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giovedì 10 marzo 2011

Distruzione e linguaggio – di A. M. Bonanno

DA www.anarchaos.org

Tratto dalla registrazione su nastro delle quattro conversazioni autogestite tenute tra il 23/02 ed il 25/03/1996 da Alfredo Maria Bonanno presso la Facoltà di Sociologia dell’Università La Sapienza di Roma, dal titolo: “Dominio e rivolta nella società postindustriale. Esclusi e inclusi”. Pubblicata in “Dominio e rivolta”, Edizioni Anarchismo, Catania, dicembre 2000.
(…) La struttura del dominio, le condizioni dello scontro, la composizione della classe degli sfruttati, si sono talmente modificate da rendere assolutamente inconcepibile una operazione del genere “presa del Palazzo d’Inverno” nel senso marxista o una liberazione dal basso nel senso anarchico, operazioni antitetiche ma tutte e due grosso modo combacianti riguardo l’espropriazione dei mezzi di produzione e della consegna di questi mezzi di produzione ai rappresentanti della classe degli sfruttati che dovranno organizzare la società liberata. Allora cosa resta? Resta l’attacco distruttivo, questo è l’ultimo punto con cui vi voglio tediare stasera, ed è il punto più delicato. Quello più delicato perché non c’è volta che prendendo questo discorso della distruzione non emergano degli equivoci. Mi si chiede, ad esempio, ma che vuoi dire distruggere? Cosa vuoi dire abbattere un traliccio, quando ne restano in piedi centomila, forse un milione? Cosa significa?
Secondo me dovremmo fare un minimo di riflessione, un passo indietro. Dentro ognuno di noi abbiamo costruito una ipotesi positiva e una ipotesi negativa della realtà. Noi viviamo in un contesto che supponiamo reale (a meno che non accettiamo l’alternativa della farfalla e del sogno), che pensiamo reale e positivo, cioè corrispondente ad una dimensione costruttiva provvista di caratteristiche evolutive nel tempo, e questa evoluzione la definiamo storia. Dalle nebbie di un ipotetico negativo Medioevo siamo arrivati alla civiltà moderna. Adesso c’è la penicillina, la gente non muore più di peste e neanche di malaria, almeno dentro certi limiti, perché ci sono zone del globo in cui si muore ancora di malaria e di peste.
Quindi dentro di noi diamo una valenza positiva alla costruttività, perché siamo un’organizzazione (anche dal punto di vista biologico) e abbiamo paura della morte come concezione estrema della distruzione. Pensiamo che la nostra vita sia un accumularsi di positività, cresciamo, siamo bambini, acquisiamo una maggiore forza, diventiamo adulti, poi vecchi, poi la morte. Ma quest’ultima viene sempre relegata nel futuro, però nel corso di tutta la nostra vita vogliamo soltanto acquisire, almeno riconoscimenti se non proprietà immobiliari, in quanto essendo anarchici e rivoluzionari non ne possediamo. Però non vogliamo fare soltanto questo. Dal momento che consideriamo positiva la crescita, l’acquisizione, consideriamo positiva anche la quantità, cioè se noi sappiamo tre lingue ci consideriamo migliori di chi ne sa una o due. Non ci accorgiamo che dentro tutto questo c’è un’ipotesi funzionalista, un’ipotesi utilitarista, ci sono i residui di quel vecchio processo settecentesco, il quale pensava che perseguendo l’utilità del singolo individuo si ottiene un aumento di utilità complessiva per tutta l’umanità. Concetto quanto mai nefando, che ha determinato molte conseguenze negative. Cos’è accaduto in questo nostro considerare la quantità, la quantità di ogni giorno, come la qualità della nostra vita?



Noi abbiamo perduto Nel desiderio spasmodico di avere qualcosa da possedere, qualcosa per essere qualcuno, abbiamo perduto la qualità dell’essere qualcosa e non siamo più in grado di individuare questa nostra realtà, questo qualcosa per cui vale la pena di vivere.
Ecco perché la distruzione ci fa paura: primo, perché ci ricorda la morte e, se-condo, perché ci ricorda il rifiuto della funzionalità. Chi distrugge non è funzionale a nulla.
Non è affatto vero che abbattere un traliccio sia un danneggiamento reale degli interessi dell’Enel, almeno non è vero del tutto. Non c’è un’equazione del tipo: “Un traliccio in meno un danno maggiore per l’Enel”, una relazione assoluta del genere non esiste e chi intende provare questa equazione dice una stupidaggine. Che cosa allora ci fa paura nella distruzione? Ci fa paura qualcosa che è dentro di noi, non qualcosa che è fuori di noi. Noi riusciamo a capire attraverso la ragione la quantità, la crescita e l’acquisizione, riusciamo a capire attraverso la ragione la critica di tutto questo, quindi il pensiero debole che dicevo prima, l’incertezza, il dubbio, ecc. Non riusciamo a capire attraverso la ragione la distruzione perché per capire il concetto di distruzione, nella sua più radicale significatività, ognuno di noi dovrebbe avvertire un senso di ripulsione per la propria dignità offesa, per capire il senso della distruzione ognuno di noi dovrebbe coinvolgersi personalmente.
Noi non possiamo distruggere una cosa se non siamo disposti a distruggere noi stessi nel momento che distruggiamo quella cosa. Questo, secondo me, è il concetto di coinvolgimento nell’atto distruttivo. Noi possiamo separare l’atto acquisitivo, costruttivo da noi stessi, e dire: “Guarda, io possiedo una casa e una biblioteca di diecimila volumi”, ma non possiamo separare il concetto distruttivo da noi stessi, cioè noi possiamo illustrare con il linguaggio il concetto acquisitivo, la casa, i libri, la cultura, la crescita, le tre lingue da padroneggiare, ma non possiamo illustrare con il linguaggio il problema della distruzione, non possiamo farlo. Le mie parole non hanno senso, ecco perché piovono sulle vostre teste come prive di significato, perché non ha senso parlare della distruzione se non attraverso un altro tipo di linguaggio. Quest’altro tipo di linguaggio, a cui mi sto riferendo in questo momento, non è costituito soltanto di parole, ma di quella combinazione straordinariamente complessa che si realizza tra teoria e azione. La totalità di ognuno di noi, dei nostro essere uomini, l’essere profondo del nostro corpo e del nostro pensiero, è la simbiosi di teoria e azione, non soltanto il rischio ma anche il desiderio, il piacere, il gusto di vivere la propria vita pienamente, questo è un linguaggio diverso. E non è un linguaggio catalogabile in parole, in discussioni come quella che stiamo facendo questa sera, in quest’aula universitaria.





(…) La distruzione non è un pensiero metafisico. La distruzione consiste nell’andare in un posto e sfasciare una cosa, ma il processo che ci può consentire di realizzare questa azione è un processo che ci deve coinvolgere nella nostra totalità, totalità di uomini completi, di uomini e donne capaci di espri-mersi nella completezza, non nella separatezza che ci vuole distinguere da quello che abbiamo acquisito, da quello che sappiamo, da quello che possediamo, non in questa separazione perché in questa separazione domina il linguaggio delle parole, cioè un linguaggio dettato dalla razionalità di secoli di oppressione, insomma il linguaggio cartesiano, di chi ha costruito le carceri, le torture, l’Inquisizione, il linguaggio dei preti, il linguaggio dei francescani, dei domenicani che mandarono Giordano Bruno al rogo in Campo dei Fiori, mentre nella distruzione prevale un altro linguaggio, nella distruzione è necessario un altro linguaggio.
Nella distruzione affiora il linguaggio della gratuità, dello smembramento, il linguaggio del mito, cioè il linguaggio di Dioniso. Dioniso è il dio dell’estraneità, il dio che arriva nella notte come un ladro, che penetra dentro di noi. Dioniso è il dio delle donne, non il dio degli uomini, ecco perché a volte il concetto di distruzione è più comprensibile dalle donne che dagli uomini, i quali sono molto più paurosi delle donne.
Perché il concetto di distruzione si lega a Dioniso, il dio che penetrava nella notte come un ladro, il dio che non aveva luoghi di culto ma era lo straniero dovunque e dovunque entrava nel culto degli altri dèi? Perché il culto di Dioniso si basava essenzialmente sulla distruzione, anzi sullo sbranamento (sparagmós) del nemico. La preda veniva smembrata, spezzata, sfasciata, ed è questo il concetto effettivo di distruzione, in cui si vede il coinvolgimento dionisiaco nell’atto primordiale del distruggere radicalmente, nella radice più profonda, il nemico. Questo non ha nulla a che vedere con l’attacco quantitativo.
Stiamo per la prima volta per entrare in un ordine di problemi che resta differente, che non ha nulla a che vedere con la critica tradizionale del partito, del sindacato, ecc. Naturalmente quando si parla di distruzione, siccome è un territorio minato, in cui le obiezioni sono moltissime, si possono fare discussioni all’infinito, per questo motivo voglio concludere dicendo che il concetto di distruzione è esprimibile attraverso la totalità della persona che lo realizza nei fatti e nel momento che lo realizza nel fatto esso è teoria, possibilità di essere capiti dall’altro. Diversamente per il concetto costruttivo, il quale può essere separato da chi lo realizza e chi lo realizza può essere bravissimo a parlare di problemi relativi alla costruzione, ecc.
(…) Stasera, ultima nostra conversazione, ho voluto invece che si capisse bene che non c’è soltanto il linguaggio delle parole, come ognuno di noi lo sperimenta, ma anche altre possibilità di comunicare. Si può dire che ognuno di noi ha il suo proprio linguaggio. Per cui, quando si comprende cos’è la distruzione, quando si capisce che non si tratta soltanto di sfasciare un computer, quando si acquisisce la coscienza che questo aspetto è soltanto la parte ludica del problema, ma che c’è qualcosa d’altro di cui bisogna rendersi conto, qualcosa che ci coinvolge personalmente fino nella più profonda radice, e che questo ha la sua molla iniziale in quella parte di noi stessi che si richiama alla dignità ferita di cui siamo sicuramente coscienti perché altrimenti non saremmo qua, perché non saremmo nemmeno dei compagni, allora siamo di già in possesso del linguaggio distruttivo, possiamo dare inizio all’agire distruttivo.
Perché quando tu vedi un fascista ti fa schifo, te lo sei mai chiesto? È un uomo come te, come me, anzi certe volte sono fascisti dei bei ragazzi, delle belle ragazze, perché ti fanno schifo? Perché ti fa schifo il poliziotto? Per la loro pericolosità? Per quello che dicono? No. C’è una cosa che non si riesce a capire bene. Io quando mi trovo in galera la cosa peggiore che mi capita sotto gli occhi sono gli uomini in divisa, ecco perché mi chiudo la porta per non vederli, per non sentirli parlare. Possono anche dire cose intelligenti (fatto di per sé difficile), ma c’è in loro qualcosa di inesprimibile, qualcosa di non comprensibile, qualcosa che mi fa schifo.
Non manca anche, quando parlo del problema distruttivo, l’obiezione riguardante l’impossibilità di fare una distinzione tra il teppista che sfascia tutto e il rivoluzionario che attacca dopo un ragionamento ben preciso. Il problema sussiste e non è di facile identificazione. Non si può fissare una differenza “oggettiva” tra l’atto distruttivo rivoluzionario e l’atto del teppista, a rischio di andare incontro a grossissime difficoltà. Non possiamo cercare una differenza “oggettiva” che ci tranquillizzi una volta per tutte. Non possiamo dire che sfasciare la camionetta dei poliziotti o tagliare il traliccio siano atti rivoluzionari di per sé, mentre litigare nello stadio è un atto teppistico di per sé. Non è che la gratuità dell’atto sia un elemento risolutivo per quanto riguarda la distinzione tra teppismo e atto rivoluzionario, perché se fosse così ci sarebbe un’altra volta l’ipoteca della funzionalità, lo scopo da raggiungere occuperebbe tutto lo spazio del ragionamento. Se pensiamo che tagliando un traliccio dell’Enel mettiamo al tappeto il cuore dello Stato, siamo veramente fuori del mondo, anche se i tralicci dovessero essere centinaia. Non è la logica aritmetica che conta.
Importante è capire che la differenza c’è e va cercata nelle maturazioni indivi-duali delle persone che realizzano questi atti, in quello che esse avvertono, in quello che desiderano, e perfino in quello che riescono a progettare praticamente, trasformando il sogno in attività concreta.
Non c’è dubbio che nel teppista si trova, e contrasta, uno strano coacervo di sentimenti, c’è la gratuità del fatto, l’ignoranza, la sua incapacità di cogliere gli elementi determinanti la realtà che lo circonda, ma c’è anche un senso di ribellione. E non è detto che questa ribellione prevalga, perché nel teppista spesso prevale l’istinto gregario. Non è affatto vero che chi litiga allo stadio si scateni individualmente, quasi sempre è irreggimentato attraverso processi di intruppamento, finanziamenti ai vari club, attraverso le strutture di squadra, i simboli, le parole d’ordine, i brandelli di vecchie ideologie, ecc.
Il compagno che agisce attaccando una struttura del nemico, anche non volendo ricorrere alla possibile identificazione di un piano puramente “oggettivo”, parte da motivazioni differenti, da maturazioni sociali più articolate. Se, nell’ambito della dimensione individuale, il teppista non sa come passare la domenica in modo simpatico, il compagno invece coinvolge tutto se stesso nell’attacco di un obiettivo. Entrando nella dimensione distruttiva egli taglia con quella che è la tradizione costante del quantitativo, della crescita e della istituzionalizzazione della vita irreggimentata dagli altri, ecco la differenza.
La chiave della spiegazione secondo me va cercata in comportamenti che hanno una valenza soggettiva, senza che per questo tali comportamenti si debbano abbandonare all’atomicità, alla elementarità di singoli componenti senza coesione fra loro. Ed è evidente che abbiamo paura di partire da questo semplice elemento, abbiamo paura di ammettere possibile una motivazione individuale come punto di svolta, e abbiamo paura perché da centocinquanta anni ci hanno insegnato che non bisogna partire dal singolo ma dalla classe, dall’analisi oggettiva, dalla storia, dai meccanismi intrinseci all’interno della storia, da quello che si chiamava materialismo dialettico. Ancora non ci siamo liberati del tutto da questa eredità.

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