DA finimondo
L’Insomniaque
L’occhio del padrone
La prigione moderna prende sempre di più a prestito dalle «norme di
vita» della società civile. Lavoro salariato e tempo libero, sport e,
da poco, parlatori «coniugali» si sono installati durevolmente nel
microcosmo penitenziario, come altrettante carote di cui fa uso
l’amministrazione — d’altronde sempre pronta a brandire il suo duro
bastone: torrette d’osservazione, manganelli, galera.
Dietro l’apparenza di considerazioni umanitarie, i carcerieri
intendono soprattutto raffinare i metodi di controllo negli edifici che
«gestiscono», pianificando in tal modo le condizioni di sopravvivenza
dei carcerati. L’esempio della generalizzazione dei televisori nelle
celle a metà degli anni 80 è a questo proposito particolarmente
eloquente. Il dilagare di immagini ipnotiche ed il rumore (babele
mediatica, canzonette inette, telefilm indistinti quanto edificanti,
giochi non ludici, tonitruanti elogi della merce) che produce il
televisore hanno rivelato di rimediare in qualche modo ai potenziali
inconvenienti di questi strumenti della comunicazione, che è stata a
lungo l’ossessione viscerale dei carcerieri così come dei governanti.
Ora anche i più ottusi fra i secondini hanno finito col capire i
vantaggi nel servire la vinaccia della propaganda mercantile in guisa di
nettare della comunicazione. Ai giorni nostri, chi può ancora
ignorarlo? il silenzio delle pantofole è un garante dell’ordine più
sicuro del rumore degli stivali...
Ma se la prigione è sempre di più la parodia della società, è
perché in un inquietante movimento convergente la società — nel suo
spazio pubblico come nei suoi luoghi privati — assomiglia ormai così
tanto ad una vasta prigione da trarre in inganno: magazzini sotto alta
sorveglianza, alloggi di tipo cellulare nelle città operaie,
videosorveglianza delle strade, pattuglie di sbirri della stessa risma
che suddividono i quartieri, spionaggio discreto o palese delle “risorse
umane” da parte dei gestori, e più in generale la disumanizzazione
utilitarista delle condizioni d’esistenza che tanto ha imparato
perfezionando i regimi carcerari — ed il cui segreto come il metodo
operativo sono la paranoia.
L’architettura carceraria è una cristallizzazione caratteristica e
centrale di quel delirio morboso che moltiplica gli ostacoli alla vita e
le separazioni tra viventi: le prigioni moderne sono state spesso
concepite da architetti “sociali” e integrate nel deserto di cemento
delle periferie da urbanisti alquanto polizieschi. Il principio del panopticon,
immaginato, come d’uso delle prigioni del XVIII secolo, da razionalisti
borghesi, si è anzitutto esteso alle fabbriche prima di contaminare lo
spazio pubblico e poi l’habitat. L’occhio del padrone — sia questo
datore di lavoro o governo — esige da lunga data di essere ovunque
e l’intrusione generalizzata delle tecnologie digitali gliene offre
attualmente la possibilità, mentre l’apatia affetta da amnesia degli
schiavi favorisce come mai prima i diversi progetti di addomesticazione
assoluta.
L’invenzione della giustizia, della polizia e della prigione
moderna nel secolo dei «lumi» non aveva come solo motivo la
razionalizzazione del trattamento delle deviazioni sociali e dei metodi
di coercizione. I suoi ideatori intendevano, con Bentham, disegnare un
modello di spazio-tempo proprio alla dittatura democratica dell’economia
fornendo allo Stato una potente arma contro i refrattari al paradiso
mercantile — uno strumento di Diritto, questa mediazione tra ricchi e
poveri che rende perenne l’ineguaglianza sociale. Non si trattava tanto,
per i potenti, di farsi temere — castigare e dissuadere — quanto di
stabilire delle strutture integrative dei poveri nel mondo del lavoro
alienato e di assicurare la loro abnegazione.
I grandi regimi totalitari del XX secolo, avendo preso il potere
per gestire con mano di ferro la crisi in cui si trovava il capitalismo
prima della guerra, hanno naturalmente spinto questa logica di
Stato-penitenza e di società-prigione fino al terrore assoluto: la
carcerazione di massa e la sbirraggine generalizzata. I loro dirigenti, i
quali si ispirano alle potenze coloniali «illuminate» che avevano
immaginato le forme moderne della deportazione del secolo precedente, si
distinguono innanzitutto per la delirante esacerbazione del loro
spirito poliziesco.
Attualmente si assiste a una deriva paragonabile nelle così
virtuose democrazie occidentali, a cominciare dalla più ricca e libera,
la più potente e la più esemplare fra di esse: gli Stati Uniti, dove i
tassi di imprigionamento sono sul punto di superare quelli della Russia,
a lungo campione incontestato in materia di repressione di massa. È
nella patria di Jefferson e Lincoln che imperversano i promotori
puritani e populisti della «tolleranza zero» per i «delitti-prototipo» —
nella patria di Montesquieu, alcuni parlano più volentieri di
«inciviltà» — il cui ventaglio è infinito, e tutto ciò che può turbare
le diverse visioni dell’ordine che hanno qui e là i padroni: così la
fellatio (proibita in Alabama e in altri Stati della Bible Belt)
o i graffiti (a New York) — aspettando (entro breve) la repressione
penale delle bestemmie o delle tenute scollacciate. È con l’adozione di
tali criteri e di una tale volontà di severità (specialmente di fronte
alla diabolica «recidiva») che le prigioni americane hanno visto la loro
popolazione moltiplicata per sei nel giro di vent’anni. Nella stessa
logica esponenziale ed oltre questi due milioni di detenuti, otto
milioni di americani sono oggi sotto controllo giudiziario, fra cui
numerosi «volontari» portano «braccialetti» inamovibili che permettono
la sorveglianza a distanza.
Fra parentesi, non c’è alcuna differenza fra il «guinzaglio
elettronico» che è costituito dal telefonino portatile dell’impiegato
medio non delinquente e le «manette elettroniche» di chi si è lasciato
sedurre — si può trattare dello stesso individuo, del resto, poiché la
poco costosa posa del bracciale negli Stati Uniti sanziona fin da ora
degli infra-delitti come il non pagamento degli assegni alimentari o
certe infrazioni al codice stradale...
Il trionfo dello «Stato di diritto» si riassume interamente nelle
cifre del vertiginoso aumento del numero di detenuti in occidente — lo
sradicamento del pauperismo attraverso la «purificazione sociale» (a
connotazione fortemente etnica) dello spazio pubblico — e nella
crescente raffinatezza delle tecniche di imprigionamento. Proprio come
l’idea che ci si può fare della «felicità» dei consumatori è
ammirevolmente caratterizzata dalle decine di milioni di utenti della
«camicia chimica» e tutti gli altri forsennati dell’illusione tariffata.
La differenza con la barbarie stalino-nazista è dunque soprattutto
qualitativa: questo sterminio ammassa ai margini della società i cattivi
soggetti e i mendicanti come poc’anzi si disponeva, più brutalmente e
più grossolanamente, degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali o
degli oppositori politici. Inoltre, questa liquidazione sociale è giusta
perché è redditizia. E per chi aderisce alla logica del capitale, tutto
ciò che è redditizio è giusto.
D’altronde la vera molla di questa «catastrofe umanitaria»
largamente occultata non è soltanto la folle diffidenza dei porci che si
abbuffano il pianeta sotto la bandiera della libertà di commercio; alla
guisa dei regimi hitleriani o stalinisti generati dalla crisi, si
tratta per i nostri moderni decisori di prevenire per sempre gli effetti
nocivi dell’ineluttabile pauperizzazione di frange della popolazione
che lo Stato post-keynesiano non vuole più assistere. Questo processo si
iscrive a meraviglia nella «mercificazione» del mondo, inattaccabile (a
volte sotto pena della prigione...) poiché intimamente legata, secondo
l’unanime parere degli esperti e dei mediatici, alla «democratizzazione»
della società mondiale. E, in effetti, si imprigiona in nome
dell’ordine pubblico molto meno di prima in perdita — vale a
dire a spese dei contribuenti. Lo sviluppo del tutto-carcerario,
diventata una autentica industria in espansione che si spartiscono i
settori pubblico e privato, ha generato in nome della logica di mercato
una vasta riserva di «risorse umane»: della manodopera poco onerosa — e
ben inquadrata...
Studiando le strutture dell’imprigionamento si è colpiti nel vedere
fino a che punto queste, al di là della varietà delle aberrazioni
arcaiche o futuriste, riproducano una logica di ostilità alla vita che
trascina la società intera nello smarrimento asettico in nome della
lotta contro lo smarrimento «batterico» — lo spettro della
«insicurezza».
Benvenuti, dunque, in un mondo migliore, il migliore di tutti i
mondi capitalisti possibili, dove la libertà non sarà più che un
videogioco di alta qualità e dove la comunicazione rischia di essere
ridotta definitivamente ad un esclusivo dialogo fra software: il mondo
della prigione per tutti, dove il grado di rassegnazione degli uni e degli altri determinerà il regime della loro reclusione.
Tra quattro mura
«Una gabbia dorata resta sempre una gabbia. Una prigione non può essere umana,
nemmeno se ne ha l’apparenza»
Jacques Mesrine
Rinchiuso su ordine di un tiranno o per decisione di un giudice
democratico, privato della sua libertà, il prigioniero non è alla fine
della sua pena. La logica vorrebbe che la reclusione, castigo supremo,
basti a punire il criminale. Non gli viene proibito di andare dove più
gli pare, di incontrare chi vuole, di amare chi preferisce? Non si
tratta della peggiore delle sentenze? Certo. Ma il potere che lo
imbastiglia giudica che è ancora troppo poco. Dopo averlo sottratto, lo
nasconde. La buona coscienza della società è salva, possono cominciare i
regolamenti di conti. All’ombra delle fortezze dalle alte mura, tutte
le bassezze sono permesse.
Nelle vecchie prigioni, quelle del passato e quelle che sono
sopravvissute alle diverse modernizzazioni, il prigioniero rumina la sua
solitudine come un bue. Ma deve anche sopportare una lunga serie di
costrizioni che si aggiungono alla sua sventura.
Per prima cosa si baderà ad ogni cosa strettamente: il costruttore
di prigioni è economo di metri quadri. Il detenuto non dovrà essere
troppo illuminato: al posto di finestre, delle finestrelle. Si avrà cura
di fornirgli un letto duro, preferibilmente di cemento. Il tavolo sarà
fisso, sigillato nel muro. La coperta sarà unica e sporca. Il gabinetto
troneggerà nel mezzo della sua sala di soggiorno perché lui stesso
finisca per sentire la merda ed il piscio. Il suo cibo sarà una sbobba
da vomitare il cui fetore, freddo, aleggerà giorno e notte nelle corsie.
In inverno avrà freddo, in estate troppo caldo. Quanto alla
“passeggiata”, sarà una marcia forzata, talvolta silenziosa, in una
corte spoglia dal cielo chiuso con una grata.
Nelle prigioni moderne, la fredda asetticità dell’ospedale e la
paranoica sorveglianza elettronica delle centrali nucleari hanno
sostituito il sudiciume. La televisione diffonde a gara la sua
propaganda ipnotica. Per il resto, non è cambiato quasi nulla. Il
detenuto rimane un criceto che gira nella sua lugubre gabbia. Per
impiegare il suo tempo: nulla. A volte un lavoro stupido il cui salario
paga appena le sigarette.
La corrispondenza? Letta e controllata da un secondino analfabeta.
Le visite? Filtrate, razionate e sorvegliate. La compagnia? Una
promiscuità soffocante. In caso di sgarro: la cella di punizione, infame
segreta dove il detenuto è svilito al rango di animale. Per i
recalcitranti, i «detenuti particolarmente sorvegliati»? L’isolamento e
la privazione sensoriale, una tortura bianca che a poco a poco distrugge
il cervello.
La lista non finisce mai. Mostra comunque che ciascuna delle
condizioni materiali della reclusione carceraria è una pena
supplementare. Ma è tutto?
Sarebbe dimenticare il «fattore umano». Non contenti di fornire al
detenuto un ambiente da ratto, lo si consegna alle guardie. Secondini,
sorveglianti, agenti di custodia, guardiani... qualsiasi nome abbiano,
questi individui escono dalla spazzatura della società per esercitare
una sorveglianza pignola. Reclusi essi stessi, spesso a vita, per
compiere questo vergognoso bisogno si arrogano tutti i diritti per
vessare gli esseri che sono incaricati di guardare. Al riparo da sguardi
indiscreti, avranno tutto il tempo di insultare, minacciare, picchiare,
o addirittura di «suicidare» i prigionieri sottomessi alla loro odiosa
riprovazione. Feccia dell’umanità, anche se non se lo confessano, essi
si vendicano.
Così, la prigione non si riassume nell’ignobile pena della
privazione della libertà. Essa è anche il luogo della centuplicata pena
della miseria delle mura e del tormento delle guardie.
Il tempo sospeso
«La prigione è una mancanza di spazio compensata da un eccesso di tempo»
Joseph Brodsky
Prigione... Allontanamento dietro le mura, esilio dalla società, ma
mostruosità partorita da questa stessa società: suo riflesso deforme,
specchio delle sue miserie e delle sue tare. Tempo della miseria
generalizzata, tempo di prigione. Prigione... Ultimo stadio della
solitudine, condizione banale dell’uomo moderno. Tempo dell’isolamento
generalizzato, tempo di prigione.
La prigione, ultimo girone dell’inferno. Centro nevralgico del
dispositivo di terrore e di sottomissione di tutte le società moderne.
Luogo di sperimentazione e di perpetuazione delle tecniche di
sorveglianza, di gestione del bestiame umano, di castigo, gli stessi
procedimenti che si ritroveranno all’opera successivamente,
eventualmente addolciti, nella società fuori dalle mura. Tempo di
pubblica sicurezza, tempo di prigione.
Regolarmente viene posta la questione della durata delle pene.
Sempre in funzione delle sue conseguenze sulla società e sui suoi
secondini, molto poco in merito a quelle e quelli che le subiscono...
Naturalmente l’amministrazione si pone problemi in maniera
amministrativa: come gestire tale pena, tale detenuto? Nella società
occidentale del tempo misurato (contato, pagato, venduto, guadagnato,
perduto...), gli amministratori giudiziari e penitenziari sono i
peggiori dei contabili, distributori e gestori di secoli di prigionia,
che misurano la vita stessa degli uomini, quando non la accorciano (la
ghigliottina è nel museo ma gli Stati Uniti battono ogni anno il loro
record di esecuzioni). In Francia non ci sono mai state tante
incarcerazioni e tanti detenuti, e la durata media delle pene non è mai
stata così lunga (tra il 1978 e il 1998, le pene a cinque anni sono
aumentate del 1020%, le condanne a più di dieci anni del 233% e gli
ergastoli del 100%, mentre il numero di libertà condizionate concesso è
stato diminuito della metà).
Ma in questo paese che ha rinchiuso la libertà nel suo motto per
scolpirlo sul frontone delle sue prigioni, di fronte all’orrore
carcerario non si ode nella società «civile» che il mormorio umanitario,
spesso alla semplice ricerca della buona misura di queste pene.
Esisterebbe dunque una «giusta pena»! Forse sul povero modello del
«giusto salario» a cui aspira lo stesso genere di piccolo democratico...
Eppure, quale misura potrà mai avere una pena, fuori dalle
astrazioni statistiche e dallo spettacolo dei fatti diversi? Come
misurare la dismisura di questo atto crudele fra tutti: imprigionare un
essere, strapparlo dalla vita, separarlo da tutti e da tutto? Quale
diabolica contabilità, quale scambio malefico di questa «scala di pene»
che inventa, nel diritto, la mostruosa equivalenza che fa regnare il
denaro nell’economia. Tutto ha un prezzo e chiunque è in vendita. Tutto
paga e chiunque è debitore. Merce in serie o merce di lusso, piccolo
delitto o crimine aggravato, esiste un’aritmetica terribile che fissa a
tutto e a tutti una tariffa che si paga con il proprio tempo, vale a
dire con la propria vita.
Giorni, settimane, mesi, anni, decenni, vite intere di credito o di
prigione, secondo il cammino che avrete scelto. Un’automobile, a
credito la pagherete in tre anni, in tre mesi di galera se la rubate
(qualora vi facciate arrestare). Duecentocinquanta testoni, un
lavoratore con salario minimo li pagherà con una vita di lavoro, un
ladro sfortunato potrà pagarli con la vita in prigione. Le macabre
tabelle di calcolo della legge e dell’economia snocciolano così le loro
colonne fino alla nausea. Nulla vi è dimenticato: l’economico e il
giuridico hanno orrore del vuoto.
Un giorno, una settimana, un mese, un anno... Molti li vivranno
come una parentesi, ognuno tentando a modo proprio di annichilirne la
vacuità. Ci sono quelli che si anestetizzano nell’alternanza ipnotica
farmaco-televisione, colmando il vuoto con il vuoto, abolendo il tempo
che scorre abolendo se stessi. Ci sono quelli che si danno da fare in
una o diverse di quelle magre attività possibili fra quattro mura:
sport, lettura, corsi, lavoro... Un’attività il più delle volte
solitaria, che non riesce a calmare il dolore dell’essere ma arricchisce
per lo meno il suo avere. Ci sono quelli che si aggrappano con tutte le
loro forze a un’idea, dedicandovi ogni minuto, evadere per esempio. Ci
sono quelli che, per sfuggire l’oscura realtà, si inventano storie di
cui sono gli eroi, e quelli che colmano la mancanza affettiva e sessuale
attraverso le relazioni epistolari più fantasmagoriche: il tempo così
poveramente vissuto della prigione porta all’apice le alienazioni, le
nevrosi, le psicosi e, fra tutte, la schizofrenia e la mitomania. Ci
sono anche quelli la cui esistenza fuori è talmente miserabile, che il
semplice fatto di avere un letto, un tetto, tre pasti al giorno, e la
televisione gli procura, per esempio, la soddisfazione di trascorrere
l’inverno al caldo...
Ma al di là di ciò che può inventare un galeotto per passare il tempo
(nessuno è più inventivo, costretto com’è a fare tutto con quasi
niente; il prigioniero è così diventato maestro nell’arte di comunicare
con i suoi codetenuti o con l’esterno...), al di là dei mezzi di
dimenticare o di occupare il tempo, questo costituisce la sua opera e il
suo oltraggio. Il prigioniero uccide il tempo ma è il tempo ad ucciderlo. Invecchia senza aver vissuto e, quando esce, si dice che ha fatto il suo tempo... Aver fatto il proprio tempo è anche essere usati, spezzati, superati. Più tragicamente d’ogni altro uomo, il prigioniero è la carcassa del tempo.
Un giorno, una settimana, un mese, un anno... Perché la prigione,
questa società «al di fuori», è ugualmente una società «al di dentro»,
dove si vivono anche momenti di piacere, di incontro, di apprendimento.
Se la parentesi è «breve» (un aggettivo soggettivo, variabile a seconda
del detenuto, della detenzione, ecc.) e il detenuto è a posto con la
testa, non sarà obbligatoriamente «invivibile»... Un giorno, una
settimana, un mese, un anno... Alcuni parlano anche di pene «gestibili».
Ma chi può permettersi un simile giudizio, se non... un giudice
evidentemente! Un giorno di prigione è sempre un giorno di troppo, e a
volte è per sempre: la maggior parte dei suicidi hanno luogo proprio
all’inizio della pena. E la Francia, paese record dei suicidi degli
uomini liberi, ha battuto nell’ultimo anno del millennio il record dei
suicidi nelle sue galere (124 nel 1999).
Un giorno è di troppo, ma allora un anno? E 5, e 10, 15, 20, 25,
30, 40 anni... Sono intere vite strappate. E cosa si può misurare?
L’orrore della dismisura? L’incommensurabile spossessione? Solo coloro
che le sopportano, e in altro modo i loro cari, sono in grado di
testimoniare queste devastazioni che non si misurano ma si vivono,
questa mutilazione che la maggior parte del tempo si tace ma a volte si
sussurra o si urla.
Il volo
Un mondo senza prigioni è il minimo che si possa sognare. Nondimeno
questa intenzione vitale, non appena la si approfondisce un poco, fa
comparire ogni genere di contraddizione, ogni genere di trappola, ogni
genere di falsa soluzione. Perché, come si sa, il problema è più vasto, è
fondamentalmente quello di un mondo fondato sulla coercizione e
l’interesse, sulla messa in schiavitù dei molti per i bisogni dei pochi,
perché questo dominio si è procurato i mezzi di farsi passare per
ineluttabile: perché non si può immaginare un mondo senza prigioni,
senza farla finita con il denaro, lo Stato e tutti i rapporti
mercantili. Allora ci si ricorderà di nozioni quali giustizia e polizia
come vecchi incubi. Siamo d’accordo, ma è là che tutto inizia: non ci si
può accontentare di belle frasi, di voci pietose, di slogan. Se la
critica della prigione si limita al solo «Abbasso le prigioni»,
raggiunge un livello di astrazione che la rende illusoria e inoffensiva.
Illusoria, perché i governanti, i filosofi di questa società, anche
loro si azzardano sempre più spesso a presagire l’abolizione delle
prigioni. Per essi, il sogno sarebbe quello di una società in cui il
controllo sociale fosse totalmente integrato dalla maggioranza dei suoi
membri, un mondo di «cittadini responsabili» in qualità di migliori
ingranaggi della sbirraglia generale. Ciò sarebbe tanto più fattibile
quanto meno ci fosse un’autentica libertà. È in questa miseria di
rapporti, di offuscamento che il vecchio adagio «la libertà individuale
finisce laddove comincia quella altrui» assume tutto il suo significato e
lascia via libera alle nozioni di diritto, di giudizio, di punizione...
Non ci avremo guadagnato se in cambio dell’abolizione delle prigioni
avremo un imprigionamento senza mura. Già oggi, vomitiamo ogni idea di
pene sostitutive che sono le premesse di questo progetto, che si tratti
di braccialetti elettronici, di lavori di pubblico interesse, di
semi-libertà e tutta la panoplia di punizioni che rendono il condannato
sedicente responsabile della propria condanna: ci vorrebbe una
schizofrenia totalmente digerita perché i futuri detenuti modelli
accettino ciò. Si può affermare senza tema di errore che chi immagina la
prigione «ideale» di una società «ideale» può solo dipingere quadri
agghiaccianti, poiché, a cosa può assomigliare l’ideale del peggio se
non alla sua perfezione? Le utopie carcerarie, che tendono a confondersi
con l’utopia del Diritto, sono prima di tutto quelle dei carcerieri...
Illusoria perché le diverse esperienze del passato, per quanto
sociali, per quanto sovversive siano state, non hanno mai risolto il
problema. Una «grande sera» non è sufficiente. Né gli insorti della
Comune di Parigi, né gli anarchici delle province spagnole sono riusciti
a mettere in piedi una logica radicalmente diversa; avevano come
giustificazione da una parte una situazione di conflitto militare,
dall’altra la breve durata di quei periodi rivoluzionari. Il regime
penale e carcerario era di certo meno duro, ma non venne abolito.
Nemmeno le comunità dette primitive, spesso citate come riferimento del
funzionamento sociale, ignoravano la punizione, la pena — senza per
altro ricorrere ai penitenziari. Le messe al bando possono equivalere a
volte a una pena di morte in un ambiente ostile. Se tutte queste storie
particolari contengono preziosi elementi di riflessione per tutto ciò
riguardante il delitto, la mancanza, il crimine, la punizione, la pena,
esse non danno risposte soddisfacenti. D’altronde non ne esistono che
possano essere date in abstracto: non si può nemmeno essere
certi che, come tendono a sognare gli utopisti, in un mondo migliore
l’uomo sarebbe migliore. Chi lo sa?
Inoffensiva perché, sostenere l’abolizione delle prigioni senza
proporre altro che la soppressione pura e semplice di ogni forma di
società, non presenta molti pericoli reali per la perpetuità del sistema
capitalista.
Inoffensiva perché, finché la critica sociale non osa avventurarsi
dietro le mura della prigione, al loro interno gli anni passano.
Inoffensiva perché l’urgenza della soppressione della prigione,
anche interrogandosi sulle sue cause, la sua genealogia, le sue
evoluzioni, su ciò che potrebbero essere altri modi di regolare i
conflitti, non è concepibile se non ci si ricorda sempre della sua
esistenza permanente e reale. Liberarsi dell’idealismo soggettivo della
Grande Sera della soppressione delle prigioni e basarsi sulla realtà è
un preludio al superamento e dunque alla realizzazione dello slogan
«Abbasso le prigioni». La lotta contro le prigioni comincia negli spazi
quotidiani, in tutto ciò che può essere giustamente strappato al
quotidiano.
[Libera traduzione dall'introduzione ai capitoli di Au pied du mur, ed. L'Insomniaque, Paris 2000]
Nessun commento:
Posta un commento