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martedì 13 settembre 2011

Stato e Rivoluzione

Arthur Arnould

Ecco un titolo celebre: Stato e Rivoluzione. Tutti sanno che “appartiene” a Lenin, il quale l'ha dato ad uno dei suoi libri più importanti, quello in cui espone la teoria del marxismo nel rapporto con lo Stato. Lenin scrisse quel libro nel 1917, basandosi sulle tesi di Marx ed Engels per esprimere la volontà marxista di spezzare la macchina statale allo scopo di provocarne il deperimento. Il modello proclamato è quello della Comune di Parigi. La Comune è un modello tanto più perfetto in quanto è ridotta al silenzio, ovvero all'idea che ciascuno se ne fa. La si racconta, la si interpreta, la si prende a riferimento, è diventata storia e mito; ma qual è il suo pensiero diretto e vivo (perlomeno il pensiero diretto e vivo di buona parte della Comune, quella libertaria)? Non v'è dubbio che sia ignorato. La prova: un comunardo lo ha raccolto in un libro dalla scrittura accessibile a tutti, e questo libro è sconosciuto. Cosa singolare, ecco il suo titolo: Stato e Rivoluzione.
Questo Stato e Rivoluzione è stato scritto da Arthur Arnould ed è apparso nel 1877, ossia quarant'anni prima del libro di Lenin. Questo Stato e Rivoluzione è antistatale, e lo è a partire da una esperienza reale. Questo Stato e Rivoluzione sostiene la libera unione di collettività autonome e federate contro ogni centralismo autoritario. 
Era necessario che l'interpretazione marxista gettasse nell'oblio il libro di Arnould? È probabile, ma lo Stato marxista fino ad ora non ha fatto deperire che la propria ideologia. Nel suo Stato e Rivoluzione, Arthur Arnould parla della società senza Stato voluta dai comunardi, e ne parla da comunardo, ovvero da individuo che non ha subito alcuna influenza marxista. Sia per Arnould che per Lenin, si tratta di "spezzare" l'apparato dello Stato. Ma Arnould l'ha fatto assieme ai suoi compagni, prima di essere sconfitto dalla repressione, mentre Lenin ha conquistato l'apparato senza minimamente pensare di danneggiarlo. Arnould parla a nome di una pratica; Lenin, a partire dalla pratica di un altro, elabora una teoria che rappresenta la verità marxista, ma che, non contenta di non essere mai stata realizzata, non ha cessato di essere tradita dai suoi stessi sostenitori. 
Quello che segue è un testo composto da alcuni stralci dell'opera, apparsi su due giornali anarchici all'inizio del Novecento.


Oggi non vi sono più questioni di nazionalità propriamente dette.
C’è la grande lotta della Rivoluzione contro lo Stato, dell’avvenire contro il passato, dell’uguaglianza contro il privilegio, del diritto contro la forza.
Questa lotta esiste — aperta o latente presso tutti i popoli civili, qualunque sia la latitudine geografica, qualunque sia la forma politica del governo: Impero, Monarchia, Repubblica, Potere personale o Parlamentarismo…
Ciò che arresta e sterilizza l’azione rivoluzionaria in Francia — è identico a ciò che l’arrestava ieri l’altro in Italia, che la faceva abortire ieri in Spagna, che la ritarda e domani la renderà impotente in Germania; è la teoria dello Stato — sia esso lo Stato Repubblicano o Monarchico, operaio o borghese.
Stato e Rivoluzione sono due forze contraddittorie, incompatibili. Si tratta di uscire dalla evoluzione politica i cui termini mettono capo al dispotismo in alto, alla schiavitù in basso, per entrare sul terreno della evoluzione sociale che ci darà la giustizia nell’eguaglianza e nella libertà!
Ma per entrare in questo terreno della realizzazione anarchica, bisogna prima di tutto, ripetiamolo, rovesciare le barriere che ce ne interdicono l’accesso — vale a dire abolire lo Stato e tutto l’organismo politico di cui esso è l’incarnazione suprema.
Quando si rammenta il detto di Luigi XIV: lo Stato sono io, tutti i nostri liberali scattano d'indignazione. Quando lo Stato moderno dice: la Francia, o l'Italia, sono io — ed agisce di conseguenza — quale differenza ci vedete?
Ha ragione, voi gli avete dato tutto, egli è il più forte — egli può tutto — egli è tutto!
Mi risponderete voi: io sono il popolo sovrano, io! — Tutte queste persone che mi governano, cioè mi razionano la mia parte di libertà, d'esistenza, d'aria respirabile, che ritagliano e limano nei miei diritti, che legiferano pro e contro tutto, particolarmente contro di me, non detengono il loro potere che dalla mia volontà!
— Hanno essi meno il potere?
— Sono io che li nomino!
— Siete voi meno governati?
— Ho la mia scheda, io li cambio!
— Cambia e migliora per questo la vostra condizione?
L'errore è di credere che cambiando l'investitura del Potere se ne cambi la natura.
Il re Bomba, parlando dei suoi soldati, diceva: Vestiteli di verde, vestiteli di rosso, essi scappano sempre davanti il nemico. È lo stesso del Potere. Che esso si eserciti in nome del diritto divino e ereditario, o in nome della sovranità popolare e del diritto elettivo, sarà sempre il Potere, e voi sarete sempre la cosa inerte che si amministra, che si dirige, che si governa.
Ch'esso porti in fronte l'olio santo della provvidenza, o la polvere delle barricate o la scheda — lo Stato, rappresentato da un uomo o da un'Assemblea, non ha egli sempre le stesse prerogative, la stessa onnipotenza? Dal momento che avete detto , con più o meno libertà morale o materiale, non appartenete voi a questo Potere che viene da voi, e che non è più vostro?
Se si dicesse a un condannato a morte: «Se il boia non sarà più nominato dall'amministrazione, lo eleggerai tu stesso, e prima di darti la morte dichiarerà che è in virtù della tua propria sovranità ch'egli ti taglia il collo», credete voi che la sorte del ghigliottinato ne sarebbe essenzialmente cambiata?
Ebbene, questa teoria è quella della sovranità delegata, quella di tutta la vecchia generazione rivoluzionaria e dei giovani neofiti che aspirano al Potere.
Niente illusione: mai lo Stato, qualunque nome esso prenda, sarà veramente democratico, né manco liberale — vale a dire, sottomesso alla volontà della nazione.
Come volete che colui che comanda... obbedisca?
Mai egli sarà né la libertà, né l'uguaglianza, poiché egli è l'Autorità, per conseguenza il privilegio, vale a dire il contrario della libertà e dell'uguaglianza.
Tutto il sistema dittatoriale, autoritario, governativo — tre sinonimi — riposa su questa idea insensata, che il popolo può essere rappresentato da altri anziché da se stesso.
Nessuno può rappresentare il popolo, perché nessuno meglio di lui può conoscere i suoi bisogni, le sue volontà.
Si rappresentano degli interessi definiti, circoscritti, limitati — non si rappresenta un'astrazione.
Si rappresenta un comune, si rappresenta un gruppo economico, si rappresenta una corporazione — non si rappresenta il popolo.
Lo Stato non vi rappresenta dunque. Non rappresenta che se stesso. Ora voi e lui fate due, e due non faranno mai uno.
Che direste voi d'un uomo che, avendo una spina nel piede, pensasse di cambiare calzatura nella speranza di guarire?
La spina è lo Stato — i governi sono le calzature che si cambiano, — ecco tutto.
Proudhon, parlando della classe dirigente, dice nella sua Correspondance: «È una casta ignorante, immorale, avida, senza principi, sempre pronta a far man bassa sulla ricchezza pubblica, ed a sfruttare il povero avvantaggiandosi non meno bene dell'imperatore, della Repubblica, della Chiesa e del re». Così si è visto Thiers avvantaggiarsi della presidenza della repubblica versagliese e si vedono i suoi uomini avvantaggiarsi non meno bene della Repubblica monarchico-clericale che essi contano reggere con i decreti dell'Impero.
Essi hanno un bel fare però, il popolo comincia a comprendere anch'esso d'onde viene il male e a spiegarsi perché tutte le sue vittorie di un giorno sono le disfatte di vent'anni.

*

Un individuo mangia dei funghi, e s'avvelena. Il medico gli dà un emetico e lo salva. Il guarito corre subito dal suo cuoco e gli dice:
— I funghi di ieri alla salsa bianca mi hanno avvelenato! Domani li farai con salsa nera.
Il nostro individuo mangia i funghi con salsa nera. Secondo avvelenamento, seconda visita dal medico e seconda cura di emetico.
— Perbacco! dice egli al cuoco — non voglio più funghi con salsa nera né con salsa bianca. Domani li friggerai.
Terzo avvelenamento con accompagnamento di medico e d'emetico.
— Questa volta — esclamò il nostro uomo — non mi si beccherà più!...
— Mastro Giacomo, fate i funghi canditi.
I funghi canditi lo avvelenano di nuovo.
— Ma è un imbecille — direte voi — Ch'egli getti i funghi nell'immondezzaio e non ne mangi più.
Siate meno severi, ve ne prego, perché questo imbecille siete voi, siamo noi, è l'umanità intera. Sono ormai quattro o cinquemila anni che confezionate lo Stato — cioè il Potere, l'autorità, il governo — in tutte le salse, che fate, disfate, tagliate, limate, delle Costituzioni su tutti i padroni e che l'avvelenamento continua.
Avete provato con i re legittimi, con i re di fatto, con i governi parlamentari, con le repubbliche unitarie e centralizzate, e la cosa che più vi danneggia, il dispotismo, la dittatura di Stato, l'avete scrupolosamente rispettata ed accuratamente conservata.

*

Lo Stato gridò un giorno dall'alto della tribuna di Versailles, per l'organo sgarbato di S.E. Dufaure, che «il governo non è per nulla tenuto a provvedere alla felicità ed al benessere dei cittadini. La sua missione è di mantenere l'ordine, di vegliare al rispetto ed all'applicazione della legge».
Nessuno oserebbe infatti negare che lo Stato a questo duplice sacerdozio s'è votato con ardore: al mantenimento dell'ordine esso provvede colla Nuova Caledonia e coi bastioni di Satory; rispetta la legge dei colpi di Stato e quanto alle altre esso le ignora o le applica secondo il suo capriccio: ringhia ai repubblicani e scodinzola adulazioni di padri gesuiti.
Di tal guisa che il nostro governo liberale, costituzionale e parlamentare, conquista di ottant'anni di lotte gigantesche in nome del diritto, è lì lì per disgradare l'assolutismo del Sultano dei Turchi, o dell'imperatore del Marocco, o del re del Dahomey, colla franchezza in meno e con quest'aggravante per giunta: che da noi i funzionari invece di vegliare — colle scimitarre al fianco — sulle virtù delle odalische, vegliano sulle pubbliche libertà, armati della polizia correzionale, sorretti ove d'uopo dall'esercito.
Il governo non può dunque — per sua stessa confessione — provvedere alla felicità ed al benessere del popolo. D'altra parte la sua missione circoscrivendosi al mantenimento dell'ordine — a decretare l'immobilità — ad assicurare il rispetto alle leggi esistenti — ad ostacolare quindi ogni riforma — emerge nel modo più semplice, più chiaro e più categorico che l'unica funzione dello Stato consiste nell'impedire ai cittadini di conquistarsi la felicità ed il benessere che d'altro canto esso riconosce — ragionevolmente — di non saperci procurare.
Chi può opporsi infatti ad una riforma reclamata dall'interesse generale?
Gli interessati? È il colmo dell'assurdo.
È invece ben accertato che quando i lavoratori si lagnano delle miserie inseparabili dalla loro condizione di salariati e domandano, di conseguenza, la revisione delle leggi che più li asserviscono al capitale, non sono questi stessi lavoratori che, dopo aver chiesto la radicale abrogazione di determinate disposizioni del Codice Civile, si opporranno a che siano riformate od emendate.
Chi dunque grida ai salariati: Voi rimarrete salariati!
Chi dunque fucila i recalcitranti, i ribelli che — come i loro padroni ieri — lottano oggi per un avvenire migliore?
Chi? Il governo!
Il governo qualunque esso sia.
Ma no! dicono molti, sono i capitalisti, i padroni, i borghesi, le classi dirigenti, il cui egoismo ripugna a tutte le concessioni, i quali non sanno concepire la felicità ed il benessere ove siano frutti del lavoro e patrimonio comune ma l'una e l'altro vogliono opera del caso e dell'aggiotaggio e privilegio del minor numero.
C'è senza dubbio del vero in questa obiezione, ma è vero altresì che i capitalisti sono meno numerosi dei lavoratori, i padroni meno numerosi degli operai, gli espropriatori meno numerosi degli espropriati, i borghesi inferiori per numero ai proletari della città e dei campi.
Come avviene dunque che in tutti i conflitti tra gli uni e gli altri siano sempre i meno numerosi, i più deboli che sopprimono i più numerosi, i più forti?
Come si spiega il miracolo?
Come avviene, qui, contrariamente a tutte le leggi della natura che il peso più leggero trascini seco i corpi più pesanti.
Non ci sono miracoli! C'è unicamente lo Stato.
Lo Stato che brandisce a due mani la sua durlindana, disperde i ribelli e con un'arricciatina di baffi passa la parola d'ordine ad un obliquo, ottuagenario procuratore il quale dichiari che il governo non può nulla per la felicità e pel benessere dei cittadini.
V'è qui tuttavia un piccolo errore: esso può tutto per la felicità e pel benessere dei privilegaiti di cui difende con violenza i privilegi, egli può tutto contro il benessere della maggioranza di cui ribadisce colla violenza la schiavitù secolare.
Buttarsi quindi soltanto contro i privilegiati ed i borghesi, come il toro da corrida si slancia contro il cencio rosso senza vedere l'espada che lo trafiggerà sull'attimo, è cecità.
La malvagia volontà di lor signori è evidente e certa ma capitalisti e privilegiati potrebbero da soli ben poco né per sé, né contro di noi.
Sopprimiano la dittatura dello Stato e non vi saranno di fronte che uomini eguali, che forze economiche il cui equilibrio si stabilirebbe subito per semplice legge di statica.
Da una parte il lavoro, dall'altra il capitale reciprocamente necessari: e dovrebbero intendersi sopra la base dell'equità perché il capitale non potendo parlar più col moschetto dei gendarmi ed il lavoro essendo affrancato dalla minaccia delle mitragliatrici le parti sarebbero eguali, dovrebbe quindi decidere la forza reale che si trova attualmente dalla parte dei diseredati.
No! senza la dittatura dello Stato — il quale non vive esso stesso che per la centralizzazione — né i privilegiati né le classi superiori prevarrebbero contro il buon diritto e le leggi logiche dell'economia sociale.
È dunque lo Stato, lo Stato soltanto, che è causa della nostra debolezza e della nostra miseria come è fonte della forza e della tracotanza degli altri.
Esso non può risolvere la questione sociale a vantaggio del proletariato perché l'ha già risolta in senso opposto, né ci permetterà mai di risolverla contro l'ordine di cose che esso incarna perché ha da un lato la forza, dall'altro l'obbligo di vegliare al mantenimento delle leggi esistenti, che esso ha fatto e che costituiscono la sua arma potente.
Tale è lo Stato borghese, sussurra qualcuno, ben diverso sarebbe lo Stato operaio!
È quel che vedremo.


[Il grido della folla, anno II, n. 11 del 2 aprile 1903
Cronaca Sovversiva, anno I, n. 9 del 1 agosto 1903]

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