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lunedì 18 luglio 2011

Islam e anarchia. Un paradosso da conoscere

da anarchaos.org

Henri Gustave Jossot, Leda Rafanelli, Hakim Bey. Tre figure così diverse tra di loro, accomunate dalla convivenza tra idealità anarchiche e religione musulmana.
tratto da
(A) rivista anarchica
 anno 41 n. 363
 giugno 2011



Accostare anarchia ed islam sembra un esercizio impossibile. Nulla di più distante pare immaginabile (islam, in arabo, significa “sottomissione”). Eppure non è così, nella storia dell’anarchismo ci sono state persone che in momenti diversi hanno provato a lasciar dialogare queste due prospettive e ci sono riuscite. Certo si tratta di esperienze liminari, ma che proprio nella loro unicità possono divenire esemplificative di nuove possibili aperture per il nostro mondo globalizzato, interculturale e interreligioso. Forse si potranno affacciare scenari inediti nel meticciato culturale prossimo venturo, perché – è bene non scordarlo – cultura non è blocco omogeneo e inalterabile nel tempo, bensì organismo vivente che storicamente interagisce con il suo ambiente e con culture altre (1). Ancora: parlare di queste esperienze costituisce un sano antidoto a quella conoscenza raffazzonata della realtà dell’islam che, nostro malgrado, apprendiamo dalle versioni che ci offrono o i fondamentalisti di turno o gli intolleranti di casa nostra.
Come introduzione alla conoscenza di questo mondo presentiamo tre autori che in forme differenti e originali hanno provato a declinare anarchismo ed islam. Un islam che conosceremo sempre nella versione sufi, vale a dire attraverso la sua corrente mistica, spesso perseguitata dagli ambienti teologico-giuridici musulmani per il suo anelito ad una ricerca condotta in prima persona, sciolta da lacci e lacciuoli delle credenze dogmatiche.
Henri-Gustave Jossot
Henri-Gustave Jossot
Iniziamo con Henri-Gustave Jossot. Nato a Digione, nella seconda metà dell’Ottocento, godette di una certa celebrità come artista nel tramonto della Belle Epoque. La sua attività si svolse in svariati ambiti: dal dipinto all’acquarello, dal manifesto pubblicitario alla caricatura. Ed è grazie a quest’ultima che trovò i maggiori riconoscimenti, prendendo di mira istituzioni, come la famiglia, l’esercito, l’amministrazione della giustizia, la Chiesa, la scuola, ecc.
Il momento in cui ebbe maggiore fama coincide con il suo soggiorno a Parigi e alla frequentazione degli ambienti artistici e letterari parigini, anche se nella sua produzione artistica la pittura occuperà un posto secondario, dal momento che la sua passione sarà il disegno. Significativa è la collaborazione alla rivista di satira politica “L’Assiette au Beurre” (1901-1912) (2), in cui Jossot evidenzia uno spiccato interesse verso una critica al sistema sociale dell’epoca. Col tempo il suo tratto diviene più incisivo e diretto, in perfetta sintonia con altri celebri artisti del tempo, spesso del suo stesso orientamento, come nel caso del pittore svizzero Felix Valloton (di quest’ultimo ci limitiamo a ricordare la xilografia “L’anarchiste” del 1892), anch’egli collaboratore a “L’Assiette au Beurre”.
Jossot lavorò con assiduità a questa rivista, illustrando per intero diversi numeri, per una produzione totale di quasi trecento disegni. Non c’è praticamente tema di cui il periodico si sia occupato che non sia stato affrontato dallo stesso Jossot: la critica delle istituzioni, il militarismo, il clericalismo, ma anche le varie forme di conformismo culturale, inscritte nei tanto sbandierati valori della patria o della famiglia, svelando lo sfondo violento in essi racchiusi.
Jossot, pur non appartenendo ad alcuna organizzazione militante, intratterrà rapporti amichevoli con esponenti anarchici. Esiste un autoritratto ironico, in cui un gruppetto di persone osservano un signore elegante a passeggio (si tratta dello stesso Jossot, ma la figura evoca l’immagine del flanêur parigino, cara a Baudelaire come a Benjamin), ed uno di loro esclama: “Non appartiene ad alcuna organizzazione anarchica ed ha il coraggio di credersi libertario!”.
Nel 1911 Jossot, sempre più insofferente all’epoca e all’ambiente in cui vive, decide di trasferirsi in Tunisia per dedicarsi al disegno di paesaggi e alla rappresentazione di scene di vita quotidiana. Ma nel 1913 maturerà la decisione di convertirsi all’islam, assumendo il nome di Abdul Karim, divenendo in seguito discepolo dello sheikh Ahmed al-Alawi.
Scriverà in una lettera: “Non avrei voluto altro che frequentare gli indigeni, vestirmi come loro, adottare i loro costumi, rompere completamente con la civiltà. Ma quel che non avevo previsto, è che mi sarei convertito all’islam”. Ma l’islam di Jossot sarà il sufismo; nel suo libro Le sentier d’Allah, risalente al 1927, sintetizzerà in questo modo i motivi della sua conversione: “L’islam senza misteri, senza dogmi, senza clero, quasi senza culto, mi appariva come la più razionale di tutte le religioni” (3).
Alcuni hanno interpretato questo gesto come un comportamento reattivo verso l’Occidente e la sua civiltà delle macchine. Perciò non poteva certo riconoscersi in un cristianesimo che aveva scelto di sostenere e giustificare l’oppressione coloniale dei territori extraeuropei. Lo scoppio della “grande guerra” rafforzerà ulteriormente il suo rifiuto della civiltà bianca, unitamente all’inefficace e scomposta opposizione delle sinistre europee all’imminente carneficina. Tra il 1916 e il 1917 Jossot collaborerà, seppur brevemente, ad alcune pubblicazioni di tendenza pacifista.
Ma l’esodo nelle terre nordafricane lo renderà sempre più sensibile alla questione coloniale e all’immane sfruttamento a cui sono sottoposti i popoli sottomessi. Scriverà negli anni Venti: “Sono musulmano per orrore della falsa civiltà ponentina, per orrore delle sue brutture. Sono musulmano per l’ostilità contro la scienza profana che ci crea incessantemente nuovi bisogni senza fornirci il mezzo per soddisfarli; che sofistica le nostre bevande, adultera i nostri alimenti, che ci avvelena con i suoi farmaci e tutta la sua chimica, che ci obbliga a vivere un’esistenza frenetica ed innaturale”.
Morirà nel 1951, a Sidi Bou Said, dove sarà seppellito senza riti religiosi (4).
Leda Rafanelli
L’altro personaggio è Leda Rafanelli. Nata a Pistoia nel 1880, soggiornerà in giovane età ad Alessandria d’Egitto, entrando in contatto con gli anarchici della “baracca rossa”, un punto di ritrovo per transfughi socialisti e anarchici, creato dallo scrittore Enrico Pea (a cui prenderà parte per un certo periodo anche Giuseppe Ungaretti) (5).
Rientrata in Italia, si avvicina alle correnti dell’anarchismo individualista, influenzate dalle idee di Nietzsche e di Stirner, collaborando a varie riviste. Successivamente darà vita insieme a Giuseppe Monanni alla Libreria Editrice Sociale (poi Casa Editrice Sociale, infine Casa Editrice Monanni), la più importante iniziativa editoriale degli anarchici dell’epoca, che pubblicherà tra i suoi titoli opere di Nietzsche, Schopenauer, Kropotkin, Stirner, Jack London e Maksim Gorki; il logo sarà del pittore Carlo Carrà, che curerà le copertine di alcuni libri. Risale a quegli anni (tra il 1913 e il 1914) l’incontro e la relazione di Leda con Benito Mussolini, allora direttore dell’”Avanti” (6). Sempre insieme a Monanni darà vita alle riviste “La Rivolta” e “La Libertà”.
Allo scoppio della prima guerra mondiale Leda prenderà con fermezza una posizione di netta condanna del conflitto, nonostante i proseliti fatti dall’interventismo di sinistra, sia in Italia che all’estero, all’interno di alcuni gruppi anarchici.
Con la salita al potere del fascismo la Rafanelli è costretta al silenzio politico, proseguendo purtuttavia a pubblicare alcuni suoi scritti. In ristrettezze economiche, vive fra Milano e Genova, insegnando lingua araba e dedicandosi oltre che alla scrittura, alle arti figurative e alla chiromanzia. L’ultimo suo scritto è un articolo apparso su “Umanità Nova” nel 1969. Morirà a Genova nel 1971.
Leda Rafanelli
Risale al periodo del soggiorno alessandrino la sua conversione all’islam, anche se non vi sono documenti o testimonianze (né la stessa Rafanelli li ha mai forniti) che forniscano informazioni o dettagli su quel momento così significativo della sua esistenza, anche se è fuori di dubbio che, dall’età di vent’anni fino alla morte, si professerà, oltreché anarchica, musulmana.
Leda non farà mai propaganda religiosa, ma in alcuni suoi scritti esporrà la sua visione dell’islam. Nel racconto Il rabdomante, apparso sul periodico “La Libertà” nel 1914, metterà a confronto lo stile di vita occidentale con la sapienza islamica. Nel romanzo, uscito nel ‘29, L’oasi, compare una denuncia del colonialismo e sarà pubblicato sotto pseudonimo durante la repressione fascista della resistenza libica (7).
Anche lei, come nel caso di Jossot, assumerà un nome arabo, Djali, senza peraltro abbandonare quello originario. In un breve testo in versi così esordisce: “Mi sono donata questo nome, oltre il bel nome che porto,/poi che Djali vuol dire: di me stessa,/ed io ho sempre appartenuto solo a me stessa”, mostrando in fondo una declinazione in lingua araba della sua visione anarchica (dai tratti individualisti), e quindi una possibile sintesi fra le due esperienze, anche se, è bene sottolinearlo, lei confinerà alla sfera privata la sua appartenenza religiosa.
Proprio l’esistenza di due ambiti separati porterà qualche studioso a interpretare in modo critico la co-presenza di questi due mondi, concludendo che “il tentativo della Rafanelli di coniugare insieme anarchismo ed islam sia riuscito solo a metà: se dal punto di vista della scelta personale riuscì ad essere musulmana (in privato) ed anarchica, come militante, secondo la linea comune a tutti gli anarchici, ripudiò quel Dio che venerava tra le pareti domestiche” (8). Ci sembra invece che proprio tale affermazione così tranchant possa essere vera solamente a metà. Se è fuor di dubbio che gli autori classici dell’anarchismo erano atei e anticlericali, è pure vero che sono sempre esistiti (ed esistono), seppure in maniera minoritaria e spesso in forma sommessa, anche anarchici con una spiccata sensibilità religiosa o anche uomini religiosi con spiccata sensibilità libertaria.
Non solo: anche la “questione Dio” è da dare come tutt’altro che scontata. Proviamo a leggere la Rafanelli: “Tutte le religioni sono assurde leggende, rivestite di strana poesia, basate su esseri inesistenti e dotati di tutte le virtù e le potenze soprannaturali, misteriose e perciò non discutibili” (9). Siamo così sicuri che una simile dichiarazione risulti incompatibile con una scelta religiosa, appunto fuori da schemi dogmatici o da lineari quanto rigidi incasellamenti in questa o quella categoria? Senza voler divagare, esiste, anche se pochissimo conosciuto, proprio un ateismo religioso, comune a gran parte delle correnti mistiche delle maggiori religioni, che mira a purificare il sentire religioso da ogni ombra di idolatria (ben sintetizzata da questa paradossale dichiarazione di Meister Eckhart: “prego Dio che mi liberi da Dio”). E Leda Rafanelli aderì anche lei al sufismo, la corrente mistica dell’islam (10).
Hakim Bey
Terzo ed ultimo autore è Hakim Bey, pseudonimo di Peter Lamborn Wilson. Nasce a Baltimora nel 1945, trascorre l’adolescenza nel New Jersey, si iscrive poi alla Columbia University, per frequentare il corso in lettere classiche, interrompendolo anni dopo. Il suo interesse vira verso le religioni orientali; dopo un iniziale feeling verso il buddhismo zen, si dedica allo studio del sufismo. Pacifista e obiettore di coscienza durante la guerra del Vietnam, nel 1968 decide di lasciare gli Stati Uniti e comincia a viaggiare: Marocco, Turchia, Libano, Iran, Pakistan, India, Nepal, sono le tappe del suo lungo e tortuoso cammino. Ma è l’Iran il luogo ove Peter Lamborn Wilson soggiornerà più a lungo, ben sette anni, fino al 1979, quando scoppia la rivoluzione khomeinista. A Teheran entra far parte dell’Accademia imperiale iraniana di filosofia, assumendo incarichi di un certo rilievo. Rientrato negli USA inizia quella fase di incubazione che porterà alle pubblicazioni a nome Hakim Bey.
Il testo che gli consegnerà una qualche notorietà è T.A.Z., uscito agli inizi degli anni Novanta. L’acronimo sta per Temporary Autonomous Zone, zone temporaneamente autonome. Si tratta di un saggio breve, poco più di cinquanta pagine, denso di riferimenti e citazioni. Lo stile abbonda di metafore e allusioni, con un ritmo incalzante e coinvolgente. Inizia con una digressione sulle enclavi pirata del XVII secolo, prendendole a modello della costruzione di luoghi franchi rispetto al potere costituito. Prosegue con ulteriori esemplificazioni: con le correnti ereticali nella rivoluzione inglese del Seicento (ranter, digger, leveller); il nomadismo delle popolazioni native americane; Charles Fourier e l’utopia dei falansteri; la Comune di Parigi del 1871; Gustav Landauer e i soviet di Monaco del 1919; la Comune di Kronstadt del 1921 e la makhnovšcina ucraina; Gabriele D’Annunzio e l’esperienza fiumana; la mobilità degli IWW americani; il ‘68 e il maggio parigino (soprattutto nella lettura situazionista). Ciò che secondo l’autore accomuna queste esperienze, al punto da presentarle come precorritrici, a vario titolo, delle TAZ, sta nel fatto che la loro testimonianza nella storia mostra l’importanza di non perseguire uno scontro frontale con il potere statuale, modellandosi specularmente sulla sua forma e con l’obiettivo di edificare una nuova, diversa istituzione. L’alternativa sta invece nella liberazione di un’area nello spazio e nel tempo, pur nella consapevolezza che tale esperienza finirà per dissolversi, mantenendo comunque integre le sue potenzialità, così da poter rinascere in un altro tempo e in un altro dove (11).
Nel periodo immediatamente successivo si assiste a un’intensa attività intellettuale da parte di Hakim Bey (o Peter Lamborn Wilson, che dir si voglia): qui, fra le sue numerose pubblicazioni, ci limitiamo a segnalare, per le riflessioni che stiamo facendo, i saggi dedicati ad alcuni aspetti ereticali interni all’islamismo, composti con l’esplicito intento di smontare la rappresentazione, dominante in Occidente, riguardo l’esistenza di un mondo musulmano con i tratti di un sistema monolitico, privo di qualsivoglia incrinatura e sostanzialmente fondamentalista, che finisce per veicolare se non intolleranza e islamofobia (12).
Hakim Bey
Ma l’approccio al sufismo (e all’islam) da parte di Hakim Bey è assai diverso da quello degli altri due autori presi in esame, non solo perché è nostro contemporaneo (fra l’altro nel suo caso non si può parlare di conversione ma di suggestioni ricevute dall’islam) o per la mutata temperie culturale. Nei suoi scritti l’opzione anarchica (e mistica) viene fondamentalmente coniugata nei termini di un ritorno a un caos rigeneratore (non a caso si parla di anarchismo ontologico); il continuo passaggio al desiderio e alle emozioni, senza mediazioni di sorta, viene presentato come scommessa vincente nel gioco del cambiamento. Ma tale ricerca, programmaticamente priva di limiti, non appare invece come un surrogato della pienezza di vivere e della ricerca di una comunità umana degna di tale nome? Non subiscono forse le TAZ una sconfitta, prima ancora di venire abbandonate dai loro abitatori, nel momento in cui la trasgressione viene proposta come carta vincente? La trasgressione è l’altra faccia della norma, come sanno bene i pianificatori di ogni sorta; e il mercato globale è abbastanza astuto per includere i trasgressivi di mestiere. Più ci si modella sul principio dell’infrazione della legge, più questa si rinforza proprio attraverso il comportamento trasgressivo, insinuandosi surrettiziamente. Nelle derive proposte da Hakim Bey (comprese quelle di sapore religioso) si ha così la sensazione che manchi l’approfondimento di una fuga mundi coniugata al presente, in grado di perseguire con coerenza tale direzione, vale a dire l’esodo, la secessione, il dislocamento, l’alterità come alternative al binomio legge/trasgressione (13).
Federico Battistutta
Note
  1. A questo proposito lo storico e gesuita Michel De Certeau, già all’inizio degli anni ‘80, parlava di “meticciato culturale”, definendolo come “un libero spazio di parola e di manifestazione”, non surrogabile dallo Stato, in cui le culture cercano di raccontarsi le une alle altre.
  2. Cfr. il sito di consultazione della rivista, contenente fra le altre cose una sezione dedicata agli illustratori, Jossot incluso: www.assietteaubeurre.org. Vedi anche: Duccio Dogheria, L’Assiette au Beurre, rivista d’artista, “Art e dossier”, n. 239, dicembre 2007.
  3. Abdou’l Karim Jossot, Le sentier d’Allah, Mostaganem (Algerie), Imprimerie Alaouia, 1990.
  4. Su Jossot si può consultare anche il sito francofono, interamente dedicato a lui, curato da Henry Viltard, il maggiore conoscitore e collezionista dell’opera di Jossot: http://gustave.jossot.free.fr.
  5. Questa esperienza la troviamo narrata nel romanzo di Maurizio Maggiani, Il coraggio del pettirosso, Milano, Felltrinelli, 1995.
  6. Quando, nel 1946, Monanni diverrà direttore editoriale della Rizzoli, darà alle stampe il volume Una donna e Mussolini, che raccoglie la corrispondenza intercorsa fra i due; nel 1975, la seconda edizione presenterà una prefazione di Pier Carlo Masini.
  7. Etienne Gamalier, L’oasi. Romanzo arabo, trad. di Leda Rafanelli, Milano, Casa Editrice Monanni, 1929.
  8. Enrico Ferri, Leda Rafanelli: un anarchismo islamico?, in Leda Rafanelli, tra letteratura e anarchia, a cura di Fiamma Chessa, Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi/Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa, 2008. Il volume raccogli gli atti della giornata di studi svoltasi l’anno precedente a Reggio Emilia.
  9. Leda Rafanelli, Contro il dogma, Firenze, Rafanelli-Polli e C., s.d.
  10. Il sufismo della Rafanelli, come trait d’union fra anarchismo e islam viene evidenziato nell’intervento di Gabriele Mandel Khan alla giornata di studi sopra citata: “L’islam è quindi una cultura nel pieno rispetto di un sentimento anarchico puro (…). Per questo motivo Leda Rafanelli, perla preziosa dell’anarchia in Italia, scelse l’islam per completare e perfezionare quell’afflato di fede, che è pulsione inconscia di ogni psiche, e che come tale viene burocratizzata (…) nelle varie religioni. Gabriele Mandel Khan, Leda Rafanelli, in Leda Rafanelli, tra letteratura e anarchia, cit. Mandel, scomparso nel 2010, fu, fra le altre cose, rappresentante in Italia di una confraternita sufi.
  11. Hakim Bey, T.A.Z. Zone temporaneamente autonome, tr. it., Milano, Shake, 1995.
  12. Cfr. di Peter Lamborn Wilson: Scandal: essays in islamic heresy, Brooklyn (NY), Autonomedia, 1988; Sacred drift: essays on the margins of islam, S. Francisco (CA), City Light Books, 1993; The drunken universe. An anthology of persian sufi poetry, New Lebanon (NY), Omega Publications, 1999.
  13. Alcuni suoi interventi solleveranno non poche critiche proprio in quei settori del milieu libertario a cui si rivolge. Murray Bookchin, in Social anarchism or lifestyle anarchism, Oakland (Ca), AK Press, 1995, denuncia la tendenza al misticismo e all’irrazionalismo da parte di Hakim Bey. Un altro autore americano, John Zerzan, dal canto suo non lesinerà un plateale disprezzo verso Hakim Bey, definendolo un liberal post-moderno. Cfr. John Zerzan, Senza via di scampo?, tr. it., Roma, Arcana, 2007.

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