da osservatoriorepressione
Era una prassi quel “trattamento” che prevedeva l’immersione nelle gelide acque del fiume Frassine. Un “trattamento” applicato in violazione di qualsiasi garanzia giuridica e sempre nei confronti di immigrati senza fissa dimora, persone considerate cittadini di “serie B” contro i quali tutto, o quasi, è consentito. Almeno sette i casi accertati di cui sono stati protagonisti, loro malgrado, tre stranieri, tutti nordafricani. Prima o poi qualcosa poteva andare storto. Così è stato: ci è scappato il morto.
E se anche l’esatta dinamica dell’”incidente” che ha portato al decesso il 24enne marocchino Abderrahman Salhi non verrà mai chiarita, resta il fatto che quella pratica di “memoria cilena” fu abusata per oltre un anno da due rappresentanti dell’Arma dei carabinieri di Montagnana nel silenzio generale di chi sapeva e ha scelto di stare zitto. Fu il ritrovamento del corpo senza vita di Salhi a far scattare l’indagine da parte del procuratore aggiunto di Padova, Matteo Stuccilli, con la collaborazione del pubblico ministero Roberto D’Angelo. E a provocare la scoperta di quanto messo in pratica da alcuni sottufficiali in servizio nella caserma di Montagnana. Nei giorni scorsi l’inchiesta è stata conclusa e la procura si prepara a sollecitare il processo per quattro carabinieri con una diversa declinazione delle singole responsabilità penali: il maresciallo capo Claudio Segata, 44 anni originario di Bolzano, e il carabiniere Giovanni Viola, 31 nato ad Avola (Siracusa), sono accusati di sequestro di persona e violenza privata continuati (con l’aggravante di aver commesso i fatti nella veste di pubblici ufficiali con abuso dei poteri e in violazione dei doveri relativi a una funzione pubblica) per sette episodi fra cui quello mortale; mentre l’appuntato scelto Daniele Berton, 44 anni originario di Legnago, con l’appuntato scelto Angelo Canazza, 42enne nativo di Monselice, sono chiamati a rispondere di aver omesso di denunciare all’autorità giudiziaria i reati commessi dai colleghi, nonostante fossero agenti di polizia giudiziaria ai quali incombeva l’obbligo del rapporto. I primi due sono difesi dall’avvocato Stefano Fratucello, gli ultimi dal collega Giuseppe Pavan.
È una brutta storia sulla quale la magistratura padovana ha voluto fare chiarezza fin dalla mattinata del 23 maggio dell’anno scorso quando un contadino di Borgo Frassine, alle porte di Montagnana, dà l’allarme notando un cadavere nel corso d’acqua. Si tratta di Abderrahman Salhi, un ragazzo che conoscevano in tanti. Spesso si ubriacava, qualche volta dava fastidio. Eppure non era un criminale, soltanto uno sbandato. Otto giorni prima, il 15 maggio, era stato notato alla Festa del prosciutto perché importunava dei passanti. Qualcuno aveva raccontato di averlo visto salire a bordo di una gazzella dei carabinieri, poi più nulla. L’autopsia, eseguita dal professor Massimo Montisci, accerta che il corpo, rimasto in acqua almeno una settimana, presentava segni nella parte frontale compatibili con una caduta. A tappeto vengono interrogate decine di persone.
Il quadro è allarmante: si scopre che fin dall’estate 2010 “il trattamento in acqua” viene messo a punto dai due carabinieri per ben due volte nei confronti di un extracomunitario noto come “Monaco” e altrettante nei confronti di un connazionale, “Fragolino”. Nel maggio 2011 “Fragolino” è di nuovo costretto a immergersi nel Frassine. Ad aprile tocca a Salhi che, il 15 maggio, è di nuovo obbligato a “rinfrescarsi”. Non si sa che cosa sia davvero accaduto quel giorno: forse i due militari si allontanano mentre Salhi è ancora in acqua. Ubriaco fradicio e senza forze, non risalirà più: muore per annegamento. Il procedimento penale per omicidio colposo è sulla strada dell’archiviazione.
fonte: il Mattino di Padova
vergogna...A.C.A.B.
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