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lunedì 30 maggio 2011

Ananas e kalashnikov

da finimondo


Delta in rivolta. 
Suggerimenti da una «insurrezione asimmetrica»
Porfido, Torino 2009

Con gli insorti naxaliti, 
nel cuore della foresta indiana
Porfido, Torino 2010


Si poteva sperare che il terzomondismo, questa mitologia guerrigliera in grado di scombussolare gli ormoni ai pasciuti rivoluzionari occidentali, fosse ormai un ricordo lontano coltivato solo da pochi militanti antimperialisti decerebrati — gli unici a non avvedersi che la propria esaltazione per le rivolte che scoppiano in giungle esotiche è il frutto della cattiva digestione della loro coscienza. La recente pubblicazione di questi due libri sta a dimostrare invece come nessun pensiero si trovi al riparo dagli spifferi del venticello del momento, pronto a mutar direzione in qualsiasi istante. Ovvero, che spesso e volentieri il pensiero non si nutre affatto di idee singolari bensì di opinioni collettive, malleabili e rivedibili come tutto ciò che è opinione e collettivo. È forse servito a qualcosa annotare quanti sinceri democratici di sinistra si commuovano per la guerriglia in Messico o in America latina, o come la passività abbia sempre bisogno di guide e specialismi? Si direbbe di no, preso atto di quanti sinceri sovversivi di estrema sinistra e libertari siano pronti oggi a condividere quella stessa commozione e quella stessa passività.

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Il primo libro citato si occupa di una questione che riguarda da vicino il nostro paese ma di cui in fondo non si sa poi molto: i conflitti scoppiati in Niger attorno allo sfruttamento dei pozzi di petrolio da parte delle grandi compagnie del settore, fra cui l'italiana Agip-Eni. Attraverso il vaglio degli articoli apparsi sull'argomento, letti in vari siti e pubblicazioni di sinistra, nazionali e internazionali, il curatore ha redatto un utile strumento (contro)informativo sui massacri e le devastazioni che hanno colpito quell'area, sulle lotte là in corso e sulle responsabilità e gli interessi in ballo. Se il suo titolo fosse solo Delta in rivolta e finisse a pagina 84, sarebbe un buon libro divulgativo da raccomandare. Si potrebbe tutt'al più deplorare che le maglie del setaccio utilizzato non siano state sufficientemente strette da bloccare alcuni luoghi comuni sinistri, i quali lungi dall'esser rimossi sono stati rimessi in circolazione. Va da sé che le categorie di pensiero occidentali risultano impraticabili in quelle lande lontane e selvagge, gineprai di disperazione e speranza, di odio e rancori, di tensioni sociali e conflitti tribali. Constatazione questa che torna comoda per evitare ogni rimando agli abituali criteri interpretativi di sovversivi nostrani, autoritari o anarchici che siano (il che non impedisce al curatore di citare talvolta i primi e tralasciare del tutto i secondi). Ma allora, perché piangere sul naufragio delle speranze democratiche o far invocare un cambio del sistema di governo? Se l'intento è dare dignità universale alle ragioni di quella lotta, perché definire i ribelli gli «esclusi dal business del petrolio»? In questo modo si fa solo balenare come allettante la prospettiva di una democrazia reale in grado di estrarre e vendere petrolio suddividendo i profitti fra i suoi cittadini, cosa che per altro contraddice i dichiarati meriti "ambientalisti" di chi si sta opponendo con le armi ai trafficanti di oro nero. 
Poco male, si dirà, dettagli trascurabili. Purtroppo il libro continua per altre 18 pagine (appendici a parte) in cui ci vengono elargiti preziosi suggerimenti da una «insurrezione asimmetrica» e di cui il minimo che si possa dire è che lasciano perplessi. Anche perché, detto tra noi, le enormità contenute in quest'ultima parte provocano un fastidioso effetto collaterale — quello di rendere poco attendibile il resto del testo. Dopo essere stati istruiti che la teoria della guerriglia "mordi e fuggi" va fatta risalire nientepopodimeno che a Lawrence d'Arabia, agente segreto di Sua Altezza Serenissima la regina d'Inghilterra, come si possono prendere sul serio le considerazioni sul Mend? Diventa pressoché impossibile, e i controsensi in cui inciampa l'argomentazione non aiutano.
Se questo libro fosse stato pubblicato in Costa d'Avorio, in Libia, nello Zaire o in qualsiasi altro paese dell'Africa, le sue conclusioni sarebbero state assai più brillanti. Purtroppo è stato realizzato sulle rive del Po. A chi sono rivolti quindi quei «suggerimenti»? Costa tanta fatica resistere alla tentazione di scoppiare a ridere nel veder attribuire al Mend il merito della scoperta dell'acqua calda — ovvero la capacità da parte di piccoli gruppi di infliggere grossi danni al nemico, il rifiuto di una identità politica predefinita, l'organizzazione informale. Che le fonti a cui si è attinto per realizzare quest'opera (come Il Manifesto o Le Monde diplomatique) possano rimanere a bocca aperta per la sorpresa, è cosa più che comprensibile. Per i giornalisti di sinistra il modello insuperabile della guerriglia esotica rimane Che Guevara, e la loro intelligenza non riesce ad andare oltre a Comitati Centrali e Partiti, linee ideologiche da seguire e disciplina militare da imporre. Ma che queste caratteristiche vengano spacciate come «indicazioni e suggerimenti» inediti ed innovativi anche per «il resto del mondo», beh, qui si scade nel ridicolo. Lasciando pure perdere il movimento anarchico, per cui si  tratta di autentiche ovvietà ribadite da oltre un secolo, basterebbe pensare agli animalisti dell'Alf, i quali non hanno avuto bisogno di scivolare in motoscafo sugli acquitrini del Niger per ricorrere a una cosiddetta «sigla ombrello».
Ora, perché mai ciò che è stato teorizzato, proposto e praticato innumerevoli volte appena fuori dal nostro uscio di casa dovrebbe acquisire originalità e rilevanza se proveniente da un altro continente e da un contesto a noi estraneo? È un mistero che non ci viene svelato e che insinua il sospetto che ci siano compagni talmente prevenuti nei confronti di chi hanno accanto da essere disposti ad ascoltare e accettare simili consigli solo se impartiti da giungle subtropicali. Resta il fatto che quanto presentato in quest'opera come tratto essenziale di quei conflitti sociali non suggerisce nulla di nuovo, si limita a confermare antiche conoscenze. Ovvero, che un movimento rivoluzionario composto da tanti piccoli gruppi autonomi è assai più inattaccabile di un esercito guidato da un comitato strategico, che il sabotaggio delle linee di rifornimento è più pernicioso per il potere dell'assalto diretto contro i suoi quartieri generali.
Da parte nostra, la sola originalità che abbiamo riscontrato durante la lettura riguarda il testo edito a Torino, non tanto le azioni condotte in Niger. E risiede nella disinvoltura con cui viene ripetuta pari pari la lingua del nemico, cioè il vocabolario caro ai consiglieri ed analisti militari statunitensi che qui vengono massicciamente citati come se fossero vere e proprie autorità competenti in materia (ve la immaginate la profondità di un'analisi sui conflitti sociali europei fatta da un consulente militare dei servizi segreti o del ministero degli Interni?). Ciò spiega la profusione di termini quali «insurrezione asimmetrica», «guerriglie open source», «combattenti free lance» e via istupidendo. Forse che per essere attuali, verosimili, up to date, non bisogna esprimersi più con le parole di un sovversivo dell'800 o del 900, ma con quelle di un esperto di tattiche controinsurrezionali del 2000? Che sia questo il prezzo da pagare per diventare un «astuto manipolatore dei mass-media», uno dei pregi (sic!) riconosciuti al Mend?
Che poi, a dirla tutta, ci sia permesso di nutrire qualche dubbio pure sulla natura effettivamente informale del Mend. Per carità, in un contesto come quello si tratta davvero di una esperienza notevole e di cui augurarsi la continuazione. Ma, così importata, non si può fare a meno di notare che a tal proposito il testo si contraddice alquanto. A pagina 86 ad esempio leggiamo che «è addirittura improprio parlare di una "leadership", almeno nel senso tradizionale... è difficile individuare questa identità e anzi, spesso, dalle loro stesse parole emerge una volontà di smarcarsi da una simile "definizione"», ma quattro pagine dopo c'è scritto che uno dei fattori chiave della «superiorità militare» del Mend consiste nell'essere «una libera coalizione di militanti armati, guidati da una leadership collegiale». Ah, questa leadership che c'è e che non c'è, a seconda della circostanza e quindi della convenienza... 
Per di più, dopo che di continuo ci viene assicurato che all'interno del Mend confluiscono diversi gruppi separati fra loro, che non vi è alcun controllo dall'alto, apprendiamo che «il suo "interfaccia" con l'esterno non è altro che uno pseudonimo, Jomo Gbomo, con cui vengono firmati i comunicati e le interviste tramite e-mail alla stampa». Ora, essendo poco credibile che tutti i gruppi che costituiscono il Mend abbiano accesso a questa e-mail e siano quindi in grado di esprimere il proprio pensiero ribelle, non resta che concludere che l'azione sarà anche variegata, frutto di gruppi mossi dalle intenzioni più disparate, ma la sua "gestione politica" lo è assai meno. Il fatto che talvolta chi scrive i comunicati abbia pareri diversi rispetto a chi agisce, come ci viene fatto notare a pagina 91, dimostra non solo l'assenza di rigide gerarchie, ma anche la presenza di strumentalizzazioni politiche. Quale rapporto di fluidità intercorre fra coloro che agiscono e coloro che formulano rivendicazioni, avanzano richieste, condannano azioni altrui, impongono ultimatum, ecc. ecc.? Si tratta di un nodo non irrilevante, che non viene nemmeno sfiorato.
Se la rivolta portata avanti nel Delta del Niger contro le compagnie petrolifere è estremamente interessante e più che meritevole di essere conosciuta, lo è soprattutto perché «è di fondamentale importanza ricordare che accanto al Mend e alle altre milizie più o meno strutturate... esiste tutto un arcipelago conflittuale che non fa notizia ma che costituisce in fin dei conti la base materiale dei gruppi armati e il cuore dell'insurrezione sociale». Un cuore vivo e pulsante, questo arcipelago, che non va confuso con ciò che fa notizia: la voce del megafono, quella che rilascia interviste, rivendica assalti in grande stile, negozia il rilascio dei prigionieri, o invia lettere alle star di Hollywood.

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Naxalita? Chi è costui? È la domanda che noi ignoranti ci siamo posti di fronte al titolo del più recente libro delle edizioni Porfido. Ed è stata una vera sorpresa scoprire che i naxaliti altro non sono che gli abitanti di una zona dell'India. Dopo le paludi africane, le foreste indiane. Va bene. Ma se il Mend si batte contro lo Stato del Niger e le compagnie petrolifere ed a favore di una imprecisata restituzione delle risorse alle comunità locali, contro chi si battono i naxaliti e a favore di cosa? Contro chi, è facile: contro il governo indiano. Per sapere a favore di cosa, basta leggere il nome della loro organizzazione: Esercito Guerrigliero di Liberazione del Popolo. Eh sì, proprio così. Questi ribelli sono naxaliti di nascita, ma maoisti di elezione. Solo che maoista suona un po' come una parolaccia, soprattutto in quell'ambito più o meno libertario caro alle edizioni Porfido. Insorti naxaliti fa curiosità, insorti maoisti fa più o meno ribrezzo. È perciò un bene che, una volta scartato il titolo originale, si sia preferito porre l'accento sull'indicazione geografica anziché su quella politica.
La nostra sorpresa iniziale si è poi trasformata in repulsione alla lettura dell'introduzione del testo, un vero e proprio monumento all'opportunismo politico. Sì, perché con i maoisti indiani non c'è rischio di rimanere abbacinati dalla loro "fluidità" e "asimmetria". Quelli sono solidi, rigidi, strutturati, ideologizzati. Ma allora, se non si condividono simili caratteristiche, perchè diffondere un testo a loro dedicato? Ce lo spiegano con parole inequivocabili gli editori, secondo cui il fatto che i loro libri «siano caratterizzati da riferimenti ideologici e metodologici tra loro così variegati, non rappresenta affatto un problema, men che meno una “contraddizione”. Sono le dinamiche reali — sociali, individuali, umane — che sottostanno ai percorsi di rivolta e di liberazione a costituirne l’anima autentica, ciò su cui vale la pena riflettere e con cui confrontarsi, molto più che le loro etichette, le loro ideologie e i loro simboli. Le “opinioni” degli insorti, per farla breve, ci interessano poco. Molto di più ci interessa quello che, in nome di tali opinioni, sono giunti a fare».
Insomma, a rivolta scoppiata non si guarda in bocca. Poiché a quanto pare i pensieri non fanno più parte delle dinamiche reali che sottostanno ai percorsi di rivolta, che all'inizio del terzo millennio si alimentano solo di immagini, chi se ne frega delle idee (qui ribattezzate con generosità "opinioni") di chi si batte contro il potere costituito? Chi se ne frega delle loro motivazioni e delle loro aspirazioni? L'importante è che si battano. Tutto va bene, tutto fa brodo insurrezionale, dalle preghiere al dio tribale all'ideologia del capo di governo, «sinceramente poco ci importa. Se c’è bisogno di loro per alimentar battaglie e infondere coraggio, avanti il prossimo, sono tutti i benvenuti. Se aspettassimo di vedere le genti insorgere sotto le insegne, per noi più famigliari e rassicuranti, di un Marx o di un Bakunin, potremmo marcire nell’attesa. Come infatti, a quanto pare, sta succedendo. Mentre dall’Asia all’Africa all’America latina non si contano i focolai di resistenza, in Occidente i detentori dei lumi della teoria, in grado di analizzare e comprendere, osservano e disquisiscono. Intanto il sangue scorre, tutto scivola sempre più a fondo, e noi con lui. Diciamolo chiaro: non sappiamo più cosa farcene di teorie che non ci portino a combattere, di idee che non scavino trincee. La guerra civile assedia già, da fuori, la fortezza occidentale. Attende soltanto, sul fronte interno, i suoi nuovi partigiani».
Ci siamo stropicciati gli occhi alla lettura di simili parole, quasi increduli. Le abbiamo lette e rilette, sperando che il significato mutasse. Purtroppo no. Qui si sostiene apertamente, esplicitamente, l'assoluta irrilevanza delle ragioni della lotta. E questo spalanca le porte ad ogni opportunismo, ad ogni tatticismo, ad ogni compromesso. Se sono tutti i benvenuti, perché non farsela con i fascisti?  Perché le edizioni Porfido non pubblicano un bel testo su Codreanu, ad esempio? C'è già il titolo pronto, Con i miliziani moldavi nelle lande rumene. E che non ci si venga a dire che è impensabile giacché Codreanu era fascista. Quisquilie. Dov'è il problema, visto che le "opinioni" degli insorti interessano poco o nulla? Ha combattuto contro il governo in carica, sì o no? È stato per questo assassinato in carcere assieme ai suoi camerati, sì o no? Se i ribelli del Delta fanno bene a pregare il dio Egbesu non capiamo perché le Guardie Nere facessero male a pregare l'Arcangelo Michele. Mica contro i miliziani di Codreanu si vorranno rispolverare quelle etichette, ideologie e simboli che ci fanno marcire anziché marciare, vero? Sarebbe come dire che le idee dei fascisti non vanno mai dimenticate, a differenza delle nostre (?) evanescenti "opinioni".
Appena ci siamo ripresi dal voltastomaco procuratoci dalla lettura dell'introduzione (a cui va tuttavia riconosciuto il pregio della sincerità), abbiamo potuto gustare il reportage di Arundhati Roy. Non essendo una militante, ma una brava scrittrice, i lettori non rischiano di suicidarsi dopo un paio di pagine. Ci si immerge con piacere nella lettura, inorridendo davanti alle stragi compiute dalle forze governative indiane ed emozionandosi davanti a questi ribelli fieri e indomiti, coi fiori nei turbanti, che camminano per ore sotto le stelle, cucinano cibi favolosi, ballano e ridono, si occupano della loro gente... tutte cose molto belle e poetiche, certo, e che permettono di meglio contrabbandare gli applausi a questo «esercito di guerriglia maoista superbamente organizzato e fortemente motivato», lodevole per altro anche perché «dal punto di vista del consumo, è più gandhiano di un gandhiano, e ha un impatto ambientale più leggero di quello di un qualsiasi apostolo del cambiamento climatico», e i cui militanti vanno apprezzati per «la fiducia e la speranza — e l’amore — che ripongono nel Partito». Quanti ce ne vorrebbero di rivoluzionari così, talmente eccitanti che i loro giovani ammiratori sono come «groupie al seguito di una rock band».
Sì, certo, non son tutte rose e fiori in questa letteratura: i tribunali del popolo, le esecuzioni brutali, il maschilismo, l'ordine gerarchico, l'indottrinamento ideologico... ma volete mettere con la giustizia statale, gli stupri seguiti da omicidi da parte della polizia, il patriarcato tribale, i partiti al governo e le menzogne dei mass media? Arundhati Roy non ha dubbi, i secondi sono talmente brutti da rendere meravigliosi i primi. In fondo il Partito maoista «ha tenuto vivo il sogno rivoluzionario in India. Immaginate una società senza quel sogno. Anche solo per questo, non possiamo giudicarlo troppo severamente». Il Partito va compreso e giustificato, sempre. L'autrice sa che finché i maoisti si opporranno al governo saranno benvoluti dalla popolazione ma che «dopo la rivoluzione, è molto facile che questo idillio si trasformi in un matrimonio infelice. È facile che l’esercito del popolo si rivolti contro il suo stesso popolo. Oggi, nel Dandakaranya, il Partito vuole che la bauxite resti nella montagna. Domani potrebbe cambiare idea. Ma è giusto, o necessario, che le preoccupazioni per il futuro ci paralizzino nel presente?». Più che altro, sarebbe quanto meno sensato che l'azione del presente non preparasse un futuro preoccupante, come accade a chiunque si mette al servizio di aspiranti uomini di potere.
Ma ci rendiamo conto che queste nostre considerazioni sono tremendamente inattuali, prendendo in considerazione significati cui più nessuno fa più caso. Analizzare e comprendere è insulso, bisogna scavar trincee. Ecco perché non si parla per dire qualcosa, ma per ottenere certi effetti. E nel mondo moderno l'effetto si crea con lo stordimento di immagini, mica con il ragionamento sulle idee. E talvolta nemmeno con il dispiegamento di violenza. Lo sa bene quel commissario di polizia indiano che ha spiegato involontariamente agli editori di Porfido il motivo della relativa quiete che regna sul fronte interno: «Gliel’ho detto al mio capo, richiamiamo le forze armate e mettiamo una televisione in tutte le case. Le cose si risolveranno da sole». Volete mettere il Grande Fratello con il dio Egbesu, o il campionato di calcio col presidente Mao, nel generare groupie

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In attesa dei nuovi partigiani, si potrebbe suggerire un nuovo libro per la collana "Ananas e kalashnikov" di Porfido: Jihad nel deserto, un'antologia (postuma) contenente i migliori discorsi di Osama Bin Laden (con dvd incluso, naturalmente). In fondo, mai nessuno è giunto a fare quel che ha fatto lui...

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