Ne avevamo già parlato, ma forse vale la pena tornarci. Si tratta del progetto idroelettrico Palo Viejo, nella regione del Quichè, Guatemala settentrionale, un investimento da 185 milioni di dollari co-finanziato dalla banca Mondiale. I protagonisti sono i soliti: un’importante impresa multinazionale italiana, l’Enel Green Power (Egp); il governo guatemalteco, che ha approvato il progetto e lo sostiene con forza; le comunità indigene di origine maya della zona interessata. Ma nel quadro entrano altri due elementi, non da poco conto: la presenza delle forze armate nel territorio e il ruolo controverso dell’ambasciata d’Italia.
La presenza delle truppe dell’esercito guatemalteco in quella zona del Quichè è stata ampliamente documentata dalle comunità indigene e dalle organizzazioni della società civile solidali. È dal febbraio scorso che i militari guatemaltechi fanno il bello e cattivo tempo presso le comunità del municipio di San Juan Cotzal, dove è forte l’opposizione al progetto idroelettrico: centinaia di uomini in passamontagna che terrorizzano, irrompono, invadono, occupano (vedi terraterra del 29 marzo scorso). Forse è bene ricordare che questa regione è stata per oltre trent’anni teatro di scorribande dello stesso esercito, che ha seminato il terrore durante guerra civile che ha attraversato il paese. È evidente che la presenza armata di questi mesi ricorda troppo da vicino le «prassi» messe al bando dal Trattato di Pace firmato nel 1996. Tra l’altro, molta del’opposizione ruota attorno alla comunità maya ixil di San Felipe Chenla e alle terre che l’Enel ha acquisito da un proprietario terriero locale, Pedro Broll, che però aveva incamerato quelle terre proprio grazie alla guerra civile…
Sull’altro fronte, il ruolo giocato dall’attuale ambasciatore italiano nel paese, Mainardo Benardelli, è registrato almeno dal marzo scorso. In un comunicato diffuso dalle comunità maya si legge testualmente che il signor ambasciatore, assieme al signor Alain Wormser dell’Egp, «ha chiesto alle Autorità Ancestrali di presentarsi nei suoi uffici per far conoscere loro la situazione, tuttavia, mentre richiedevano questo dialogo, facevano pressione sul governo del Guatemala affinché il Presidente della Repubblica ordinasse la repressione» delle comunità. Altre testimonianze ci dicono inoltre di «visite personali» di Benardelli presso diversi protagonisti della protesta. In una di queste visite, l’ambasciatore avrebbe suggerito di non usare il termine «genocidio», ma piuttosto di sostenere l’esistenza di «difficoltà di comunicazione con le comunità o un disaccordo da parte di alcune persone».
In questo scenario, all’inizio di maggio le parti sembrano aver ripreso il dialogo, anche se gli indigeni denunciano di nuovo pressioni da parte dell’impresa e del governo. L’ultimo episodio in ordine di tempo è stato il furto dei timbri del «sindaco ausiliare indigeno» da apporre su presunti documenti di accettazione delle proposte dell’impresa, furto che diverse fonti attribuiscono a «lavoratori dell’Egp». Qualcuno continua dunque a giocare sporco, nonostante sia evidente che le comunità locali non stiano preparando la rivoluzione: vogliono solo essere consultate su un progetto che ha un impatto diretto sulla loro vita, secondo quanto disposto dall’articolo 6 Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, e poter cogestire le risorse naturali del proprio territorio (articolo 15). Nulla di più. C’è da chiedersi se l’Enel – ed i governi guatemalteco e italiano dietro a lei – abbia intenzione di rispettare questo diritto. Le comunità locali un compromesso han dimostrato di volerlo accettare – chiedendo, per esempio, che il 20 per cento delle entrate del progetto sia gestito autonomamente dalla comunità stesse. Egp dice che la sua missione è produrre energia pulita. E anche se è discutibile il fatto che l’energia idroelettrica sia realmente «ecologica», il problema è un altro: è pulita un’energia la cui produzione si macchia di sangue indigeno?
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