da finimondo
Arthur Arnould
Ecco un titolo celebre: Stato e Rivoluzione.
Tutti sanno che “appartiene” a Lenin, il quale l'ha dato ad uno dei
suoi libri più importanti, quello in cui espone la teoria del marxismo
nel rapporto con lo Stato. Lenin scrisse quel libro nel 1917, basandosi
sulle tesi di Marx ed Engels per esprimere la volontà marxista di
spezzare la macchina statale allo scopo di provocarne il deperimento. Il
modello proclamato è quello della Comune di Parigi. La Comune è un
modello tanto più perfetto in quanto è ridotta al silenzio, ovvero
all'idea che ciascuno se ne fa. La si racconta, la si interpreta, la si
prende a riferimento, è diventata storia e mito; ma qual è il suo
pensiero diretto e vivo (perlomeno il pensiero diretto e vivo di buona
parte della Comune, quella libertaria)? Non v'è dubbio che sia ignorato.
La prova: un comunardo lo ha raccolto in un libro dalla scrittura
accessibile a tutti, e questo libro è sconosciuto. Cosa singolare, ecco
il suo titolo: Stato e Rivoluzione.
Questo Stato e Rivoluzione è stato scritto da Arthur Arnould ed è apparso nel 1877, ossia quarant'anni prima del libro di Lenin. Questo Stato e Rivoluzione è antistatale, e lo è a partire da una esperienza reale. Questo Stato e Rivoluzione sostiene la libera unione di collettività autonome e federate contro ogni centralismo autoritario.
Era necessario che
l'interpretazione marxista gettasse nell'oblio il libro di Arnould? È
probabile, ma lo Stato marxista fino ad ora non ha fatto deperire che la
propria ideologia. Nel suo Stato e Rivoluzione, Arthur Arnould
parla della società senza Stato voluta dai comunardi, e ne parla da
comunardo, ovvero da individuo che non ha subito alcuna influenza
marxista. Sia per Arnould che per Lenin, si tratta di "spezzare"
l'apparato dello Stato. Ma Arnould l'ha fatto assieme ai suoi compagni,
prima di essere sconfitto dalla repressione, mentre Lenin ha conquistato
l'apparato senza minimamente pensare di danneggiarlo. Arnould parla a
nome di una pratica; Lenin, a partire dalla pratica di un altro, elabora
una teoria che rappresenta la verità marxista, ma che, non contenta di
non essere mai stata realizzata, non ha cessato di essere tradita dai
suoi stessi sostenitori.
Quello che segue è un testo composto da alcuni stralci dell'opera, apparsi su due giornali anarchici all'inizio del Novecento.
Oggi non vi sono più questioni di nazionalità propriamente dette.
C’è la grande lotta della
Rivoluzione contro lo Stato, dell’avvenire contro il passato,
dell’uguaglianza contro il privilegio, del diritto contro la forza.
Questa lotta esiste — aperta o
latente presso tutti i popoli civili, qualunque sia la latitudine
geografica, qualunque sia la forma politica del governo: Impero,
Monarchia, Repubblica, Potere personale o Parlamentarismo…
Ciò che arresta e sterilizza
l’azione rivoluzionaria in Francia — è identico a ciò che l’arrestava
ieri l’altro in Italia, che la faceva abortire ieri in Spagna, che la
ritarda e domani la renderà impotente in Germania; è la teoria dello Stato — sia esso lo Stato Repubblicano o Monarchico, operaio o borghese.
Stato e Rivoluzione
sono due forze contraddittorie, incompatibili. Si tratta di uscire dalla
evoluzione politica i cui termini mettono capo al dispotismo in alto,
alla schiavitù in basso, per entrare sul terreno della evoluzione
sociale che ci darà la giustizia nell’eguaglianza e nella libertà!
Ma per entrare in questo
terreno della realizzazione anarchica, bisogna prima di tutto,
ripetiamolo, rovesciare le barriere che ce ne interdicono l’accesso — vale a dire abolire lo Stato e tutto l’organismo politico di cui esso è l’incarnazione suprema.
Quando si rammenta il detto di
Luigi XIV: lo Stato sono io, tutti i nostri liberali scattano
d'indignazione. Quando lo Stato moderno dice: la Francia, o l'Italia,
sono io — ed agisce di conseguenza — quale differenza ci vedete?
Ha ragione, voi gli avete dato tutto, egli è il più forte — egli può tutto — egli è tutto!
Mi risponderete voi: io sono
il popolo sovrano, io! — Tutte queste persone che mi governano, cioè mi
razionano la mia parte di libertà, d'esistenza, d'aria respirabile, che
ritagliano e limano nei miei diritti, che legiferano pro e contro tutto,
particolarmente contro di me, non detengono il loro potere che dalla
mia volontà!
— Hanno essi meno il potere?
— Sono io che li nomino!
— Siete voi meno governati?
— Ho la mia scheda, io li cambio!
— Cambia e migliora per questo la vostra condizione?
L'errore è di credere che cambiando l'investitura del Potere se ne cambi la natura.
Il re Bomba, parlando dei suoi
soldati, diceva: Vestiteli di verde, vestiteli di rosso, essi scappano
sempre davanti il nemico. È lo stesso del Potere. Che esso si eserciti
in nome del diritto divino e ereditario, o in nome della sovranità
popolare e del diritto elettivo, sarà sempre il Potere, e voi sarete
sempre la cosa inerte che si amministra, che si dirige, che si governa.
Ch'esso porti in fronte l'olio
santo della provvidenza, o la polvere delle barricate o la scheda — lo
Stato, rappresentato da un uomo o da un'Assemblea, non ha egli sempre le
stesse prerogative, la stessa onnipotenza? Dal momento che avete detto sì, con più o meno libertà morale o materiale, non appartenete voi a questo Potere che viene da voi, e che non è più vostro?
Se si dicesse a un condannato a
morte: «Se il boia non sarà più nominato dall'amministrazione, lo
eleggerai tu stesso, e prima di darti la morte dichiarerà che è in virtù
della tua propria sovranità ch'egli ti taglia il collo», credete voi
che la sorte del ghigliottinato ne sarebbe essenzialmente cambiata?
Ebbene, questa teoria è quella della sovranità delegata, quella di tutta la vecchia generazione rivoluzionaria e dei giovani neofiti che aspirano al Potere.
Niente illusione: mai lo
Stato, qualunque nome esso prenda, sarà veramente democratico, né manco
liberale — vale a dire, sottomesso alla volontà della nazione.
Come volete che colui che comanda... obbedisca?
Mai egli sarà né la libertà,
né l'uguaglianza, poiché egli è l'Autorità, per conseguenza il
privilegio, vale a dire il contrario della libertà e dell'uguaglianza.
Tutto il sistema dittatoriale,
autoritario, governativo — tre sinonimi — riposa su questa idea
insensata, che il popolo può essere rappresentato da altri anziché da se
stesso.
Nessuno può rappresentare il popolo, perché nessuno meglio di lui può conoscere i suoi bisogni, le sue volontà.
Si rappresentano degli interessi definiti, circoscritti, limitati — non si rappresenta un'astrazione.
Si rappresenta un comune, si rappresenta un gruppo economico, si rappresenta una corporazione — non si rappresenta il popolo.
Lo Stato non vi rappresenta dunque. Non rappresenta che se stesso. Ora voi e lui fate due, e due non faranno mai uno.
Che direste voi d'un uomo che, avendo una spina nel piede, pensasse di cambiare calzatura nella speranza di guarire?
La spina è lo Stato — i governi sono le calzature che si cambiano, — ecco tutto.
Proudhon, parlando della classe dirigente, dice nella sua Correspondance:
«È una casta ignorante, immorale, avida, senza principi, sempre pronta a
far man bassa sulla ricchezza pubblica, ed a sfruttare il povero
avvantaggiandosi non meno bene dell'imperatore, della Repubblica, della
Chiesa e del re». Così si è visto Thiers avvantaggiarsi della presidenza
della repubblica versagliese e si vedono i suoi uomini avvantaggiarsi
non meno bene della Repubblica monarchico-clericale che essi contano
reggere con i decreti dell'Impero.
Essi hanno un bel fare però,
il popolo comincia a comprendere anch'esso d'onde viene il male e a
spiegarsi perché tutte le sue vittorie di un giorno sono le disfatte di
vent'anni.
*
Un individuo mangia dei
funghi, e s'avvelena. Il medico gli dà un emetico e lo salva. Il guarito
corre subito dal suo cuoco e gli dice:
— I funghi di ieri alla salsa bianca mi hanno avvelenato! Domani li farai con salsa nera.
Il nostro individuo mangia i funghi con salsa nera. Secondo avvelenamento, seconda visita dal medico e seconda cura di emetico.
— Perbacco! dice egli al cuoco — non voglio più funghi con salsa nera né con salsa bianca. Domani li friggerai.
Terzo avvelenamento con accompagnamento di medico e d'emetico.
— Questa volta — esclamò il nostro uomo — non mi si beccherà più!...
— Mastro Giacomo, fate i funghi canditi.
I funghi canditi lo avvelenano di nuovo.
— Ma è un imbecille — direte voi — Ch'egli getti i funghi nell'immondezzaio e non ne mangi più.
Siate meno severi, ve ne
prego, perché questo imbecille siete voi, siamo noi, è l'umanità intera.
Sono ormai quattro o cinquemila anni che confezionate lo Stato — cioè
il Potere, l'autorità, il governo — in tutte le salse, che fate,
disfate, tagliate, limate, delle Costituzioni su tutti i padroni e che
l'avvelenamento continua.
Avete provato con i re
legittimi, con i re di fatto, con i governi parlamentari, con le
repubbliche unitarie e centralizzate, e la cosa che più vi danneggia, il
dispotismo, la dittatura di Stato, l'avete scrupolosamente rispettata
ed accuratamente conservata.
*
Lo Stato gridò un giorno
dall'alto della tribuna di Versailles, per l'organo sgarbato di S.E.
Dufaure, che «il governo non è per nulla tenuto a provvedere alla
felicità ed al benessere dei cittadini. La sua missione è di mantenere
l'ordine, di vegliare al rispetto ed all'applicazione della legge».
Nessuno oserebbe infatti
negare che lo Stato a questo duplice sacerdozio s'è votato con ardore:
al mantenimento dell'ordine esso provvede colla Nuova Caledonia e coi
bastioni di Satory; rispetta la legge dei colpi di Stato e quanto alle
altre esso le ignora o le applica secondo il suo capriccio: ringhia ai
repubblicani e scodinzola adulazioni di padri gesuiti.
Di tal guisa che il nostro
governo liberale, costituzionale e parlamentare, conquista di
ottant'anni di lotte gigantesche in nome del diritto, è lì lì per
disgradare l'assolutismo del Sultano dei Turchi, o dell'imperatore del
Marocco, o del re del Dahomey, colla franchezza in meno e con
quest'aggravante per giunta: che da noi i funzionari invece di vegliare —
colle scimitarre al fianco — sulle virtù delle odalische, vegliano
sulle pubbliche libertà, armati della polizia correzionale, sorretti ove
d'uopo dall'esercito.
Il governo non può dunque —
per sua stessa confessione — provvedere alla felicità ed al benessere
del popolo. D'altra parte la sua missione circoscrivendosi al
mantenimento dell'ordine — a decretare l'immobilità — ad assicurare il
rispetto alle leggi esistenti — ad ostacolare quindi ogni riforma —
emerge nel modo più semplice, più chiaro e più categorico che l'unica
funzione dello Stato consiste nell'impedire ai cittadini di conquistarsi
la felicità ed il benessere che d'altro canto esso riconosce —
ragionevolmente — di non saperci procurare.
Chi può opporsi infatti ad una riforma reclamata dall'interesse generale?
Gli interessati? È il colmo dell'assurdo.
È invece ben accertato che
quando i lavoratori si lagnano delle miserie inseparabili dalla loro
condizione di salariati e domandano, di conseguenza, la revisione delle
leggi che più li asserviscono al capitale, non sono questi stessi
lavoratori che, dopo aver chiesto la radicale abrogazione di determinate
disposizioni del Codice Civile, si opporranno a che siano riformate od
emendate.
Chi dunque grida ai salariati: Voi rimarrete salariati!
Chi dunque fucila i recalcitranti, i ribelli che — come i loro padroni ieri — lottano oggi per un avvenire migliore?
Chi? Il governo!
Il governo qualunque esso sia.
Ma no! dicono molti, sono i
capitalisti, i padroni, i borghesi, le classi dirigenti, il cui egoismo
ripugna a tutte le concessioni, i quali non sanno concepire la felicità
ed il benessere ove siano frutti del lavoro e patrimonio comune ma l'una
e l'altro vogliono opera del caso e dell'aggiotaggio e privilegio del
minor numero.
C'è senza dubbio del vero in
questa obiezione, ma è vero altresì che i capitalisti sono meno numerosi
dei lavoratori, i padroni meno numerosi degli operai, gli espropriatori
meno numerosi degli espropriati, i borghesi inferiori per numero ai
proletari della città e dei campi.
Come avviene dunque che in
tutti i conflitti tra gli uni e gli altri siano sempre i meno numerosi, i
più deboli che sopprimono i più numerosi, i più forti?
Come si spiega il miracolo?
Come avviene, qui, contrariamente a tutte le leggi della natura che il peso più leggero trascini seco i corpi più pesanti.
Non ci sono miracoli! C'è unicamente lo Stato.
Lo Stato che brandisce a due
mani la sua durlindana, disperde i ribelli e con un'arricciatina di
baffi passa la parola d'ordine ad un obliquo, ottuagenario procuratore
il quale dichiari che il governo non può nulla per la felicità e pel
benessere dei cittadini.
V'è qui tuttavia un piccolo
errore: esso può tutto per la felicità e pel benessere dei privilegaiti
di cui difende con violenza i privilegi, egli può tutto contro il
benessere della maggioranza di cui ribadisce colla violenza la schiavitù
secolare.
Buttarsi quindi soltanto
contro i privilegiati ed i borghesi, come il toro da corrida si slancia
contro il cencio rosso senza vedere l'espada che lo trafiggerà
sull'attimo, è cecità.
La malvagia volontà di lor
signori è evidente e certa ma capitalisti e privilegiati potrebbero da
soli ben poco né per sé, né contro di noi.
Sopprimiano la dittatura dello
Stato e non vi saranno di fronte che uomini eguali, che forze
economiche il cui equilibrio si stabilirebbe subito per semplice legge
di statica.
Da una parte il lavoro,
dall'altra il capitale reciprocamente necessari: e dovrebbero intendersi
sopra la base dell'equità perché il capitale non potendo parlar più col
moschetto dei gendarmi ed il lavoro essendo affrancato dalla minaccia
delle mitragliatrici le parti sarebbero eguali, dovrebbe quindi decidere
la forza reale che si trova attualmente dalla parte dei diseredati.
No! senza la dittatura dello
Stato — il quale non vive esso stesso che per la centralizzazione — né i
privilegiati né le classi superiori prevarrebbero contro il buon
diritto e le leggi logiche dell'economia sociale.
È dunque lo Stato, lo Stato
soltanto, che è causa della nostra debolezza e della nostra miseria come
è fonte della forza e della tracotanza degli altri.
Esso non può risolvere la
questione sociale a vantaggio del proletariato perché l'ha già risolta
in senso opposto, né ci permetterà mai di risolverla contro l'ordine di
cose che esso incarna perché ha da un lato la forza, dall'altro
l'obbligo di vegliare al mantenimento delle leggi esistenti, che esso ha
fatto e che costituiscono la sua arma potente.
Tale è lo Stato borghese, sussurra qualcuno, ben diverso sarebbe lo Stato operaio!
È quel che vedremo.
[Il grido della folla, anno II, n. 11 del 2 aprile 1903
Cronaca Sovversiva, anno I, n. 9 del 1 agosto 1903]
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