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giovedì 1 marzo 2012

Perchè mangiamo carne? L’analisi psicologica di Annamaria Manzoni


Annamaria Manzoni psicologa e psicoterapeuta collabora da anni con diverse associazioni animaliste, contribuendo con saggi e articoli inerenti le problematiche psicologiche del rapporto uomo-animali. Ha pubblicato vari libri tra cui: Noi abbiamo un sogno, Bompiani 2006, e In direzione contraria, Sonda 2009In questa intervista ospite di Eticamente in modo lucido e preciso riporta il suo pensiero e le sue conoscenze, cercando di riassumere le motivazioni che stanno alla base del mangiare carne.1- All’interno del suo libro (Noi abbiamo un sogno) vi è un’analisi psicologica illuminante riguardo le motivazioni che spingono le persone a mangiare carne: ce le può riassumere brevemente?Il discorso è articolato e complesso e poco adatto ad una sintesi che inevitabilmente  trascura elementi importanti. In ogni caso, focalizzando  il problema della violenza sugli animali non umani sul “mangiar carne”, si va diritti al cuore della questione perché grandissima parte di tale violenza non è agita da persone sadiche e  malvagie, ma è consentita e supportata da quelle “normali”, per bene, che con il proprio stile di vita, la propria alimentazione, il proprio modo di vestire sono la causa del martirio quotidiano di uno sconfinato numero di loro.
Se fare fronte e contrastare l’aggressività può essere compito complesso, ma per il quale nel corso del tempo sono stati approntati strumenti, frutto di molti approfondimenti sulla sua eziologia,  più complicato è occuparsi di  quella banalità del male, di cui il mangiar carne è chiaro esempio,  che proprio in quanto banale viene accettata nella sua pretesa normalità, senza nemmeno essere riconosciuta come male.
Da sottolineare quanto  la  psicologia sia ancora oggi omissiva al riguardo: le ragioni vanno ricercate, io credo, nel fatto che coloro che dovrebbero essere gli studiosi di questo fenomeno sono in genere essi stessi oggetto dello studio che dovrebbero condurre. In altri termini: gli psicologi, meglio: noi psicologi  siamo parte del problema esattamente come lo sono tutte le altre persone, quando non riconosciamo come prodotto di prepotenza e predominio il mangiare  gli animali, nonostante  il corollario di schiavizzazione e uccisione che ciò comporta,  non mettiamo  a fuoco  la situazione , non ci  rendiamo conto della tragedia quotidiana in atto, rispetto alla quale dovremmo sentirci chiamati a intervenire per cercare di decodificarla, dal momento che, per  formazione e professione,  possediamo , o dovremmo possedere, gli strumenti per farlo.
Per altro tutte le forme di violenza legittima intraspecifica, vale a dire all’interno della specie umana, (si pensi alla pena di morte, alle punizioni fisiche sui bambini…) sono davvero poco studiate, in se stesse e nelle loro conseguenze, se non in modo indiretto, come per esempio con l’interpretazione degli studi di Milgram sulla obbedienza distruttiva; esattamente  come succede per quanto riguarda la violenza legittima interspecifica, quella contro gli altri animali.
Di fatto sono molti i  meccanismi che consentono il perpetuarsi dell’attuale stato di cose, permettendo di non riconoscere il male, per legalizzato che sia, insito nel nostro rapporto con gli altri animali: si tratta di meccanismi di difesa inconsci, definiti di difesa proprio in quanto assolvono il compito di proteggerci dall’angoscia che potrebbe esplodere se la realtà in atto venisse riconosciuta. In primo luogo non si può prescindere dal nostro essere totalmente immersi in una cultura antropocentrica, per cui il concetto stesso di animale è svilito e identificato non con quello di essere vivente, sofferente e senziente, ma con quello di entità che è di fatto reificata, ridotta allo stato di cosa. Solo questa rappresentazione dell’animale permette per esempio che la gente possa tranquillamente accordarsi per “andare a mangiare il pesce”, oppure organizzi gioiose grigliate o celebri con soddisfazione piatti stagionali come lenticchie con zampone o polenta con  capriolo.
I termini sono scollegati dall’animale che sono,  le vittime indifese non sono neppure pensate, non vivono nemmeno nell’immaginario, non possiedono esistenza propria.
Si pensi a quell’immagine tanto spesso pubblicizzata, in cui la sagoma di una mucca è divisa in parti corrispondenti ad altrettanti “pezzi” destinati a variegati  trattamenti culinari: l’essenza stessa dell’animale è negata in favore della sua riduzione a cibo. Tradizioni filosofiche e  convincimenti religiosi teorizzano la liceità di tutto ciò: agli animali  non umani ancora oggi non è stata attribuito il possesso dell’anima, e questo basta alla scellerata giustificazione di ogni male contro di loro: per attribuirla alle donne sono state necessarie lunghissime riflessioni (da parte degli uomini), per gli schiavi è stato più complicato ancora.
La cinica osservazione che tenere categorie di esseri viventi in condizioni di inferiorità procura enormi vantaggi a chi detiene il potere non rende ottimisti sul tempo necessario a che una salutare rivisitazione del nostro rapporto con gli animali dia  loro la dignità che loro neghiamo, siano o meno contenitori di quell’anima che pare essere il salvacondotto per ogni attribuzione di dignità.
A questa imprescindibile cornice cognitiva, entro la quale ci poniamo come razza padrona di altre specie, si affiancano molte altre dinamiche. Un forte ruolo lo giocano la dittatura della consuetudine, la pervasività stessa del fenomeno che induce a delle non scelte: l’abitudine si riproduce e si propaga nelle nostre vite inducendoci a reiterare gesti e comportamenti senza che emerga il bisogno di interrogarci al proposito. E così  si continua a  mangiare ciò che si è sempre mangiato. E’ tra l’altro provato che, non solo dal punto di vista psicologico ma anche da quello fisiologico, esiste un adattamento positivo ai gusti e ai sapori  a cui da sempre siamo assuefatti: per rendersene conto, basta il confronto quotidiano con tanta variegata  immigrazione, che ci mostra come  le persone portino con sè dai loro paesi d’origine consuetudini alimentari,  da cui tendono a non staccarsi, non solo per proteggere un filo di continuità con un passato e un luogo pregno di affetti, ma perché i loro stessi sensi, il gusto, l’olfatto si sono programmati ad  apprezzarli.
Allo stesso modo staccarsi da una pratica alimentare in cui i prodotti di origine animale sono potentemente  presenti (e questa, nel mondo occidentale,  è la norma nell’educazione dei bambini) richiede una scelta a fronte della sua perpetuazione che procede “in automatico”, tanto più semplice perchè frutto di  inerzia. Quando nuove consapevolezze, a cui è davvero impossibile sottrarsi,  inducono a prendere atto della realtà di indicibile dolore che questo comporta, altri meccanismi arrivano in salvataggio dal rischio di sperimentare intollerabili sensi di colpa: il fatto che si tratti di un’abitudine del tutto condivisa, ubiquitaria, “normale” induce a non assumere il senso della propria  responsabilità, talmente  parcellizzata da risultare incorporea.
Per altro il percorso che porta la carne in tavola è facile da ignorare: non conservando traccia visibile e percepibile dell’animale da cui proviene,  la gran parte dei cibi cucinati facilita marcatamente i meccanismi salvifici di rimozione e di negazione:  il salame si è materializzato lì sul bancone del supermercato, il tonno è sempre stato nella scatoletta  e se un passato è riconosciuto al  pollo è al massimo quello del tempo trascorso  nel forno.
E così possono essere i bambini stessi, nel mondo pubblicitario, gli sponsor di questi “prodotti”, bambini che con tanta facilità sono indotti ad ignorare il dietro le quinte di tutto ciò, bambini rispetto ai quali gli adulti compiono dei veri disastri nel trasformare quella che è la loro naturale attrazione affettiva verso gli animali in quell’appiattimento sullo status quo, che passa dalla negazione del problema alla sua progressiva accettazione attraverso un processo di desensibilizzazione.
Non si può dimenticare come le società, le culture si preoccupino delle propria sopravvivenza  riproponendo valori sempre uguali a se stessi: l’educazione, la scuola trasmettono riferimenti che perpetuano l’esistente e  sostengono come valore quello dell’obbedienza, dell’adattamento alle norme.
Disobbedire, cambiare lo stato delle cose, ribaltare le abitudini, sconvolgere le convinzioni richiede invece la capacità di dare corso al proprio sentire anche quando questo segue direzione contraria al sentire dei più, richiede fiducia in sé stessi e nei propri pensieri, richiede il coraggio dell’essere contro.
Il pensiero divergente deve sempre difendersi dagli attacchi del conformismo, che si serve di innumerevoli strumenti per affermare se stesso: chiunque si occupi di difesa attiva degli altri animali , per esempio, ha inevitabilmente dovuto fare i conti con il “confronto vantaggioso”, si è in altri termini sentito obbligato a giustificarsi davanti all’accusa che ben altri sono i problemi del mondo che meritano dispiegamento di energie, le guerre e la fame, le donne violentate e i bambini sfruttati: ma l’ingiustizia in qualunque luogo è una minaccia per l’ingiustizia in qualunque altro luogo, diceva Martin Luther King in tempi in cui l’utopia sembrava essere ad un passo dalla realtà. E Che Guevara esortava ad essere sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia contro chiunque, in qualunque parte del mondo. Quei chiunque sono sempre e dovunque anche e soprattutto gli animali non umani, tanto disconosciuti come vittime; purtroppo, ed è amarissima considerazione , anche  chi della difesa dei deboli sembra fare ragione di vita oggi sembra ignorarlo.
Non va dimenticata poi la mistificazione della realtà, quella sorta di etichettamento eufemistico che ci parla di mucche felici (di vedersi sottratto il vitellino appena nato, che viene allontanato urlante e disperato), che ci mostra maialini danzanti (per essere stati evirati, amputati appena nati di denti e coda), che definisce la caccia “buona” (perché stermina a pallettoni animali in sovrappiù per il gioioso piacere di uomini – e donne!- in assetto di guerra), di macellazione umanitaria (ma gli ossimori sono per definizione termini incompatibili tra di loro): il mondo non sarebbe quel disastro che è se venissero usati termini corretti per descrivere la realtà, dice Tom Regan in “Gabbie vuote”. Purtroppo non chiediamo di meglio che sentirci rassicurati: così accettiamo con sollievo la mistificazione della realtà, la negazione di ciò che risulta insopportabile: bisognerebbe invece ricordare che , come dice il filosofo Galimberti, la negazione è la prima radice, la più profonda dell’immoralità collettiva: perché il rifiuto a riconoscere le grandi ingiustizie evita la reazione che potrebbe avere luogo se venissero riconosciute. Molti dei grandi massacri della storia non avrebbero forse potuto essere portati a termine se non fossero rimasti inerti coloro che avrebbero potuto intervenire.
Il  discorso  si complica con tante altre considerazioni che vanno a includere il tema della violenza che non può essere distinta a seconda di chi ne è l’oggetto: perché un link indissolubile, a livello sia di responsabilità che  di conseguente sofferenza, lega quella esercitata contro chiunque: uomini, donne, bambini, animali. Invece ci nutriamo di  affermazioni generali (“la  violenza è da rifiutare”) , i comandamenti sono assoluti (“non uccidere” ), ma poi è insito nelle convinzioni che gigantesche eccezioni possono serenamente essere elevate al rango di  norma: sui bambini la violenza, che è il vero nome delle punizioni fisiche,  è considerata ancora oggi  educativa anche in alcuni paesi del mondo occidentale, come se i bambini non fossero persone, i più deboli tra le persone; e uccidere gli animali non umani non è peccato.

2- Secondo lei è possibile cambiare questa mentalità “carnivora”? se si in che modo?
A questa domanda credo si possa rispondere solo richiamando il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo del cuore: la realtà è devastante e il compito di cambiarla ciclopico, perché,  diceva Saramago, premio Nobel per la letteratura, questo mondo è sbagliato, non imperfetto: sbagliato.
Quali siano i modi più utili per fare la propria parte nell’incidere sull’esistente è difficile stabilirlo; sono comunque tanti e ognuno di essi contiene la  possibilità di modificare lo stato di cose. E’ in circolazione in rete un filmato spagnolo, che mostra l’operatore di un reparto macelleria che, dopo avere offerto ai clienti assaggi di pasticci di carne, molto apprezzati, chiede loro se vogliano  la salsiccia fresca da cucinare e, al loro assenso,  si china a raccogliere da un cesta un maialino vivo, lì insieme ai suoi fratellini, che lui  infila in  una macchina tritacarne da cui escono salsicce già belle pronte. Si tratta, inutile dirlo, di finzione perché il maialino viene in realtà messo in salvo tra le braccia di una ragazza, ma ciò che vedono i clienti non lo lascia supporre: interessante la reazione dei clienti, che guardano quello che il macellaio va facendo dapprima stupiti poi costernati: cercano di fermarlo, lo coprono di insulti: nessuno accetta più di acquistare quello che prima era parso un prodotto prelibato.
Il filmato rende evidente l’ignoranza e la disinformazione che avvolgono  il mondo dello sfruttamento animale, inverosimile  in epoca di internet, ma reale: persino persone di ottima cultura, di  certo non escluse dall’accesso all’informazione, spesso si meravigliano  per esempio di venire a sapere  che il latte che bevono è quello  sottratto al vitello, quasi le mucche lo producessero in automatico, essendo “animali da latte”. Dato lo stato delle cose, sollevare il velo sulle nefandezze è necessario, come lo è una corretta controinformazione sulla percorribilità del veganesimo senza rischi per la salute.
Ma, al di là delle singole strategie,  il discorso vero  è quello della necessità di un rivolgimento esistenziale, filosofico, di pensiero che rimetta in gioco dalle fondamenta il nostro modo di essere: la cultura che può opporsi all’attuale stato di cose è la  cultura della solidarietà, dell’ empatia, della comprensione dell’altro, tutti valori che non possono fermarsi sul confine di specie, che è un confine fittizio, ma devono inglobare nel proprio orizzonte etico tutti gli esseri viventi.
Una cultura consapevole che le relazioni devono essere  costruite  sulla collaborazione e non sull’antagonismo, sulla cooperazione e non sulla prevaricazione. Una cultura che riesca a vedere gli animali non umani come, con le parole di Henry Beston “altri universi captati insieme a noi, nella rete della vita e del tempo; nostri compagni di prigionia nello splendore e nel travaglio di questa terra”.  E che si giochi sulla grande partita che ha inizio dall’educazione dei bambini, che deve essere prima di tutto educazione alla non violenza e  al rispetto, e si propaghi  poi in ogni piega della società in cui amplissimi mezzi per ingenerare il cambiamento di certo sono appannaggio di chi detiene il potere:  ma non potendo avere soverchie illusioni al proposito, dal momento che tanto spesso il medico è esso stesso parte della malattia, è necessario recuperare la consapevolezza della possibilità di ognuno di poter incidere in modo impensato sulla realtà.
Non bisogna dimenticare che “l’ingiustizia è negligenza individuale”, che sulla scena del crimine, oltre a  carnefice e vittima , c’è un terzo personaggio che è lo spettatore, da cui tanta parte del finale dipende. Allora è fondamentale, se spettatori siamo, non essere silenziosi, diventare noi il cambiamento, agire contro ogni infamia, recuperando il senso di vicinanza con tutte le forme di vita, anche attraverso la disubbidienza alle leggi degli uomini, nel rispetto di un’etica che arriva in luoghi pacificati, che tali leggi, oggi, non sanno nemmeno immaginare.

3- Psicologia e vegetarismo: quale delle due ha dato inizio al suo libro?
E’ stata la convinzione che gli altri animali, quelli non umani, non sono esclusi dall’interesse psicologico: vivono in numero enorme all’interno delle relazioni con la loro presenza, anche quando non riconosciuti perché ridotti a cibo: è inaccettabile relegarli, come facciamo con l’eccezione dei cosiddetti animali da compagnia,  allo stato di silenzio e di invisibilità. Se è vero che ogni esperienza incide su di noi, sul nostro modo di essere, modificando persino la nostra realtà cerebrale, è fondamentale prendere atto del ruolo degli altri animali nelle nostre vite, prendere atto di loro anche come  oggetti di studio, oltre che, e questo viene al primo posto, di stupita fascinazione, se solo si ha voglia  di guardarli nell’incredibile ricchezza delle loro vite
Per quanto mi riguarda, posso solo dire che da sempre conosco i nomi di Firpo, Ras, Laika, cani vissuti molto prima che io nascessi e che la memoria di mio padre mi ha consegnato con tanta dolcezza, negli aneddoti della sua infanzia molte  volte ripetuti,  da farli entrare nel mio mondo psichico : che di persone e di animali è popolato .
Fonte:   asinusnovus

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