Il Re è tornato. L’avevamo lasciato “ramingo” vincitore
nel fosso di Helm e lo ritroviamo “blasonato” e “armato” dalla spada
dei re (Narsil), ri-forgiata dalla sapienza di Elrond, nell’ultima epica
battaglia contro l’Oscuro Signore di Mordor. “Ritornato” e ritrovato
Aragorn al trono di Gondor, l’ultimo “libro” del ring tolkieniano,
riprende, insieme, trame e destini sospesi all’ombra de Le due torri:
soccorrendo Frodo, rivelando Sam, consumando Gollum, confermando eroi,
ricomponendo La Compagnia dell’anello. A tornare, anche e naturalmente è
l’anello, peccato originale all’inizio del mondo, al principio della
Terra di mezzo governata da una quiete ancestrale scossa da una
“sottrazione”. Terzo “momento” cinematografico di quella che non senza
errore viene definita “trilogia”, dal momento che il suo creatore
letterario la pensò e formalizzò come opera integrale, licenza concessa
al cinema di Peter Jackson, davvero “in stato di grazia” nel concepire
il più incredibile degli epiloghi, nel liberare un lungo respiro epico.
Cinepico originale e “assoluto”, il suo, da perdonargli
l’incomprensibile “perdita” (alla scena) dello scellerato e bianchissimo
Saruman, “angelo” perduto al bene e colpito da insana “autonomia
metafisica” che tanta parte ancora trovava nelle milleduecentoventisei
pagine che, nel libro, separano la Contea dal Monte Fato.
Perdonato, anche e perché sullo schermo le creature di Tolkien vengono
“tradite” per essere garantite nella loro integrità dentro un tempo più
prossimo al nostro. Emancipate dalla sola dimensione fantastica per
rivelarne la piena complessità relazionale-affettiva: dentro
quest’ottica, non ce ne vogliano gli ortodossi tolkieniani e
“sentimentali”, la storia d’amore più bella resta quella tra Frodo e
Sam, affrancata in qualche modo dalla relazione “ufficiale-sottoposto”
(legittima e tutta dentro la tradizione letteraria e culturale
anglosassone), e sigillata da uno sguardo che è un bacio, il “bacio” di
Sam al portatore “mutilato” e risvegliato a Gondor. Epicità e lirismo,
allora, espugnano e governano Minas Tirith. Perché dentro lo
“svolgimento obiettivo” dei fatti, dentro l’oggettivo manifestarsi di
forze etiche in conflitto, dentro all’iperbolica estrinsecazione del
reale convive il soggettivo lirismo dei personaggi che finiscono per
conferire alle loro azioni e alle loro scelte una concentrazione di
significati direttamente riconducibili al conflitto tra tali forze. Due
anni di pre-produzione, 274 giorni di riprese, tre anni di
post-produzione hanno guadagnato per sempre allo schermo l’epica lirica
del ring, la sua geografia fantastica, la lingua bucolica degli hobbit,
quella antica degli elfi, quella formale e rigorosa degli uomini. A noi
spettatori/portatori, non rimane che “raccoglierlo” e consumarci nella
“visione”.
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