da anarchaos
Abbiamo diviso, per comodità, questo lungo articolo in tre parti. In questa seconda parte (capitoli da V a VII) viene trattata la totale subalternità della “sinistra” al progetto cibernetico, il suo costituirsi in opposizione di sua maestà nel suo spingersi (anche con modalità “ribellistiche”) verso la richiesta di efficienza e democrazia “cittadinista”, zelante avanguardia della cibernetica futura.V
“L’ecosocietà è decentralizzata, comunitaria, partecipativa. La responsabilità e l’iniziativa individuale esistono veramente. L’ecosocietà si basa sul pluralismo delle idee, degli stili e delle condotte di vita. Conseguenza: uguaglianza e giustizia sociale sono in progresso. Ma anche, capovolgimento delle abitudini, dei modi di pensare e dei costumi. Gli uomini hanno inventato una vita differente in una società in equilibrio. Si sono accorti che il mantenimento d’uno stato d’equilibrio era più delicato del mantenimento d’uno stato di crescita continua. Grazie a una nuova visione, a una nuova logica della complementarietà, a dei nuovi valori, gli uomini dell’ecosocietà hanno inventato una dottrina economica, una scienza politica, una sociologia, una tecnologia e una psicologia dello stato d’equilibrio controllato.”
Joël de Rosnay, Le Macroscope, 1975
“Capitalismo e socialismo rappresentano due organizzazioni dell’economia derivate dal medesimo sistema di base, quello della quantificazione e del valore aggiunto. […] Considerato sotto questa angolazione, il sistema chiamato ‘socialismo’ non è che il sotto-sistema correttore applicato al ‘capitalismo’. Possiamo così dire che il capitalismo più esasperato è socialista sotto alcuni dei suoi aspetti, e che tutto il socialismo è una ‘mutazione’ del capitalismo destinata a tentare di stabilizzare il sistema attraverso una redistribuzione – redistribuzione stimata necessaria per assicurare la sopravvivenza di tutti e incitarli a un più largo consumo. In questo accenno noi chiameremo ‘capitalismo sociale’ una organizzazione dell’economia concepita allo scopo di stabilire un equilibrio accettabile tra capitalismo e socialismo.”
Yona Friedman, Utopies réalisables, 1974
Gli eventi del Maggio ’68 hanno provocato nell’insieme delle società occidentali una reazione politica di cui oggi SI fatica a ricordarne l’ampiezza. Molto presto la ristrutturazione del capitalismo s’organizzò, come un esercito in marcia. Si vide, insieme al Club di Roma, alcune multinazionali come la Fiat, la Volkswagen e la Ford, pagare economisti, sociologi ed ecologisti perché determinassero le produzioni alle quali dovevano rinunciare le imprese per un miglior funzionamento e un rafforzamento del sistema capitalista. Nel 1972, il rapporto del Massachussets Institute of Technology finanziato dal suddetto Club di Roma, Rapporto sui limiti dello sviluppo, fece grande scalpore perché raccomandava di fermare il processo d’accumulazione capitalista, comprendendovi i paesi detti in via di sviluppo. Dalla cima della dominazione SI rivendicava la “crescita zero” al fine di preservare i rapporti sociali e le risorse del pianeta, venivano introdotte alcune componenti qualitative nell’analisi dello sviluppo contro le proiezioni quantitative centrate sulla crescita, SI esigeva in definitiva che questa fosse interamente ridefinita, e questa pressione fu ancora accentuata quando scoppiò la crisi del 1973. Il capitalismo sembrava fare la propria autocritica. Ma se ho di nuovo parlato di guerra e di esercito è perché il rapporto del MIT, redatto dall’economista Dennis H. Meadows, si ispirava ai lavori d’un certo Jay Forrester che era stato incaricato nel ’52 dall’US Air Force di mettere a punto un sistema di allerta e di difesa – il sistema SAGE – che per la prima volta coordinava radar e computer con lo scopo di rivelare e impedire un possibile attacco al territorio americano con missili nemici. Forrester aveva montato alcune infrastrutture di comunicazione e di controllo tra uomini e macchine in cui questi erano interconnessi per la prima volta in “tempo reale”. Era poi stato nominato nella scuola di management del MIT per estendere le sue competenze in materia d’analisi sistemica al mondo economico. Egli applicò gli stessi principi d’ordine e di difesa alle imprese, poi sarebbe venuto il turno delle città e infine dell’insieme del pianeta nella sua opera Word Dynamics che ispirò i relatori del MIT. Così la “seconda cibernetica” fu un fattore chiave per fissare i principi di ristrutturazione del capitalismo. Con essa, l’economia politica diventava una scienza del vivente. Essa analizzava il mondo come sistema aperto di trasformazione e di circolazione di flussi d’energia e di flussi monetari.
In Francia, un insieme di pseudo-sapienti – l’illuminato de Rosnay e il viscido Morin ma anche il mistico Henri Atlan, Henri Laborit, René Passet e l’arrivista Attali – si riuniscono per elaborare, al seguito del MIT, Dieci comandamenti per una nuova economia, un “eco-socialismo” dicono, seguendo un approccio sistematico, vale a dire cibernetico, ossessionato dallo “stato d’equilibrio” di tutto e di tutti. Non è inutile a posteriori, quando SI ascolta la “sinistra” d’oggi e anche la “sinistra della sinistra”, ricordare alcuni dei principi presentati da de Rosnay nel 1975:
1) Conservare la varietà degli spazi come delle culture, la biodiversità come la multiculturalità.
2) Vigilare per non aprire, non lasciare sfuggire l’informazione contenuta nei circuiti di regolazione.
3) Ristabilire gli equilibri dell’insieme del sistema tramite decentramento.
4) Differenziare per meglio integrare, poiché in conformità a quanto presentito da Teilhard de Chardin, l’illuminato in capo di tutti i cibernetici, “ogni reale integrazione si basa su una preliminare differenziazione. […] L’omogeneo, la mescolanza, il sincretismo, tutto ciò è l’entropia. Solo l’unione nella diversità è creatrice. Essa accresce la complessità, conduce a livelli più elevati d’organizzazione”.
5) Per evolvere: lasciarsi aggredire.
6) Preferire gli obiettivi, i progetti alla programmazione dettagliata.
7) Sapere utilizzare l’informazione.
8) Saper mantenere alcune costrizioni sugli elementi del sistema.
Non si tratta più, come SI poteva fingere di credere ancora nel 1972, di mettere in causa il capitalismo e i suoi effetti devastatori, ma piuttosto di “riorientare l’economia per poter meglio servire, alla volta, i bisogni umani, il mantenimento e l’evoluzione del sistema sociale e il perseguimento d’una vera cooperazione con la natura. L’economia d’equilibrio che caratterizza l’ecosocietà è dunque un’economia ‘regolata’, nel senso cibernetico del termine”. I primi ideologi del capitalismo cibernetico parlano di aprire a una gestione comunitaria del capitalismo dal basso, a una responsabilizzazione di ognuno grazie all’“intelligenza collettiva” che risulterà dai progressi delle telecomunicazioni e dell’informatica. Senza rimettere in causa né la proprietà privata, né la proprietà di Stato, SI invita a una co-gestione, a un controllo delle imprese da parte di comunità di salariati e di utenti. L’euforia riformatrice cibernetica è tale, in questi inizi degli anni ’70, che SI invoca senza più rabbrividire, come se non si fosse trattato che di questo dopo il XIX secolo, l’idea d’un “capitalismo sociale”, così come lo difese ad esempio l’architetto ecologista e grafomane Yona Friedman. Si è così cristallizzato ciò che SI è finito per chiamare “socialismo della terza via”, e la sua alleanza con l’ecologia, di cui oggi SI conosce l’influenza politica in Europa. Se fosse necessario mettere in rilievo un evento che in quegli anni in Francia ha reso manifesta la progressione tortuosa verso questa nuova alleanza tra socialismo e liberalismo, non senza la speranza che ne sarebbe venuto fuori qualcosa di differente, questo sarebbe senza dubbio il caso LIP. Con questo è tutto il socialismo, fino nelle sue correnti più radicali come il “comunismo dei consigli”, che si arèna nel provocare il crollo del dispositivo liberale, e che, senza subire una disfatta in senso stretto, finisce semplicemente assorbito dal capitalismo cibernetico. La recente adesione alla corrente liberal-libertaria da parte dell’ecologista Cohn-Bendit, il leader gentile del Maggio ’68, non è che una conseguenza logica del rivolgimento più profondo delle idee “socialiste” su sé stesse.
L’attuale movimento “anti-globalizzazione” e la contestazione cittadinista in generale non presentano nessuna rottura all’interno di questa formazione di enunciati elaborata trent’anni fa. Essi reclamano semplicemente l’accelerazione della sua messa in opera. Dietro i controvertici tonitruanti appare una stessa visione fredda della società come totalità minacciata da frammentazioni, uno stesso obiettivo di regolazione sociale. Si tratta di restaurare la coesione sociale polverizzata dalla dinamica del capitalismo cibernetico e di garantire in ultima istanza la partecipazione di tutti a quest’ultima. E così non è sorprendente vedere il più arido economicismo impregnare in maniera così tenace e così nauseabonda i ranghi dei cittadini. Il cittadino, spossessato di tutto, si rappresenta come esperto amatore della gestione sociale e concepisce il nulla della sua vita come ininterrotta successione di “progetti” da realizzare: come sottolinea con finta ingenuità il sociologo Luc Boltanski, “tutto può accedere alla dignità del progetto, incluso le imprese ostili al capitalismo”. Così come il dispositivo “autogestione” era stato seminale nella riorganizzazione del capitalismo da trent’anni ad ora, allo stesso modo la contestazione cittadinista non è altro che l’attuale strumento della modernizzazione della politica. Questo nuovo “processo di civilizzazione” poggia sulla critica dell’autorità sviluppata negli anni ’70, nel momento in cui la seconda cibernetica si cristallizzava. La critica della rappresentazione politica come potere separato, già recuperata dal nuovo management nella sfera di produzione economica, oggi viene reinvestita nella sfera politica. Ovunque c’è solo orizzontalità dei rapporti e partecipazione a progetti che devono sostituire la polverosa autorità gerarchica e burocratica, contropoteri e decentralizzazioni che sono ritenuti in grado di disfare i monopoli e il segreto. Così si estendono e si rinserrano senza ostacoli le catene dell’interdipendenza sociale, qui costituite dalla sorveglianza, altrove dalla delega. Integrazione della società civile da parte dello Stato e integrazione dello Stato da parte della società civile formano sempre più uno stesso ingranaggio. Così si organizza la divisione del lavoro gestionale delle popolazioni necessaria alla dinamica del capitalismo cibernetico. L’affermazione d’una “cittadinanza globale” dovrà prevedibilmente completarla.
A partire dagli anni ’70 il socialismo non è altro più che un democratismo, ormai assolutamente necessario alla progressione dell’ipotesi cibernetica. L’ideale di democrazia diretta, di democrazia partecipativa, va compreso come desiderio d’una espropriazione generale da parte del sistema cibernetico di tutta l’informazione contenuta nelle sue parti. La richiesta di trasparenza, di tracciabilità, è una domanda di circolazione perfetta dell’informazione, un progressismo nella logica di flusso che regge il sistema cibernetico. E’ tra il 1965 e il 1970 che un giovane filosofo tedesco, presunto erede della “teoria critica”, fondava il paradigma democratico della contestazione attuale entrando rumorosamente in numerose controversie con i suoi predecessori. Al socio-cibernetico Niklas Luhman, teorico iperfunzionalista dei sistemi, Habermas opponeva l’imprevedibilità del dialogo, delle argomentazioni, irriducibili a semplici scambi d’informazioni. Ma è soprattutto contro Marcuse che fu elaborato questo progetto di una “etica della discussione” generalizzata che doveva radicalizzare, criticandolo, il progetto democratico illuminista. A Marcuse che spiega, commentando le osservazioni di Max Weber, che “razionalizzazione”vuol dire che la ragione tecnica, all’inizio dell’industrializzazione e del capitalismo, è indissolubilmente una ragione politica, Habermas ribatte che un insieme di rapporti intersoggettivi immediati sfuggono ai rapporti soggetto-oggetto mediati dalla tecnica, e che in definitiva li inquadrano e li orientano. Altrimenti detto, di fronte allo sviluppo dell’ipotesi cibernetica, la politica dovrebbe mirare a autonomizzare ed estendere questa sfera dei discorsi, a moltiplicare le arene democratiche, a costruire e ricercare un consenso che, insomma, sarebbe emancipatore per natura. Oltre a ridurre il “mondo vissuto”, la “vita quotidiana”, l’insieme di ciò che fugge dalla macchina del controllo, a delle interazioni sociali, a dei discorsi, Habermas ignora ancor più profondamente l’eterogeneità fondamentale delle forme-di-vita tra di loro. Allo stesso titolo del contratto, il consenso è collegato all’obiettivo di unificazione e pacificazione attraverso la gestione delle differenze. Nel quadro cibernetico, ogni fede nell’“agire comunicazionale”, ogni comunicazione che non assume la possibilità della sua impossibilità, finisce con il servire il controllo. E’ per questo che la tecnica e la scienza non sono semplicemente come pensa l’idealista Habermas, delle ideologie che verrebbero a ricoprire il tessuto concreto delle relazioni intersoggettive. Si tratta di “ideologie materializzate”, di dispositivi in serie, di una governamentalità concreta che attraversa queste relazioni. Noi non vogliamo più trasparenza o più democrazia. Ce n’è già abbastanza. Al contrario, vogliamo più opacità e più intensità.
Ma io non avrei concluso con il socialismo così come è stato superato dall’ipotesi cibernetica, prima di avere evocato un’altra voce; voglio parlare della critica centrata sui rapporti uomini-macchine che, dagli anni ’70, si collega al nodo supposto del problema cibernetico ponendo la questione della tecnica oltre la tecnofobia – quella di un Theodore Kaczynski o dello scimmione acculturato dell’Oregon, John Zerzan – e la tecnofilìa e che pretende fondare una nuova ecologia radicale che non sia scioccamente romantica. A partire dalla crisi economica degli anni ’70, Ivan Illich è tra i primi a esprimere la speranza d’una rifondazione delle pratiche sociali non più solamente attraverso un nuovo rapporto tra soggetti, come in Habermas, ma anche tra soggetti e oggetti attraverso una “riappropriazione degli attrezzi” e delle istituzioni di cui bisognerebbe prendere possesso tramite una “convivialità” generale, convivialità che sarebbe in grado di soppiantare la legge del valore. Il filosofo delle tecniche Simondon fa ugualmente di questa riappropriazione la leva per il superamento di Marx e del marxismo: “Il lavoro possiede l’intelligenza degli elementi, il capitale possiede l’intelligenza degli insiemi; ma non è riunendo l’intelligenza degli elementi e l’intelligenza degli insiemi che si può fare l’intelligenza dell’essere intermediario e non misto che è l’individuo tecnico. […] Il dialogo del capitale e del lavoro è falso perché è nel passato. La collettivizzazione dei mezzi di produzione non può operare da sé una riduzione dell’alienazione; può farlo solo se questa è la condizione preliminare dell’acquisizione dell’intelligenza dell’oggetto tecnico individuato da parte dell’individuo umano. Questa relazione dell’individuo umano con l’individuo tecnico è la più delicata da formare.” La soluzione al problema dell’economia politica, dell’alienazione, capitalista come della cibernetica risiederebbe nell’invenzione d’una nuova relazione con le macchine, d’una “cultura tecnica” che fino ad ora sarebbe mancata alla modernità occidentale. E’ una simile dottrina che da trent’anni giustifica lo sviluppo massiccio dell’insegnamento “cittadino” delle scienze e delle tecniche. Essendo il vivente essenzialmente differente dalle macchine, al contrario di quanto suppone l’ipotesi cibernetica, l’uomo avrebbe una responsabilità di rappresentazione degli oggetti tecnici: “L’uomo come testimone delle macchine, scrive Simondon, è responsabile della loro relazione; la macchina individuale rappresenta l’uomo, ma l’uomo rappresenta l’insieme delle macchine, poiché non c’è una macchina di tutte le macchine, mentre può esserci un pensiero che s’indirizza a tutte le macchine”. Nella sua attuale forma utopica, come in Guattari alla fine della sua vita oppure oggi in un Bruno Latour, questa scuola avrà la pretesa di “far parlare” gli oggetti, rappresentare le loro norme nell’arena pubblica attraverso un “parlamento delle cose”. Al limite, i tecnocrati dovrebbero fare posto a dei “meccanologi” e ad altri “mediologi”, dei quali non si vede in che cosa si distinguano dagli attuali tecnocrati se non per il fatto di essere più avvezzi alla vita tecnica, di essere dei cittadini idealmente in sintonia con i loro dispositivi. Ciò che fingono d’ignorare i nostri utopisti è che l’integrazione della ragione tecnica da parte di tutti non intaccherebbe in nulla i rapporti di forza esistenti. Il riconoscimento dell’ibridazione uomini-macchine dei concatenamenti sociali, certamente non farebbe che estendere la lotta per il riconoscimento e la tirannia della trasparenza al mondo inanimato. In questa rinnovata ecologia politica, socialismo e cibernetica raggiungono il loro ottimale punto di convergenza: il progetto d’una Repubblica verde, d’una democrazia tecnica -“un rinnovamento della democrazia potrebbe avere per obiettivo una gestione pluralista dell’insieme delle sue componenti macchiniche”, scrive Guattari nel suo ultimo testo pubblicato-, la visione mortale d’una pace civile definitiva tra umani e non-umani.
VI
“Come era accaduto nell’epoca della modernizzazione, anche al giorno d’oggi la postmodernizzazione e l’informatizzazione esprimono un nuovo divenire umani. Dove, come direbbe Musil, è in gioco la produzione spirituale, le tradizionali tecniche industriali vengono rimpiazzate dall’intelligenza artificiale, che anima le tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Dobbiamo allora inventare quello che Pierre Levy definisce un’‘antropologia del cyberspazio’.”
Michael Hardt, Toni Negri, Empire, 1999
“L’etere è il terzo e fondamentale strumento del controllo imperiale. […] I sistemi contemporanei della comunicazione non sono subordinati alla sovranità: al contrario, è la sovranità che sembra subordinata alla comunicazione. […] La comunicazione è la forma della produzione capitalistica mediante la quale il capitale è riuscito a sottomettere la società intera, a globalizzare il suo regime e a sopprimere tutte le prospettive alternative.”
Michael Hardt, Toni Negri, Empire, 1999
L’utopia cibernetica non ha solamente vampirizzato il socialismo e la sua potenza d’opposizione facendone un “democratismo di prossimità”. In quegli anni ’70 pieni di confusione, essa ha pure contaminato il più avanzato marxismo, rendendo insostenibile e inoffensiva la sua prospettiva. “Dappertutto – come scrive Lyotard nel 1979 – a un titolo o all’altro, la Critica dell’economia politica e la critica della società alienata che ne era il corollario vengono utilizzati come elementi nella programmazione del sistema.” A fronte dell’ipotesi cibernetica unificante, l’assioma astratto d’un antagonismo potenzialmente rivoluzionario – lotta delle classi – “comunità umana” (Gemeinwesen) o “social-vivente” contro Capitale, general intellect contro processo di sfruttamento, “moltitudine” contro “Impero”, “creatività” o “virtuosità” contro lavoro, “ricchezza sociale” contro valore mercantile, ecc. – serve in definitiva il progetto politico d’una più grande integrazione sociale. La critica dell’economia politica e l’ecologia non criticano il genere economico specifico del capitalismo, né la visione totalizzante e sistemica propria alla cibernetica; paradossalmente esse ne fanno addirittura le loro filosofie emancipatrici della storia. La loro teleologia non è più quella del proletariato o della natura ma quella del Capitale. La loro odierna prospettiva è sino in fondo quella di un’economia sociale, d’una “economia solidale”, d’una “trasformazione del modo di produzione”, non più tramite collettivizzazione o statalizzazione dei mezzi di produzione ma attraverso la collettivizzazione delle decisioni di produzione. Come lo annuncia per esempio un Yann Moulier Boutang, si tratta che venga finalmente riconosciuto “il carattere sociale collettivo della creazione di ricchezza”, che venga valorizzato il mestiere di vivere da cittadino. Questo presunto comunismo ne viene ridotto a un democraticismo economico, al progetto di ricostruzione d’uno Stato “post-fordista”, dal basso. La cooperazione sociale vi è posta come sempre-già data, senza incommensurabilità etiche, senza interferenze con la circolazione degli affetti, senza problemi di comunità.
Il percorso di Toni Negri all’interno dell’Autonomia, poi della nebulosa dei suoi discepoli in Francia e nel mondo anglosassone, mostra quanto il marxismo autorizzasse un tale slittamento verso la volontà di volontà, la “mobilitazione infinita”, suggellando la propria ineluttabile disfatta, a termine, di fronte all’ipotesi cibernetica. Quest’ultima non ha avuto alcuna difficoltà ad innestarsi sulla metafisica della produzione che ricopre tutto il marxismo e che Negri spinge al suo estremo considerando in ultima analisi come lavoro ogni affetto, ogni emozione, ogni comunicazione. Da questo punto di vista, autopoiesi, autoproduzione, auto-organizzazione e autonomia sono categorie che giocano un ruolo omologo nelle formazioni discorsive distinte da cui sono emerse. Le rivendicazioni ispirate da questa critica dell’economia politica, quella del reddito garantito come quella dei “documenti per tutti”, non si collegano ai fondamenti della sola sfera produttiva. Se alcuni di coloro che oggi chiedono un reddito garantito hanno potuto rompere con la prospettiva della messa a lavoro di tutti – cioè la fede nel lavoro come valore fondamentale - che ancor prima predominava nei movimenti dei disoccupati, è a condizione, paradossalmente, d’aver conservato una definizione ereditata, restrittiva, del valore come “valore-lavoro”. In tal modo essi possono ignorare che contribuiscono, infine, a migliorare la circolazione dei beni e delle persone.
Ora, è precisamente proprio perché la valorizzazione non è più assegnabile in ultima istanza a ciò che succede nella sola sfera produttiva che ormai bisognerebbe spostare il gesto politico – penso allo sciopero, per esempio, per non parlare di sciopero generale – verso le sfere della circolazione dei prodotti e dell’informazione. Chi non vede che la richiesta di “documenti per tutti”, se venisse soddisfatta, non contribuirebbe che ad una maggiore mobilità della forza lavoro a livello mondiale, cosa che hanno ben capito i pensatori liberali americani? Quanto al salario garantito, se fosse ottenuto, non introdurrebbe semplicemente un reddito supplementare nel circuito del valore? Esso rappresenterebbe l’equivalente formale d’un investimento del sistema nel suo “capitale umano”, d’un credito; esso anticiperebbe una produzione a venire. Nel quadro della presente ristrutturazione del capitalismo, la sua rivendicazione potrebbe essere paragonata a una proposta neo-keynesiana di rilancio della “domanda effettiva” che possa servire da rete di sicurezza all’auspicato sviluppo della “Nuova Economia”. Pure da qui l’adesione di diversi economisti all’idea d’un “reddito universale” o “reddito di cittadinanza”. Nella stessa prospettiva di Negri e dei suoi fedeli, ciò che lo giustificherebbe è un debito sociale contratto dal capitalismo verso la “moltitudine”. E se più sopra ho affermato che il marxismo di Negri aveva funzionato, come tutti i marxismi, a partire da un assioma astratto sull’antagonismo sociale, ciò è dovuto al fatto che egli ha concretamente bisogno della finzione dell’unità del corpo sociale. Nei suoi giorni più offensivi, come quelli vissuti in Francia durante il movimento dei disoccupati dell’inverno 1997-1998, le sue prospettive sono volte a fondare un nuovo contratto sociale, detto addirittura comunista. In seno alla politica classica il negrismo gioca già il ruolo di avanguardia dei movimenti ecologisti.
Per ritrovare la congiuntura intellettuale che spiega questa fede cieca nel sociale concepito come oggetto e soggetto possibile d’un contratto, come insieme di elementi equivalenti, come classe omogenea, corpo organico, è necessario ritornare alla fine degli anni ’50, quando la decomposizione progressiva della classe operaia nelle società occidentali inquieta i teorici marxisti poiché capovolge l’assioma della lotta delle classi. Alcuni credono allora di trovare nei Grundrisse di Marx una risposta, una prefigurazione di ciò che sta per diventare il capitalismo e il suo proletariato. Nel frammento sulle macchine, Marx, in piena fase d’industrializzazione, considera che la forza individuale del lavoro potrebbe cessare d’essere l’origine principale del plusvalore perché “il sapere sociale generale, la conoscenza” diventerebbe la potenza produttiva immediata. Quel capitalismo, che oggi SI definisce “cognitivo”, non verrebbe più contestato dal proletariato nato nelle grandi manifatture ma da quello Marx definisce “individuo sociale”. Egli indica la ragione di questo ineluttabile processo di rovesciamento: “Il capitale scuote tutte le forze scientifiche e naturali, stimola la cooperazione e il commercio sociali per liberare (relativamente) la creazione della ricchezza del tempo di lavoro. […] Saranno le condizioni materiali a far esplodere le fondamenta del capitale”. La contraddizione del sistema, il suo catastrofico antagonismo, proverrebbe dal fatto che il Capitale misura ogni valore in tempo di lavoro essendo al contempo portato a diminuire quest’ultimo a causa dei guadagni di produttività permessi dall’automazione. Insomma il capitalismo è condannato poiché chiede allo stesso tempo meno lavoro e più lavoro. Le risposte alla crisi economica degli anni ’70, il ciclo di lotte che dura in Italia per più di dieci anni, danno una insperata sferzata a questa teleologia. L’utopia d’un mondo in cui le macchine lavoreranno al nostro posto sembra a portata di mano. La creatività, l’individuo sociale, il general intellect – gioventù studentesca, emarginati colti, lavoratori immateriali, ecc. – distaccati dal rapporto di sfruttamento, sarebbero il nuovo soggetto del comunismo che viene. Per alcuni, tra cui Negri o Castoriadis, ma anche i situazionisti, questo significa che il nuovo soggetto rivoluzionario si riapproprierà della sua “creatività”, o del suo “immaginario”, confiscati dal rapporto di lavoro, e farà del tempo di non-lavoro una nuova fonte di emancipazione di sé e della collettività. L’Autonomia come movimento politico si baserà su queste analisi.
Nel 1973, Lyotard, che ha frequantato a lungo Castoriadis all’interno di Socialisme ou Barbarie, nota l’indifferenziazione tra questo nuovo discorso marxista o post-marxista del general intellect e il discorso della nuova economia politica: “il corpo delle macchine che voi chiamate soggetto sociale e forza produttiva universale dell’uomo, altro non è che il corpo del moderno Capitale. Il sapere che vi viene implicato non è per nulla cosa di tutti gli individui, esso è separato, momento nella metamorfosi del capitale, che gli obbedisce tanto quanto lo governa.” Il problema etico che pone la speranza riposta nell’intelligenza collettiva, che oggi ritroviamo nelle utopie sugli usi autonomi collettivi delle reti di comunicazione, è il seguente: “si può decidere che il ruolo principale del sapere è di essere un elemento indispensabile del funzionamento della società e agire di conseguenza nei suoi confronti, solo se si è deciso che questa è una grande macchina. Inversamente si può contare sulla sua funzione critica e pensare a orientarne lo sviluppo e la diffusione in questo senso solo se si è deciso che essa non forma un tutto integrato e che resta posseduta da un principio di contestazione”. Coniugando i due termini tuttavia non conciliabili di questa alternativa, l’insieme delle posizioni eterogenee di cui abbiamo trovato la matrice nel discorso di Toni Negri e dei suoi adepti, e che rappresenta il punto di compimento della tradizione marxista e della sua metafisica, sono condannati all’erranza politica, all’assenza di destinazione che non sia quella che la dominazione gli riserva. Qui la questione essenziale – questione che seduce tanti apprendisti intellettuali – è che questi saperi non siano mai dei poteri, che la conoscenza non sia mai conoscenza di sé, che l’intelligenza rimanga sempre separata dall’esperienza. L’obiettivo politico del negrismo è quello di formalizzare l’informale, di rendere esplicito l’implicito, patente il tacito, in breve di valorizzare quanto è fuori valore. E in effetti, Yann Moulier Boutang, cane fedele di Negri, finisce col lasciarsi sfuggire questa perla nel 2000, in un rantolo irreale da cocainomane malridotto: “Il capitalismo nella sua nuova fase, o ultima frontiera, ha bisogno del comunismo delle moltitudini”. Il comunismo neutro di Negri, la mobilitazione che esso ordina, non è solamente compatibile con il capitalismo cibernetico; esso ormai ne è la condizione per il suo rendersi effettivo.
Una volta digerite le proposte del Rapporto del MIT, gli economisti della crescita hanno effettivamente sottolineato il ruolo primordiale della creatività, dell’innovazione tecnologica – al fianco dei fattori Capitale e Lavoro – nella produzione di plusvalore. E altri esperti, altrettanto informati, hanno allora dottamente affermato che la propensione a innovare dipendeva dal grado d’educazione, di formazione, di salute delle popolazioni – seguendo l’economista più radicale, Gary Becker, questo SI chiamerà “capitale umano” -, dalla complementarità tra agenti economici – complementarità che può essere favorita dalla messa in luogo d’una regolare circolazione d’informazioni, attraverso reti di comunicazione – così come dalla complementarità tra attività e ambiente, tra vivente umano e vivente non-umano. Ciò che spiegherebbe la crisi degli anni ’70 sarebbe il fatto che esiste una base sociale, cognitiva e naturale per il mantenimento e lo sviluppo del capitalismo che sarebbe stata sin ad allora trascurata. Andando più a fondo, ciò significa che il tempo di non-lavoro, l’insieme dei momenti che sfuggono ai circuiti della valorizzazione mercantile – cioè la vita quotidiana – sono anch’essi un fattore di crescita, detengono un valore in potenza in quanto permettono di sostenere la base umana del Capitale. SI videro da allora eserciti di esperti raccomandare alle imprese di applicare delle soluzioni cibernetiche all’organizzazione della produzione: sviluppo delle telecomunicazioni, organizzazione in reti, “management partecipativo” o per progetto, liste di consumatori, controlli di qualità contribuiscono ad accrescere i tassi di profitto. Per quelli che volevano uscire dalla crisi degli anni ’70 senza rimettere in discussione il capitalismo, “rilanciare la crescita”, e non più fermarla, implicava di conseguenza una riorganizzazione profonda nel senso di una democratizzazione delle scelte economiche e d’un sostegno istituzionale al tempo di vita, come ad esempio nella richiesta di “gratuità”. E’ solamente a questo titolo che oggi SI può affermare che il “nuovo spirito del capitalismo” è l’erede della critica sociale degli anni ’60-’70: nella misura esatta in cui l’ipotesi cibernetica ispira il modo di regolazione sociale che emerge a quel tempo.
Non è dunque affatto sorprendente che la comunicazione, la messa in comune di saperi impotenti che la cibernetica realizza, oggi autorizzi gli ideologi più avanzati a parlare di “comunismo cibernetico”, come fanno Dan Sperber o Pierre Levy – il cibernetico in capo del mondo francofono, il collaboratore della rivista Multitudes, l’autore dell’aforisma: “l’evoluzione cosmica e culturale culmina oggi nel mondo virtuale del cyberspazio”. “Socialisti e comunisti, scrivono Hardt e Negri, hanno a lungo richiesto che il proletariato avesse l’accesso libero e il controllo delle macchine e dei materiali utilizzati per produrre. Tuttavia, nel contesto della produzione immateriale e biopolitica, questa esigenza tradizionale prende un nuovo aspetto. Non solo la moltitudine utilizza macchine per produrre, ma sempre più diviene essa stessa macchinina, essendo i mezzi di produzione sempre più integrati agli spiriti e ai corpi della moltitudine. In tale contesto, riappropriazione significa aver libero accesso (e controllo) della conoscenza, dell’informazione, della comunicazione e degli affetti, poiché questi sono alcuni dei mezzi primari della produzione biopolitica.” In quel comunismo, essi scrivono manifestando meraviglia, non saranno divise le ricchezze ma le informazioni e ognuno sarà allo stesso tempo produttore e consumatore. Ciascuno diventerà il proprio “automedia”! Il comunismo sarà un comunismo di robot!
Che rompa solamente con i postulati individualisti dell’economia o che consideri l’economia mercantile come componente regionale d’una economia più generale – come è implicito in tutte le discussioni sulla nozione di valore, come quelle del gruppo tedesco Krisis, tutte le difese del dono contro lo scambio ispirate da Mauss, comprendendovi l’energetica anticibernetica d’un Bataille, così come tutte le considerazioni sul simbolico, fossero esse in Bourdieu o in Baudrillard – la critica dell’economia politica rimane in fine tributaria dell’economicismo. In una prospettiva di salvezza attraverso l’attività, l’assenza d’un movimento di lavoratori che corrisponda al proletariato rivoluzionario immaginato da Marx sarà scongiurata dal lavoro militante della sua organizzazione. “Il partito, scrive Lyotard, deve fornire la prova che il proletariato è reale e non può più farlo di quanto si possa fornire la prova d’un ideale della ragione. Può solo fornire sé stesso come prova, e fare una politica realista. Il referente del proprio discorso resta impresentabile direttamente, non ostensibile. Il conflitto rimosso ritorna all’interno del movimento operaio, in particolare sotto forma di conflitti ricorrenti sulla questione dell’organizzazione.” La ricerca d’una classe di produttori in lotta fa dei marxisti i più conseguenti dei produttori d’una classe integrata. Ora non è indifferente, esistenzialmente e strategicamente, opporsi politicamente piuttosto che produrre antagonismi sociali, essere per il sistema un oppositore o esserne un regolatore, creare invece che volere che la creatività si liberi, desiderare piuttosto che desiderare il desiderio; in breve, combattere la cibernetica piuttosto che essere un cibernetico critico.
Abitati dalla passione triste dell’origine, potremmo cercare nel socialismo storico le premesse di questa alleanza divenuta da trent’anni, per esempio nella filosofia delle reti di Saint-Simon, nella teoria dell’equilibrio di Fourier o nel mutualismo di Proudhon, ecc. Ma quello che i socialisti hanno in comune da due secoli, e che condividono con quelli che tra loro si sono dichiarati comunisti, è di lottare solo contro uno degli effetti del capitalismo: sotto tutte le sue forme il socialismo lotta contro la separazione ricreando legame sociale tra soggetti, tra soggetti e oggetti, senza lottare contro la totalizzazione che fa sì che SI possa assimilare il sociale a un corpo e l’individuo a una totalità chiusa, un corpo-soggetto. Ma c’è anche un altro terreno comune, mistico, sul cui fondo il trasferimento delle categorie di pensiero del socialismo e della cibernetica ha potuto formare un’alleanza, quello d’un inconfessabile umanismo, d’una fede incontrollata nel genio dell’umanità. Così come è ridicolo vedere un’“anima collettiva” dietro la costruzione d’un alveare a partire dalle attitudini erratiche delle api – come faceva a inizio secolo lo scrittore Maeterlinck in una prospettiva cattolica – anche il mantenimento del capitalismo non è in nulla tributario dell’esistenza d’una coscienza collettiva della “moltitudine” situata nel cuore della produzione.
Celandosi dietro l’assioma della lotta delle classi, l’utopia socialista storica, l’utopia della comunità, è stata in definitiva una utopia dell’Uno promulgata dalla Testa su un corpo che non può essere uno. Oggi ogni socialismo – che si richiami più o meno esplicitamente alle categorie di democrazia, di produzione, di contratto sociale – difende il partito della cibernetica. La politica non-cittadinista deve assumersi tanto come anti-sociale quanto come anti-statale, deve rifiutare di contribuire alla risoluzione della “questione sociale”, respingere la messa in forma del mondo sotto forma di problemi, rifiutare la prospettiva democratica che struttura l’accettazione da parte di ciascuno delle richieste della società.
Quanto alla cibernetica, essa oggi non è altro che l’ultimo socialismo possibile.
VII
“La teoria è il godimento sull’immobilizzazione […] Ciò che vi eccita, teorici, e vi sospinge nella nostra banda, è la freddezza del chiaro e del distinto; del distinto solo, infatti, che è l’opponibile, datosi che il chiaro è solamente una sospetta ridondanza del distinto tradotta in filosofia del soggetto. Fermate la barra, voi dite: uscire dal pathos, – eccolo il vostro pathos.”
Jean-François Lyotard, Économie libidinale, 1973
Quando si è scrittore, poeta o filosofo, si ha l’abitudine di scommettere sulla potenza del Verbo per intralciare, eludere, bucare i flussi di informazioni dell’Impero, la macchine binarie dell’enunciazione. Voi li avete intesi i cantori della poesia come ultimo bastione di fronte alla barbarie della comunicazione. Anche quando identifica la propria posizione con quella delle letterature minori, degli eccentrici, dei “folli letterari”, quando bracca gli idioletti che lavorano ogni lingua per mostrare ciò che sfugge al codice, per fare implodere l’idea stessa di comprensione, per esporre il malinteso fondatore che dà scacco alla tirannia dell’informazione, l’autore che sempre più sa di essere agìto, parlato, attraversato da delle intensità, resta nondimeno animato davanti alla sua pagina bianca da una concezione profetica dell’enunciato. Per il “recettore” che io sono, gli effetti di siderazione che alcune scritture si sono messe scientemente a ricercare a partire dagli anni ’60 non sono a questo riguardo meno paralizzanti di quanto lo era la vecchia teoria critica categorica e sentenziosa. Vedere dalla mia sedia Guyotat o Guattari godere ad ogni riga, distorcersi, eruttare, scoreggiare e vomitare il loro divenire-delirio non mi fa eccitare, godere, mugugnare che molto di rado, cioè solo quando un desiderio mi porta sulle rive del voyeurismo. Performances, di sicuro, ma performances di che cosa? Performances d’una alchimia da collegio in cui la pietra filosofale è inseguita con un misto di getti d’inchiostro e di sperma. L’intensità proclamata non è sufficiente a generare il passaggio d’intensità. La teoria e la critica, quanto a loro, restano segregate in una polizia dell’enunciato chiaro e distinto, tanto trasparente quanto doveva esserlo il passaggio dalla “falsa coscienza” alla coscienza illuminata.
Lungi dal cedere ad una qualunque mitologia del Verbo o essenzializzazione del senso, Burroughs propone in La rivoluzione elettronica alcune forme di lotta contro la circolazione controllata degli enunciati, alcune strategie offensive d’enunciazione che riguardano le operazioni di “manipolazione mentale” che gli ispirano i suoi esperimenti di “cut-up”, una combinazione degli enunciati basata sul rischio. Proponendo di fare dell’“interferenza” un’arma rivoluzionaria egli adultera innegabilmente le precedenti ricerche con un linguaggio offensivo. Ma come la pratica situazionista del “détournement”, che nulla permette di distinguere nel suo modus operandi da quella del “recupero” – il che spiega la sua fortuna spettacolare -, l’“interferenza” non è altro che un’operazione reattiva. Lo stesso si dica per le forme di lotta contemporanee su Internet che sono ispirate da queste istruzioni di Burroughs: atti di pirateria, propagazione di virus, spamming non possono servire in fine che a destabilizzare temporaneamente il funzionamento della rete di comunicazione. Ma per ciò che ci tiene occupati qui ed ora, Burroughs è costretto a convenirne, in termini certi ereditati dalle teorie della comunicazione, che dunque ipostatizzano il rapporto trasmittente- ricevente: “Sarebbe più utile scoprire come i modelli d’esplorazione potrebbero essere alterati per poter permettere al soggetto di liberare i suoi propri modelli spontanei.” La posta in gioco di ogni enunciazione non è la ricezione ma piuttosto il contagio. Chiamo insinuazione – l’illapsus della filosofia medievale – la strategia che consisterà nel seguire la sinuosità del pensiero, le parole erranti che mi vincono costituendo allo stesso tempo il terreno indefinito in cui verrà a stabilirsi la loro ricezione. Giocando sul rapporto del segno a ciò che vi si riferisce, usando dei luoghi comuni contro sé stessi, come nella caricatura, lasciando che il lettore si avvicini, l’insinuazione rende possibile un incontro, una presenza intima, tra il soggetto dell’enunciazione e coloro che si relazionano all’enunciato. “Ci sono chiavi d’accesso sotto le parole d’ordine, scrivono Deleuze e Guattari. Parole che sarebbero come di passaggio, componenti di passaggio, mentre le parole d’ordine segnano punti d’arresto, composizioni stratificate organizzate”. L’insinuazione è la nebbia della teoria ed è adatta a un discorso il cui obiettivo è permettere le lotte contro il culto della trasparenza collegato sin dalle origini all’ipotesi cibernetica.
Che la visione cibernetica del mondo sia una macchina astratta, una favola mistica, un’eloquenza fredda alla quale sfuggono continuamente molteplici corpi, gesti, parole, non è sufficiente per giungere alla conclusione del suo scacco ineluttabile. A tale riguardo, se qualcosa fa difetto alla cibernetica è proprio ciò che la sostiene: il piacere della razionalizzazione ad oltranza, la bruciatura provocata dal “tautismo”*, la passione della riduzione, il godimento dell’appiattimento binario. Attaccare l’ipotesi cibernetica, è necessario ripeterlo, non significa criticarla e opporle una visione concorrente del mondo sociale ma sperimentare al suo fianco, rendere effettivi altri protocolli, ricrearli interamente e goderne. A partire dagli anni ’50 l’ipotesi cibernetica ha esercitato un fascino inconfessato su tutta una generazione “critica”, dai situazionisti a Castoriadis, da Lyotard a Foucault, Deleuze e Guattari. Potremmo cartografare le loro risposte in questo modo: i primi vi si sono opposti sviluppando un pensiero al di fuori, a strapiombo, i secondi facendo uso d’un pensiero interno ad essa; da una parte “un tipo metafisico di controversia con il mondo che ha come obiettivo mondi sopra-terrestri trascendenti o contro-mondi utopici, dall’altra “un tipo poietico di controversia con il mondo che vede nello stesso reale la pista che conduce alla libertà”, come riassume Peter Sloterdijk. La riuscita di ogni futura sperimentazione rivoluzionaria si misurerà essenzialmente con la sua capacità a rendere obsoleta questa opposizione. Ciò ha inizio quando i corpi cambiano di scala, sentono di acquistare densità, sono attraversati da fenomeni molecolari che sfuggono ai punti di vista di sistema, alle rappresentazioni molari, e fanno di ciascun poro una macchina visionaria sintonizzata sui divenire piuttosto che una macchina fotografica, che inquadra, che delimita, che assegna gli esseri. Nelle righe che seguono insinuo un protocollo di sperimentazione destinato a disfare l’ipotesi cibernetica e il mondo che essa insiste a costruire. Ma, come per altre arti erotiche o strategiche, il suo uso non si decide né s’impone. Esso non può provenire che dalla più pura mancanza di volontà, la qual cosa implica, certamente, una certa disinvoltura.
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