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venerdì 12 agosto 2011

Santo Che

da finimondo

martire guerrigliero


Il Che è l’essere umano più completo della nostra epoca
Jean-Paul Sartre


Una contadina accende una candela al santo e prega affinché il suo figliolo goda di buona salute e la raccolta di patate vada bene. Le sue preghiere, come le preghiere degli altri contadini, sono già state esaudite in passato — sostengono gli abitanti del villaggio. «Assomigliava a Nostro Signore, là steso morto nella scuola», dice la contadina all’intervistatore televisivo. Il nome del santo miracoloso? Ernesto Che Guevara!
Non prendiamo in giro questi contadini. Non guardiamoli con l’arroganza tipica di chi vive nel Primo Mondo. Non c’è dubbio che il Che “interviene” nelle loro vite afflitte dalla povertà, come fanno tutti gli altri santi. E poi, chi siamo noi per sostenere l’assoluta conoscenza del mondo, della mente umana e di tutti i suoi funzionamenti?
Come si sentirebbe il Che per l’incenso e le candele bruciate in suo nome? In quanto militante comunista ed ateo, avrebbe liquidato tutto ciò come rozza superstizione di un passato reazionario. Che ironia, per una persona simile. Ma non sono solo i contadini boliviani a riverire il guerrigliero morto. Quarant’anni dopo la sua morte, la sua immagine è affissa sulle pareti delle stanze di metà degli studenti del mondo. Il suo sguardo duro e ascetico ci punta da innumerevoli magliette e spillette. La mistica di Che Guevara è pervasiva.
Inutile domandarsi se meritasse questa idolatria. Di primo acchito, si potrebbe dare una risposta affermativa incondizionata. In fondo era considerato il Numero Due a Cuba, che si è dimesso da ogni carica di potere per andare a combattere nella giungla in favore di quella che riteneva fosse liberazione. Ammalato d’asma e con una esigua banda di seguaci, venne braccato e ucciso dall’esercito boliviano. Guevara era anche una perfetta figura romantica, avvenente, carismatico e amato dalle donne. Non era un burocrate sanguinario come Stalin, né un pervertito come Mao, neppure un megalomane come il suo vecchio amico Fidel, ma un “vero uomo”. Sarebbe potuto sbucare fuori da qualsiasi romanzo d’avventura. E nella famosa fotografia che lo ritrae steso morto, egli assomiglia davvero al Cristo.
Sì, è facile comprendere il fascino che molte persone, soprattutto giovani, avvertono per quest’uomo. Ma capire un fenomeno è una cosa, verificarne la realtà è un’altra. Per far ciò, bisogna andare al di là della mistica, magari con l’ausilio della sua «biografia definitiva» — Che. Una vita rivoluzionaria (Baldini&Castoldi, 1997) — scritta da Jon Lee Anderson, frutto di oltre cinque anni di ricerche condotte in mezzo mondo, basata fra l’altro su documenti originali finora inediti e sulle testimonianze di chi l’ha conosciuto, e la cui stesura ha goduto dell’appoggio diretto della sua vedova e di molti suoi amici. Tutte le citazioni e le indicazioni di pagina, laddove non espressamente indicato, si riferiscono a quest’opera.

Don’t cry for me Argentina
Durante gli anni formativi di Che Guevara, l’Argentina era dominata dal movimento peronista. Il Peronismo — in gran parte invenzione della brillante moglie di Peron, Eva Duarte — è forse stata l’ideologia più vicina al fascismo perfetto. Tralasciate tutta la propaganda spicciola che circonda la parola “fascista”. Dimenticate il nazi-fascismo e il fascismo clericale di Franco e Salazar. Mi riferisco alla vera essenza di quel che volle essere un movimento rivoluzionario — il cosìddetto fascismo di sinistra.
Il vero puro fascismo, così come immaginato da Mussolini, crebbe fuori dall’ala sinistra militante del socialismo italiano. Fu un tentativo di imporre il programma socialdemocratico attraverso la dittatura e la forza armata. Il movimento fece a meno dell’asettico positivismo ed evoluzionismo del marxismo ortodosso, sostituendolo con l’emotivismo romantico, l’estremo nazionalismo, il culto della volontà e dell’«uomo di azione». L’obiettivo era quello di nazionalizzare l’industria e subordinare tutte le classi sociali ai bisogni dello Stato. Le classi lavoratrici avrebbero beneficiato di questa rivoluzione, ma solo finché fossero rimaste sottoposte allo Stato fascista. Il problema di Mussolini fu di non avere mai avuto il sostegno della classe lavoratrice e quindi di dover rivolgersi alle tradizionali classi medie. Per cui gran parte della sua rivoluzione rimase sulla carta.
Questa non fu la situazione che dovettero affrontare i Peron. Molti anni prima della loro presa del potere, i generali avevano già annientato ogni movimento libertario, di cui rimasero solo pochi avanzi. Gli operai erano poveri, disorganizzati e senza voce. Eva Duarte-Peron fu capace di costruire un movimento operaio riempiendo il vuoto organizzativo (e, dove necessario, eliminando i suoi deboli oppositori). Perciò il peronismo aveva solide basi fra i lavoratori. Stimolato dall’energica Evita, il movimento nazionalizzò le banche, le compagnie assicurative, le miniere e le autostrade. Il risultato fu che l’Argentina ebbe probabilmente il più esteso settore capitalista statale fuori da un regime stalinista. I salari vennero aumentati per decreto e una schiera di benefici sociali furono introdotti per i Los Descamisados (gli “scamiciati”, gli operai seguaci dei Peron). Persino la Chiesa fu attaccata. Il gioco “anti-imperialista” venne giocato fino all’eccesso, alternando un violento anti-americanismo ad un sentimento anti-britannico. Lo straniero diventò il capro espiatorio di ogni problema argentino.
Per quanto in gioventù non avesse mai manifestato un grande interesse per le questioni politiche e sociali, rifiutandosi di muovere un dito allorquando a più riprese alcuni suoi amici finirono in prigione, Che Guevara era comunque simpatizzante del peronismo ed imbevuto delle sue idee. In molti modi rimase sotto l’incantesimo dell’ideologia peronista per tutta la sua vita. Ancora nel 1965, affermava che «dobbiamo dare a Peron tutto il sostegno possibile…» (220). Quando il regime di Peron finì, egli dichiarò: «Devo confessare in tutta sincerità che la caduta di Peron mi ha molto amareggiato… l’Argentina era il paladino di tutti coloro che pensano al Nord come al nemico» (244). Durante la guerriglia nella Sierra Maestra, chiamò le sue prime reclute guerrigliere Los Descamisados, in omaggio al nome che Peron aveva dato ai suoi seguaci (366).
Questa viva simpatia per il peronismo lo accompagnò sempre. Nel 1961 il Che confessò ad Angel Borlenghi, antico ministro dell’Interno di Peron, che il caudillo argentino era la più avanzata incarnazione di riforma politica ed economica dell’America Latina (Ricardo Rojo, My friend Che). Nel 1962 il Che si batté affinché i peronisti venissero inclusi in un fronte rivoluzionaro argentino in via di costituzione. Fidel invitò Peron, allora in esilio, a visitare Cuba promettendogli gli onori dovuti a un capo di Stato. John Cooke, già leader della gioventù peronista nonché emissario personale di Peron, visse per anni a Cuba ed elogiò la rivoluzione, diventando amico del Che (748).

Le radici reazionarie della visione del mondo del Che
È possibile rilevare l’influenza peronista in molti tratti del pensiero del Che. Ad esempio nel suo nazionalismo, messo in evidenza dal suo sostegno alle lotte d’indipendenza nazionale portate avanti in molte parti del mondo. Oppure nel suo autoritarismo, nella sua tendenza presente fin dall’adolescenza a porsi alla guida degli altri (38), nella sua convinzione che «ogni azione intrapresa dovrebbe essere di natura tale da avvicinare alla presa di potere» (715). Per fare la rivoluzione, egli credeva che fosse necessaria la violenza al servizio di una autorità. Non a caso non si preoccupava dei metodi dittatoriali e autocratici di Fidel, ritenendo che la vera rivoluzione potesse essere compiuta solo da un uomo forte (445).
Il Che era anche persuaso della necessità della centralizzazione, come dimostrò sia durante il periodo della guerriglia — allorquando decretò che «qualsiasi membro di un’organizzazione rivoluzionaria diversa dal “Movimento 26 Luglio” può entrare, vivere e operare in questo territorio. Il solo requisito è quello di sottostare agli ordini militari che sono stati o che saranno promulgati» (497) — sia dopo la rivoluzione quando nazionalizzò l’economia, militarizzò il lavoro, esautorò i sindacati e stabilì la fine dell’autonomia dell’insegnamento universitario.
Inoltre il suo pensiero era infarcito di meccanicismo. La sua visione di un ordine sociale era fondata sul coordinamento automatico, la sua conformità era ottenuta attraverso la tecnica e il totalitarismo più efficaci. Del resto, un’economia centralmente pianificata riduce ogni questione sociale a problema tecnico-organizzativo. Significativa a questo proposito la convinzione del Che che il contadino cubano, grazie alla rivoluzione, avrebbe ritrovato «l’allegria di sentirsi importanti nel meccanismo sociale, di sentirsi un ingranaggio che ha caratteristiche proprie — necessario ma non indispensabile per il processo produttivo —, un ingranaggio cosciente che ha il proprio motore e che cerca di farlo rendere sempre di più» (843). Questa nauseabonda retorica, più che fare luce sulla distanza emotiva del Che nei confronti della realtà individuale, la dice lunga sul suo odio poliziesco nei confronti dell’individuo e della sua libertà, in cui vedeva una minaccia per il socialismo. Come ogni autoritario, era «convinto che si debba costantemente pensare in funzione della massa e non degli individui… è criminale pensare da individui perché le necessità del singolo sono assolutamente senza peso di fronte alle necessità del conglomerato umano» (652). Va da sé che «l’individualismo… deve sparire a Cuba… ci deve essere la realizzazione della capacità di tutto un individuo a beneficio assoluto di una collettività» (664).
Il Che aveva anche l’ossessione della glorificazione della guerra e del militarismo, giacché identificava la guerra come la circostanza ideale per raggiungere la coscienza socialista (416) e considerava l’esercito rivoluzionario come il «primo e più importante strumento di lotta, l’arma più potente e vigorosa» (549). Questo, oltre a portarlo a formulare la sua disastrosa concezione fochista della rivoluzione frutto di una mera campagna militare, da attuarsi al di fuori d’ogni contesto sociale, lo spinse a sostenere la necessità di sacrificare innumerevoli vite per il glorioso futuro socialista. Dopo che i russi ritirarono i loro missili, ponendo fine alla “crisi cubana” del 1962, il Che si infuriò per il «tradimento sovietico» e dichiarò al giornalista del Daily Worker di Londra che, se i missili fossero stati sotto il controllo cubano, sarebbero stati lanciati (756). Nel 1965 invocò una guerra mondiale rivoluzionaria apocalittica, da attuare anche con l’utilizzo di armi atomiche. «Milioni di esseri umani moriranno, in tutti i punti della Terra… Questo non ci deve preoccupare…» (841). Il buon Che era persuaso che il nuovo ordine socialista sarebbe sorto da questa distruzione di massa.
Monaco gesuita della rivoluzione, il Che esprimeva il suo cinismo anche nei suoi testi letterari. Il suo racconto La bambola assassinata, apparso nel novembre 1959, è una allegoria sulla necessità di sacrificare gli innocenti in una causa rivoluzionaria (636). D’altronde, il suo progetto per la campagna boliviana non prevedeva forse che «bisogna sacrificare la Bolivia affinché le rivoluzioni possano nascere nei paesi limitrofi»? (963). L’idea era quella di provocare nuove guerre del genere Vietnam in America Latina, costringendo all’intervento il governo degli USA. Questo avrebbe spinto la Russia, la Cina e i movimenti guerriglieri del terzo mondo ad unirsi in un potente fronte per poi distruggere l’odiato Zio Sam. Che Guevara pensava che la rivoluzione dovesse assumere i tratti della terza guerra mondiale, per di più atomica. Il suo celebre messaggio inviato all’incontro Tricontinental, tenutosi all’Avana nel 1967, raggiunse toni sanguinari. Egli desiderava null’altro che un «lungo e crudele» confronto globale. La qualità più importante richiesta in questa guerra era «un odio senza tregua… che ci spinge sopra e oltre i limiti di cui l’uomo è erede per trasformarlo in una efficace, violenta, seduttiva e fredda macchina per uccidere» (986).
Insomma, per riuscire ad imporre il suo volere il Che non indietreggiava di fronte a nulla. Non solo i nemici imperialisti, ma anche i contadini per cui diceva di combattere erano vittime della sua forza bruta. Come scrisse sul suo diario boliviano, «la base contadina non risponde ancora, anche se pare che, seminando sistematicamente il terrore, otterremo la neutralità dei più; l’appoggio verrà più avanti». Seminare sistematicamente il terrore fra i contadini: questa tecnica infame era già stata sperimentata durante la guerriglia a Cuba, nella Sierra Maestra (982).

Che lo stalinista
Nel 1955, mentre si trovava in Guatemala, il Che diventò un convinto stalinista. Fino ad allora era rimasto scettico a proposito del marxismo, ma poi scoprì i libri di Stalin (786). Per lui fu una autentica rivelazione: «ho giurato davanti ad una fotografia del vecchio e compianto compagno Stalin che non avrò riposo fino a che non vedrò annientare queste piovre capitaliste» (174). La sua ammirazione per il dittatore russo rasentava l’identificazione, se si considera che arrivò a firmare «Stalin II» una lettera inviata alla zia nell’aprile di quell’anno (226). L’ideologia stalinista lo pervase completamente, al punto da intervenire anche nella sua vita privata. In Messico amava recitare alla neonata figlia Hildita — che chiamava amorevolmente «il mio piccolo Mao» — una poesia di Antonio Machado in onore del generale Lister, il fucilatore di anarchici durante la rivoluzione spagnola (270).
Il Che sentiva di avere alcuni doveri estremamente importanti da compiere nell’interesse del movimento comunista e dell’Unione Sovietica. Il primo di questi era orientare la rivoluzione cubana verso lo stalinismo. Infatti all’interno del Movimento 26 Luglio, il gruppo guidato da Fidel Castro, erano assai pochi i comunisti, o simpatizzanti tali. Per non parlare degli altri gruppi rivoluzionari, come il Directorio o gli anarchici, decisamente antistalinisti. Dato che Fidel era sì simpatizzante del Partito Comunista, ma su posizioni distanti, il Che diventò la figura chiave dei rapporti con il Partito Socialista Popolare (cioè il Partito Comunista Cubano) (494). Egli lavorò per cementare i legami con il PSP (539), la cui alleanza con il 26 Luglio doveva rimanere segreta per non dividere il movimento rivoluzionario ed accrescere l’ostilità americana. La maggior parte dei cubani infatti odiava il Partito Comunista, sia perché era intervenuto nella lotta contro Batista con molto ritardo sia perché in precedenza ne aveva sostenuto il regime. Il Che si diede anche da fare per indottrinare i suoi uomini durante il periodo della guerriglia, insegnando loro i rudimenti del marxismo-leninismo (413). 
Dopo la rivoluzione, il Che divenne il legame fra il KGB e il nuovo governo rivoluzionario, quando le relazioni fra Cuba e la Russia dovevano rimanere clandestine per non adirare il cubano medio e spaventare il Dipartimento di Stato statunitense. Come dichiarò l’agente del KGB inviato sul posto, «il Che era il nostro architetto nelle relazioni con Cuba» (682). È forse per questa ragione che nel novembre del 1960, durante il suo viaggio in Russia, il Che venne invitato a presenziare alla parata commemorativa del 43° anniversario della rivoluzione d’ottobre, sulla Piazza Rossa a Mosca, accanto al presidente Nikita Kruscev: un “onore” concesso per la prima volta ad una persona che non era un capo di Stato o di partito (673). Nulla di strano quindi se l’accordo missilistico nucleare con la Russia che quasi scatenò la terza guerra mondiale fu anch’esso concluso dal Che (736). 
Nel 1963 dovette passare momenti di forte sconforto quando si accorse che il modello russo, che aveva ingenuamente abbracciato, non era poi così corrispondente al suo puritanesimo proletario (676).  Per fortuna in soccorso alla sua ideologia traballante venne il maoismo, di cui ammirava le origine guerrigliere e l’abnegazione di sé: «il sacrificio è fondamentale per un’educazione comunista. I cinesi lo capiscono molto bene, molto meglio di quanto non facciano i russi» (847). Va detto che il Che, per non farsi mancare niente, manifestava un certo debole anche per il regime del Nord Corea (686).

Che il boia
Durante il periodo della guerriglia nella Sierra Maestra il Che si conquistò sul campo la sua fama di implacabile giustiziere. A detta del suo benevolo biografo, il cammino del Che nella Sierra Maestra era cosparso dei cadaveri di chivatos [informatori], disertori e delinquenti comuni, uomini le cui morti aveva ordinato, e che in alcuni casi aveva giustiziato di persona (391). Ah, le dure necessità della guerriglia… Certo, eliminare gli informatori può bene essere una triste necessità della lotta rivoluzionaria, ma il Che si distinse soprattutto nel richiedere esecuzioni per guerriglieri e contadini locali che non si adeguavano ai suoi criteri. Bastava poco per beccarsi una pallottola in testa, giacché era notoriamente severo con le punizioni. Persino Fidel era molto più tollerante e commutò molti ordini di esecuzione del suo compagno. A titolo di esempio, una volta il Che minacciò di fucilare un certo numero di guerriglieri che erano scesi in sciopero della fame per protestare contro i cattivi rifornimenti. Solo l’intervento di Fidel lo fermò (476).
Vivere sotto i suoi comandi era talmente duro che molti soldati se ne andarono (per questo vennero dichiarati “disertori”, ricercati e, se scovati, condannati a morte) oppure chiesero di essere trasferiti (384). Ciò è comprensibile, considerato che pochi uomini venivano assolti dall’occhio sospettoso del Che (328), il quale riempiva il suo diario con sprezzanti commenti e giudizi su quasi tutti i suoi uomini, rei di non essere fanatici anacoreti come lui. Va anche detto che il Che trasmise questa sua mania per le esecuzioni, questa sua durezza, ai suoi più fedeli seguaci che lo consideravano un esempio da imitare (390 e 823).
Durante il periodo della guerriglia, mantenere la disciplina fra le truppe e stabilire una parvenza di legge e ordine nella provincia erano due fra le sue principali priorità. Per prevenire l’anarchia, il Che aveva nominato autorità rivoluzionarie provvisorie in ogni città liberata e aveva decretato norme di comportamento per i suoi uomini (507). Inutile domandarsi cosa succedeva a chi trasgrediva queste norme. Un giovane combattente, a cui era partito per sbaglio un colpo di fucile, venne privato della sua arma e mandato in prima linea (514).
Subito dopo la caduta di Batista, il nuovo governo si pose il problema di amministrare la giustizia rivoluzionaria. E chi venne incaricato di vestire i panni di Torquemada? Così, al Che venne affidato il compito di epurare l’esercito e la burocrazia governativa da spie, traditori e generici “nemici della rivoluzione”. Diventò il «procuratore generale» che nella caserma di La Cabana, dove ogni giorno confluivano i prigionieri, decideva se giustiziare o no. E lui giustiziava senza pietà e fra il gennaio e l’aprile 1959 più di 550 persone vennero fucilate (543). Secondo i suoi vecchi colleghi in esecuzioni, «la nostra più grande preoccupazione era assicurarci che il senso di giustizia e la morale rivoluzionaria prevalessero, che non venisse commessa alcuna ingiustizia». In questo, il Che era molto attento (542). Nobile preoccupazione ma che contrasta con le numerose testimonianze secondo cui non furono solo poliziotti torturatori a venire messi al muro o gettati in prigione. Basti pensare che nel gennaio 1960 un giovane cattolico venne giustiziato per aver distribuito volantini anticomunisti (637). Per non parlare di tutti quei rivoluzionari che, dopo aver combattuto contro la dittatura di Bastista, continuarono a impugnare le armi anche contro la dittatura di Castro. Fra questi, oltre a militanti degli altri gruppi rivoluzionari, ci furono anche ex membri dello stesso Movimento 26 Luglio. 
Il Che fu inoltre uno degli artefici del nuovo apparato di servizi segreti, la Seguridad del Estado, o G-2. Il comando della nuova polizia segreta venne affidato ad un suo collaboratore durante la guerra (539). Scontato fu il suo coinvolgimento nella creazione dei Comitati di Difesa della Rivoluzione, rete di organizzazioni civiche sparse fra i quartieri di ogni città per assicurare il rispetto delle leggi e fornire informazioni ai servizi di sicurezza statali.
Per tutti questi motivi, il Che può essere considerato uno dei responsabili della distruzione del movimento anarchico cubano. A detta degli stessi storici di regime, per mezzo secolo l’anarchismo era stato il principale pensiero sovversivo della penisola caraibica. I libertari erano attivi in molti sindacati e costituivano una importante forza anti-Batista. Gli anarchici sopravvissero alla dittatura di Machado e di Batista, ma non sopravvissero a due anni di castrismo. La stampa libertaria venne proibita nel 1961, e molti anarchici finirono in esilio, in galera o al cimitero. Fra questi anche molti compagni che pure avevano combattuto contro Batista nelle stesse fila del Movimento 26 Luglio (come riportato da Sam Dolgoff, The Cuban Revolution).
Infine il Che va ricordato per essere l’ideatore di Guanacahabibes, “campo di rieducazione” dove era solito mandare i suoi subalterni colpevoli di qualche mancanza per espiare la pena con periodi di lavoro fisico, potersi redimersi e poi tornare. Inutile dire che Guanacahabibes si conquistò immediatamente una sinistra fama, versione tropicale dei lager siberiani, al punto da venire chiuso subito dopo la partenza del Che (789).

Che il burocrate
Alla fine del 1959 le università, da sempre focolai di critiche e proteste, videro abolita la propria autonomia. Fu lo stesso Che ad annunciarlo agli attoniti studenti dell’università di Santiago, con queste esplicite parole: «Qualcuno direbbe che questa è dittatura, d’accordo: è dittatura» (625). Venne introdotto un nuovo curriculum di Stato, e le università diventarono semplici strumenti del regime, tanto che due terzi degli insegnanti furono costretti all’esilio (Matthews, Revolution in Cuba).
Nel 1960 l’Istituto Nazionale della Riforma Agraria venne costituito sotto il controllo del Che. Questa organizzazione aveva il compito di varare la nuova legge di riforma agraria e prese il controllo sull’intera economia. All’inizio il suo lavoro doveva essere quello di gestire le cooperative statali. Ora, una cooperativa statale è una contraddizione in termini, poiché le cooperative sono per natura associazioni volontarie possedute e gestite localmente. L’INRA nazionalizzò le cooperative esistenti (alcune delle quali erano anarchiche) e mise in piedi una schiera di nuove cooperative fasulle, fondamentalmente fattorie di Stato. In base alla legge 43, «l’INRA nominerà gli amministratori e i lavoratori accetteranno tutti gli ordini e i decreti emessi dall’INRA» (René Dumont, Is Cuba socialist?). Il 20 febbraio 1960 il Che annuncerà la «pianificazione centralizzata» su modello sovietico per Cuba (642), qualcosa che aveva desiderato da sempre. La guida dell’economia cubana da parte del Che fu un disastro totale e probabilmente contribuì a spingerlo verso la sua impresa suicida in Bolivia.
In quanto ministro dell’economia cubana, il Che è stato il principale responsabile dell’abolizione dei diritti dei lavoratori e della distruzione del movimento sindacale autonomo. Alla fine del 1960 gli operai avevano perso il diritto allo sciopero (considerato legittimo in un sistema capitalista, ma controrivoluzionario sotto il socialismo), la sicurezza sul lavoro, la malattia, la settimana di 44 ore, le indennità per straordinari, le ferie pagate, e vennero costretti a fare «lavoro volontario». Come per i sindacati, il regime tentò di imporre l’elezione di pedine del Partito Comunista alla direzione della Confederazione del Lavoro Cubana. Il 90% dei delegati si rifiutarono. Gli stalinisti vennero imposti dall’alto, su ordine dello Stato. Il leader della Confederazione, David Salvador, un importante membro del Movimento 26 Luglio, venne condannato a 30 anni di prigione per la sua opposizione all’assalto stalinista al suo sindacato. Trascorse il tempo dietro le sbarre di una prigione, con circa altri 700 prigionieri politici, molti dei quali erano sindacalisti. La responsabilità del Che in questi fatti non è un mistero, avendo dichiarato nell’ottobre 1960 che «il destino dei sindacati è di scomparire» e varato la legge agraria 647, che sosteneva che «il Ministro del Lavoro può prendere il controllo di qualsiasi sindacato, dimettendo i funzionari e nominandone altri…» (Sam Dolgoff, The Cuban Revolution).

La tragedia di Che Guevara
Prima di diventare il Savonarola della Sierra Maestra, il Che era noto per essere un gran mattacchione. Un hippie antelitteram, un amante della poesia, delle conversazioni notturne, dei viaggi, del calcio, delle motociclette e delle donne. Fra i suoi amici erano in pochi a credere nella trasformazione che aveva colpito il loro vecchio compagno El Chanco dopo il suo viaggio a Cuba. 
Certo, egli assorbì molte delle idee autoritarie di Peron, ma questo accadde a un mucchio di altra gente, che proseguì la propria vita senza farsi distruggere da un’ideologia. La politica non era poi così importante per il Che finché non andò in Guatemala. Qui scoprì una ideologia che combaciava con le sue convinzioni e pregiudizi, e che sembrava spiegare il mondo intero dando alla sua vita sostanza e significato. Il Che divenne schiavo di una crudele religione secolare: il suo sistema di idee lo consumò, costringendolo a fare cose che non avrebbe fatto. Lo costrinse a diventare duro e fanatico. Come disse suo padre, «Ernesto aveva brutalizzato i suoi sentimenti» per diventare un rivoluzionario. Sua madre descriveva il nuovo Ernesto «intollerante e fanatico» (848).
Questo suo fanatismo lo portò a non rompere con lo stalinismo durante le rivelazioni di Kruscev del 1956 (quando migliaia di intellettuali occidentali lasciarono il partito comunista) e poi, alla fine, fecero nascere il suo desiderio di sostituire lo stalinismo russo con quello cinese. Non è che gli orrori di Stalin non fossero noti — non avevamo bisogno che Solzenicyn ci venisse a raccontare dei gulag —, qualsiasi anarchico, trotskista o socialista antistalinista avrebbe potuto dirgli la verità. Forse qualcuno lo fece pure, forse egli si rifiutò di ascoltare. 
Il suo culto per la forza militare era anch’esso una forma di fanatismo, che alla fine lo portò alla morte. Invece di confrontarsi di continuo con le condizioni materiali in cui si trovava ad agire, ignorò la realtà in favore della sua ideologia. I suoi tentativi di riprodurre pedissequamente l’esempio cubano sono una sfilza di imbarazzanti sconfitte (Repubblica Domenicana, Nicaragua, Guatemala, Perù, Argentina, Colombia, Venezuela, Congo, Bolivia), che testimoniano la sua ottusità. Come poteva ignorare che i contadini boliviani, avendo ottenuto la terra durante la rivoluzione populista del 1952, non erano interessati ad un’altra insurrezione armata? Leggiamo il suo discorso alla Tricontinental — quando pensava che attaccare un paese avrebbe spezzato la volontà del suo popolo — quando pensava che attraverso guerriglie tropicali avrebbe terrorizzato gli americani fino a sconfiggerli. Ma cercare di terrorizzare una nazione non fa che accrescere la fermezza della sua popolazione. 
Non c’è dubbio che il Che fosse molto coraggioso, più volte si mise in situazioni di estremo pericolo durante la lotta di guerriglia. Era un guerriero valoroso. Sebbene brusco nei metodi, non era certo un ipocrita — i suoi sacrifici, le sue sofferenze, erano un esempio per i suoi uomini. Ma il coraggio fisico non è raro, molte persone che appartengono al peggior genere di culti politici o religiosi agiscono con immenso coraggio.
Altra questione è il coraggio morale, che mai potrà avere chi crede che il fine giustifichi i mezzi. 
Il Che non era affatto un «uomo completo» come dichiarato da Sartre, il quale non ha mai incontrato uno stalinista di fama che non gli piacesse. Il Che è chiunque sia convinto che la libertà debba sacrificarsi all’autorità. Il Che è chiunque ritenga che il dovere viene prima del piacere. Il Che è chiunque rinunci alla gioia di vivere e si faccia sopraffare dal senso del sacrificio. Il Che è chiunque creda nella logica del «con ogni mezzo necessario». Certo, il Che non era un tiranno alla Hitler o Stalin — despoti che possono semplicemente venir liquidati come mostri e che quindi non hanno rapporti con la vita quotidiana. Seppe rinunciare ad ogni privilegio legato alla sua carica, pur di essere coerente con le sue idee rivoluzionarie. Ammirevole virtù, tanto quanto il coraggio. Ma è sufficiente per trasformare in idolo questo feroce stalinista, questo rivoluzionario di Stato?
Nello scrutare la sua vita, il Che non assomiglia molto a un santo, non è vero? Ma c’è una cosa di cui bisogna tenere conto: anche il più grande peccatore può talvolta diventare santo. Un esempio è San Paolo, che prima di venire illuminato sulla via di Damasco fu un violento persecutore di cristiani. Naturalmente Che Guevara è morto prima che potesse accorgersi dei suoi errori, e data la sua testardaggine è probabile che non lo avrebbe nemmeno fatto — chi può dirlo? Tuttavia la sua sofferenza, la sua autodistruzione (e la distruzione degli altri) e il suo fallimento finale possono servire da esempio. Non seguite le sue orme! Se il suo sacrificio saprà dissuadere i rivoluzionari dal cadere nel suo inferno ideologico, il mantello di santo se lo meriterà davvero. Forse anche noi dovremo accendere una candela a San Che. 


[da Machete n. 1, gennaio 2008] 

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