
non degenerato a raccogliere o “rappresentare” in certi momenti le
istanze di cambiamento più generali in quanto più vicino ai nessi della
riproduzione sociale e del lavoro, dove si crea e organizza la ricchezza
sociale.
Se
è così, una dinamica di mobilitazione radicale non può non tendere a
scardinare i partiti istituzionali, a mostrare il vuoto in cui sono
finiti, tutti, quel vuoto dal quale emerge la cupola dei veri decisori
internazionali. Tempi e modi, come ovvio, non si decidono a tavolino.
Per ora abbiamo due esempi concreti: il movimento NoTav e gli indignados
spagnoli che, in contesti assai diversi, con flessibilità e
intelligenza, si sono posizionati in piena autonomia da entrambi i poli partitici, pur senza farne un calderone indistinto, e hanno approssimato il livello
anche europeo delle rispettive battaglie. Se questo ha una valenza più
generale, ci dice che in Italia è indispensabile passare per una messa
crisi decisiva del “principale partito di opposizione”, già di suo
risucchiato dal grande centro in formazione e dal partito di Repubblica.
Può essere che questo processo si incroci con qualche tentativo di
“recupero” dal basso di questo partito a istanze un tantino meno
forcaiole, ma nel caso ciò sarà possibile (comunque solo molto
parzialmente) come sottoprodotto di dinamiche ampie di lotta, controllo
dal basso e formazione di contropoteri, e non per qualche narrazione che il Pd punta semplicemente a salvarlo con qualche ritocco.
La
primavera italiana, appena abbozzata, è già passata nell’estate calda
valsusina. Se la brezza diventasse tempesta, la nostra non quella dei
mercati...
Redazione InfoAut
5 settembre ‘11
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