Cizeta [Costantino Zonchello]
21 gennaio 1924
Nikolai Lenin è morto. La Russia è in lutto. Il piccolo mondo comunista, che guardava a lui come ad oracolo, ha messo le gramaglie.
Così la notizia ufficiale. Con le doverose posteriori informazioni sugli onori tributati all'uomo.
E sulla notizia ufficiale i commenti più disparati, le previsioni più cervellotiche. Come se dall'esistenza o dalla morte d'un uomo dipendono veramente l'avvenire, la prosperità o l'indigenza d'un gran popolo e del mondo.
Denigratori ed ammiratori han voluto vedere nell'uomo che dalla rivoluzione ha avuto tutti gli onori ufficiali la figura centrale, quasi la causa e la forza della rivoluzione stessa.
Per noi Nicolai Lenin rimane memorabile come uno dei più grandi politicanti che siansi mai affacciati nella storia ad imbrigliare e soffocare una rivoluzione; mentre è ancora da dimostrarsi che il suo partito abbia avuto una grande forza propulsiva nello scatenamento della rivolta che rovesciò Kerensky, è fuori discussione che seppe barcamenarsi, scroccare la simpatia ed al momento giusto sostituirsi al popolo nel grande scombussolamento della rapida svalorizzazione degli uomini rovesciati.
È la storia della rivoluzione russa!
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Si potrebbe, in una metafisica esercitazione, pensare una rivoluzione consapevole, fin dall'inizio, dei propri fini; e sarebbe la rivoluzione ideale contro cui si spezzerebbe ogni tentativo del passato e che fisserebbe subito i termini ed i modi della sua azione. La realtà ci offre invece una massa che, ad un momento critico della sua esistenza, acquista coscienza del suo malessere e, attraverso le convulsioni con cui si sforza di rimediarvi, finisce con l'intenderne le cause e distruggerle.
Le masse si muovono per il presente orribile, per il domani incerto. Un bisogno puramente materiale, un tozzo di pane meno avaro le fa muovere, e, dove manchino coscienza e forza di rivoluzionari, avanguardie e alfieri, basteranno a fermarle un pugno di farina, gli apologhi di Menenio Agrippa, le ipocrisie del Direttorio o la prepotenza del futuro console.
Tra gli orrori della guerra e i tradimenti dei cortigiani dilaga lo scandalo Rasputin, e l'aristocrazia – quella parte tenuta lontana dal potere – insorge armando il braccio d'un parente indignato. Scatenata la bufera, la stessa aristocrazia arcigna e superba, contro le mene di corte e delle sue creature, cerca il contatto con la borghesia. Arrivando, mediante questa sino al popolo, ma fermandosi alla discreta insurrezione dei moderati esclusi dalla benevola considerazione dello zar. Depongono insieme l'imperatore, ma ne offrono la successione ad un granduca. Ma, agendo, com'è naturale in tutte le rivoluzioni – che non sian di palazzo – più potentemente le forze di progresso, ai moderati si sovrappone la gente nuova, venuta su in giornata, spinta dalla risacca della popolarità impetuosa ed effimera ai primi posti; e in Russia si avanzano i Cadetti o i Liberali. E sacrificano, giacché il popolo è scatenato e non vuole accucciarsi, la monarchia, tanto più che non si trova un cane di sangue imperiale che ne assuma la responsabilità e ne affronti le torbide conseguenze. Arrivano sino ad accordarvi, in un compromesso politico, coi mensheviki, convenendo con questi la definitiva eliminazione della monarchia per una qualunque forma costituzionale di governo.
Contro i turbolenti, i rivoluzionari, gli anarchici, inaugurano la divisa di Danton, rovesciandola nelle applicazioni: la liberazione dei nemici interni, rappresentati dal popolo, anziché dagli aristocratici. Lenin è costretto a fuggire ed a nascondersi.
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Come in tutti i grandi movimenti di popolo, abbiamo anche per la rivoluzione russa due cause che si completano a vicenda: una, quella che si afferra immediatamente, ed è lo sfregamento del fiammifero sulla superficie aspra o la scintilla che si accende all'urto e dà fuoco alla paglia; l'altra, quella che prepara gli animi ed il combustibile. Nell'insurrezione della aristocrazia meno favorita contro lo zar, la prima; nel diffuso malcontento delle masse, la seconda.
La prima rappresenta le solite conseguenze dei soliti ripicchi e la diffidenza contro i Rasputin ciarlatani ed i Cagliostro di tutte le corti.
Della seconda diceva chiaramente Lenin:
«Il popolo russo sarà miserabile finché 629.000.000 di acri di terreno saranno posseduti da 500.000 famiglie soltanto. Esso non può sfuggire alla miseria finché 170.000.000 di acri appartengono a 50.000 famiglie, le quali non sfruttano né coltivano il loro terreno, ma, lungi dai loro latifondi, fanno la vita dei nobili e gavazzano nell’abbondanza sulla schiavitù del proletariato agrario. Il popolo russo rimarrà pezzente finché 1.500.000 su 10.000.000 di contadini possiederanno metà delle terre, metà del bestiame da lavoro e da sfruttamento e più che metà dei risparmi dei contadini; l’altra metà spettando all’aristocrazia che poltrisce e gode. A questi contadini privilegiati è permesso di divenire più e più ricchi, opprimendo la media e la minuta gente di campagna, rovinandola con l’usura e rendendola schiava del salario».
Su questo doloroso sfondo di miserie proletarie collocate le bastiglie di San Pietro e Paolo, le tundre della Siberia, gli aguzzini cosacchi, e troverete la causa profonda efficiente del rivolgimento russo.
In queste condizioni i pannicelli caldi di Kerensky e la prospettiva della continuazione della guerra non potevano non spingere il popolo più avanti; specialmente perché il regime zarista aveva avuto cura di preparare, con le stupide quanto feroci persecuzioni, le coscienze profondamente rivoluzionarie.
Nella mentalità di tutti i popoli è così radicato il pericolo delle invasioni che, spesso, ad ipnotizzarli e a intontirli, si provocano. Kerensky forzò l’offensiva di Brussiloff, pur sapendo che la disorganizzazione degli eserciti russi avrebbe facilitato l’offensiva del Kaiser. Occorrevano le impellenze della guerra a sviare le masse dal loro obiettivo principale.
Ma questo si affermava perché emergeva da una causa solida a conseguenze ineluttabili. E furono tosto i bolsheviki – che diventarono presto tutto il popolo russo – a fissare l’obiettivo, a non perderlo di mira e a farne oggetto di ogni forma di demolizione per un rimedio radicale.
Quale?
Lo disse Lenin, su cui, da questo momento si appuntano le speranze del popolo. E seppe fare, brigare e barcamenarsi da avere – in un primo periodo, quando l’offensiva tedesca invadeva la Russia ed i rivoluzionari eran tutti occupati a fronteggiare il nemico esterno – il nulla osta e il tacito consenso di tutti.
Si sostenga pure il contrario, ma l'offensiva tedesca determina la costituzione del nucleo minuscolo che andrà allargandosi sino a dominare gli sviluppi posteriori della rivoluzione, a farle dare macchina indietro, a farla passare dalle piazze nei gabinetti e a infrenarla poi definitivamente.
E se per opera dei rivoluzionari della piazza si ebbero eccidi di aristocratici, la rivoluzione ufficialmente rappresentata nei tribunali non lesinava l’indulgenza agli aristocratici stessi.
Doveva essere nell’implacabile esigenza delle cose e delle conquiste della rivoluzione ad evitare sanguinose riprese, a tagliare ogni possibilità di ritorno, lavare del passato le ultime vestigia. E nella storia il lavaggio è di sangue.
Ma la rivoluzione si presentava troppo anarchica. Mentre all’intorno marxisti della più pura sorgente meditavano l’affermazione ed il trionfo dello Stato e della centralizzazione, il trattato di Brest-Litovsk ne dà l’opportunità. Il partito che si auto-delega a rappresentare la rivoluzione vi fa la prima comparsa ufficiale, che tacitamente consentiva da un popolo in ebollizione, sarà la prima e più potente investitura per usurpare in seguito, con molto tatto politico e con grande saggezza guardinga, tutto il potere.
Alla distruzione completa del passato non pensavano i marxisti. Ohibò! Il caos può sprigionare forze completamente nuove a cui le leggi marxiste potevano essere d’ostacolo e perciò da rigettarsi. E qui entrano in campo i dottrinari, che hanno programmi fissi ben definiti e ben sviluppati anche nei particolari.
E allora l’ira rivoluzionaria di demolizione sarà bene infrenarla, conservare gli uomini e gli apparati del defunto organismo zarista per usarli e ristabilire con altro nome le stesse cose e gli stessi apparati; e se violenza e veemenza han da essere, siano contro gli estremisti della rivoluzione.
Una volta scroccata la fiducia delle masse, in un modo o nell’altro nel primo entusiasmo per gli uomini nuovi, bisogna consolidarla di gendarmi, rafforzarla con la legge. Che venne su, piano piano, più specialmente intenzionata a reprimere gli estremisti dei... malintenzionati.
Kolchiak, Yudenich, Denikine, Wrangel, inconsapevolmente rafforzano l'accentramento del potere nelle mani del partito comunista. E Nestor Makhno e le migliaia di anarchici, di sindacalisti, di socialisti rivoluzionari, passata la tempesta e i pericoli delle invasioni, a respingere le quali avevano dato il massimo contributo e della disfatta di certune furono gli artefici massimi, seppero ben presto della politica comunista propositi e carezze.
La Tcheka è qualche cosa di rinnovellato della vecchia polizia zarista. La possanza di questa vasta organizzazione di alguazili è tanto più larga in quanto pare si diletti di spiare anche le mosse degli stessi commissari del popolo, perché solo Nicolai Lenin n’era la mente direttrice alla quale si doveva ossequio e devozione assoluta.
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L’han chiamato lo zar rosso. E non a torto. Lo stato comunista russo, la cosiddetta dittatura del proletariato è l’ultima evoluzione e, come tale, la più perfetta in rapporto alle antecedenti dell’organismo statale. Vi si accoppia alla prepotenza degli uomini con l’inflessibilità delle premesse dottrinarie.
Chi volesse tacciare di malafede, di insincerità, di ipocrisia Lenin ed i suoi collaboratori risolverebbe puerilmente con un insulto ed un oltraggio alla verità una situazione complessa e sovratutto giudicherebbe con faciloneria bigotta e intollerante gli uomini.
Gli uomini, gli uomini di studio specialmente, hanno dogmatismi e ideali fissi da quanto i preti.
Osservatene qualcuno all’opera.
Giuseppe Mazzini. Chi più di lui amò la libertà e il benessere del popolo? O non fu lui, triumviro, ad inscrivere tra le idee della repubblica romana del 49 la nazionalizzazione della terra? O non fu lui a predicare la libertà, di cui non soffrì in se stesso minimamente e per cui sfidò persecuzioni ed ire dei tiranni? Eppure, di fronte ad un fatto di libertà, di dignità e di profonda trasformazione economica, sognata dai pochi socialisti e dal popolo parigino, come quella della Comune di Parigi, insorse con ferocia con accanimento superlativo, perché gli straccioni di Parigi minacciarono la sorgente repubblica dei Thiers, succeduta all’impero del piccolo Napoleone. E a Mazzini nessuno sogna di negare la buona fede, la sincerità, l’abnegazione. Ma aveva le sue linee programmatiche, in cima a cui stava dio con a fianco il popolo con la sua legge. Altrettanto di Nikolai Lenin. Abbeveratosi alle teorie di Marx, ubriacatosi delle idee politiche di stato e di governo, egli, ormai a capo d’una grande nazione, non poteva non attenersi ai suoi programmi.
Né mi si affaccino le sue promesse della prim’ora, e le sue comunicazioni spirituali del primo tempo con gli anarchici. Non dimentichiamo: l’uomo politico è duttile; ha la facoltà – e quanto in maggior grado tanto più grandi saranno i suoi successi – di uniformarsi al momento che corre e alle passioni delle maggioranze. Saper parlare il linguaggio caro alle masse, sempre solleticarle per averne l’appoggio quando l’appoggio è necessario, sminuzzare, allungare, diluire, o nascondere e attenuare un paragrafo del programma, è opera di tenace e perseverante inseguimento del successo. Per poi tornare rigidamente, inflessibilmente al proprio dogma e imporlo dall’alto con la forza, con la violenza. È lo Stato che trova la sua forma ultima e definitivamente di assetto per avviarsi agli argini sagaci della conservazione, quando non sia una vera e propria restaurazione.
Per diverse vie arrivati al potere, nel potere s’identificano e nei sistemi Lenin e Mussolini. Solo che questi serve ad una restaurazione ed è un venduto e l’altro sinceramente ha servito all’esperimento d’un nuovo partito al potere o a consolidargli le possibilità di governare e d’imporre le proprie idee ed i propri propositi.
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Della cosiddetta trasformazione economica, di cui, nel primo sviluppo della rivoluzione, si erano infarciti tutti i discorsi, non è il caso di parlare. Rimane una reminiscenza. La Russia va oggi in cerca di capitali esteri che si decidano a sfruttarne le varie risorse naturali e gli uomini validi. Per aver voluto tutto centralizzare, per non aver permesso che gli individui costituissero a proprio piacimento la nuova esistenza ed i nuovi rapporti, per creare l’uniformità monotona, lenta e impacciante oltreché logicamente ostile ad ogni più largo sviluppo, che da uomo a uomo, da borgo a borgo, da regione a regione, non ammette uguale e identica applicazione rigida e costante, la trasformazione economica sognata è caduta per opera degli stessi uomini che se n’erano fatti predicatori e antesignani.
Oggi il popolo russo geme e soffre delle stesse cause e delle stesse conseguenze che tutto il restante proletariato del mondo.
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Il prorompere delle speranze che salutarono la rivoluzione dell’ottobre del 1917 aspettava ben altra dimostrazione. Vero è che le stesse crisi delle nazioni europee riuscirono ad effetti diametralmente opposti a quelli desiderati. Sono le oscillazioni della vita, attraverso le quali l’uomo si educa, migliora e si prepara a nuovi slanci sul cammino faticoso dell’avvenire.
Lenin è morto! E il sole splende ancora sugli ozi e le gioie e le lussurie e le orge della beata gente che possiede, mentre par che irrida sempre, forse più ironico, alla miseria dei paria e dei reietti e alla loro palese impotenza. Perché non dalla volontà di pochi uomini chiusi in dottrine e in formule più o meno scientifiche (la scienza è, da quanto la religione, conservatrice quando non ne schianti le prigioni qualche soffio potente d’innovazione), anche quando questi uomini siano largamente dotati dalla natura e ben corazzati dagli studi (e Lenin fu di questi), ma dalla larga visione, dall’incontinenza, della incompostezza, dalla mobilità suprema degli animi anelanti al meglio, che si cerca, si scruta, si afferra solo attraverso le molteplici voci che si sprigionano dalle folle e dalle cose, dipende la nuova vita e la nuova società.
Lenin è morto! Lasciamo agli epigrafisti ed ai preti l’ode e l’inno, constatiamo e passiamo oltre, con lena, con energia, con vigore verso tutto l’uomo che non sa idoli né conosce adorazioni.
[da L'Adunata dei Refrattari, anno III, n. 5 del 2-2-1924]
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