da a rivista anarchica
di Francesco Berti
di Francesco Berti
Quando i libri provocavano le rivoluzioni: la delegittimazione dell’immaginario istituito nella Francia illuminista.
“Quali sono le cause delle rivoluzioni? Perché i sistemi di valori cambiano? In che modo l’opinione pubblica influenza gli avvenimenti?”. A questi interrogativi, con riferimento alla Francia della seconda metà del XVIII secolo, cerca di dare una risposta, in un interessantissimo libro, lo storico francese Robert Darnton (Libri proibiti. Pornografia, satira e utopia all’origine della rivoluzione francese, Mondadori, Milano 1997). I temi e le risposte suggerite da questo pregevole lavoro credo possano essere di qualche interesse per la cultura libertaria contemporanea, attenta tanto ai meccanismi di riproduzione simbolica del dominio quanto ai mezzi utili alla sua delegittimazione. Alcuni dei più significativi contributi del pensiero libertario nella seconda metà del XX secolo – penso, in particolare, agli studi di Pierre Clastres, Cornelius Castoriadis, Murray Bookchin (1) – hanno messo in luce il ruolo fondamentale che l’universo simbolico, l’immaginario istituito, ricopre nel consenso e nella legittimazione politica su cui si fonda l’universo materiale delle relazioni sociali, mettendo così in seria discussione il paradigma marxista secondo il quale la sovrastruttura simbolica della società è, più o meno univocamente, determinata dalla sua struttura materiale (2). Nella loro diversità, le ricerche degli autori suddetti confermano e approfondiscono, in poche parole, una delle tesi centrali del pensiero anarchico classico, secondo la quale, se è vero che esiste una interdipendenza tra l’universo simbolico e quello materiale della società, è altrettanto vero che la «sovrastruttura» politica e culturale gode di una certa autonomia e in molti casi è essa stessa la causa dei mutamenti che avvengono nella dimensione «strutturale» (3).
Delegittimazione della cultura dominante Lo studio di Darnton si occupa di chiarire in che modo sia avvenuto il processo di delegittimazione della cultura dominante nella Francia del Settecento, individuando in questo processo uno – non certo l’unico – dei fattori più importanti che hanno prodotto il rovesciamento rivoluzionario del regime assolutistico nel 1789. Per rispondere ad uno degli interrogativi che più ha assillato la storiografia francese sul XVIII secolo negli ultimi settant’anni, a partire dalla pubblicazione del noto studio di Daniel Mornet (4).
Possono i libri provocare le rivoluzioni? – Darnton ha cercato anzitutto, nella prima parte del suo lavoro, di capire cosa leggessero i francesi del Settecento, studiando una mole impressionante di fonti archivistiche – carte di polizia, corrispondenze editoriali, ecc. – ed in particolare gli archivi di una importante tipografia svizzera della seconda metà del XVIII secolo, la Société Tipographique di Neuchâtel (d’ora in avanti: STN), che tra il 1769 – anno d’inizio delle sue attività – e il 1785 – anno in cui rinunciò a fare affari in Francia, a causa della stretta repressiva della censura – inondò il mercato librario francese di una notevole quantità di libri proibiti. Gli archivi della STN sono gli unici, tra quelli delle decine di tipografie che sorgevano «appena al di là delle frontiere francesi» e da cui «fuoriuscivano le opere appartenenti ad una letteratura libertina che minava i valori fondamentali dell’Ancien régime» (5), ad essersi conservati pressoché integralmente, ed hanno pertanto un valore imprescindibile per comprendere la qualità e la diffusione della letteratura clandestina nella Francia pre-rivoluzionaria. Occorre poi specificare che la STN, come altre grandi tipografie del periodo, non stampava in proprio i libri proibiti: con una politica editoriale di scambi, si riforniva di questa richiestissima merce da piccole, spesso piccolissime, tipografie clandestine, per poi riversarla sul mercato francese. Ai più fidati distributori che ne facevano esplicita richiesta, la STN provvedeva a fare avere i propri cataloghi (clandestini anch’essi, evidentemente) di libri proibiti, che erano naturalmente assai diversi da quelli che contenevano i titoli della produzione ufficiale e consentita.
Ma quali erano, precisamente, i libri proibiti nella Francia della seconda metà del Settecento? I libri proibiti, chiamati mauvais livres dalle autorità e livres philosophiques da tipografi e distributori, comprendevano in verità una gamma assai ampia di letteratura, non del tutto coincidente con quello che ancor oggi siamo soliti ascrivere al filone illuministico: essa spaziava dalla letteratura libellistica e scandalosa alla saggistica politico-filosofica, dalla letteratura utopistica a quella «pornografica» (6). Nell’impossibilità di controllare e reprimere quel vasto fenomeno letterario che squassò la cultura francese ed europea del XVIII secolo e che, in un modo o nell’altro, era espressione di una cultura laica e illuministica, le autorità francesi concentrarono la propria attenzione sulle opere che, senza ombra di dubbio, mettevano in discussione i valori dominanti: molti libri, pure figli della cultura dei lumi, erano in qualche misura tollerati, anche se non avevano ottenuto l’autorizzazione a stampa.
Letteratura clandestina
Confrontando i cataloghi di libri proibiti della STN, quelli di altre sei tipografie svizzere, i registri delle confische di libri proibiti effettuate alla dogana di Parigi e infine i cataloghi dei libri confiscati dalla polizia parigina nelle irruzioni nelle librerie, Darnton è stato in grado di stilare un elenco pressoché completo dell’intero corpus della letteratura clandestina, che comprende ben 720 titoli (7), e un elenco delle opere più richieste, cioè dei best-seller: quest’ultimo rende palese «l’esistenza di un pubblico avido di letteratura oscena, diffamatoria e sovversiva» (8), tale per cui appare corretto, per l’epoca, rilevare che «libertà e libertinismo appaiono strettamente intrecciati» (9). Ai primi posti della classifica dei best-seller vi sono opere di autori noti del movimento illuministico (Voltaire, d’Holbach, Raynal) e di scrittori oggi pressoché sconosciuti (Mercier, Linguet, d’Argens, Pidasant de Mairobert). Molto richieste dal pubblico di lettori francesi erano i saggi antireligiosi e anticristiani: «Per la prima volta, durante gli ultimi tre decenni dell’Ancien régime il lettore comune poteva accedere all’ateismo in forma di libro» (10). Più in generale, si può osservare come i best-seller di maggior successo – L’an 2440 di Louis-Sebastien-Mercier, l’Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des européeens dans les deux Indes, di Guillaume-Thomas-François Raynal, le Questions sur l’encyclopédie di Voltaire – «attaccavano in pratica ogni autorità costituita» (11). Sarebbe sbagliato, tuttavia – osserva Darnton – pensare a questo processo di erosione della morale e della cultura politica dominanti come al prodotto di un disegno consapevole: «I libri proibiti hanno probabilmente indebolito il regime, minandone la legittimità, ma non avevano lo scopo di rovesciarlo» (12), tesi, quest’ultima, sostenuta invece da scrittori reazionari come Augustin Barruel, secondo il quale la rivoluzione francese sarebbe stata il frutto di un complotto massonico e illuministico (13). Nessuno in Francia, fino al 1787, presagì o auspicò la rivoluzione; tuttavia, si può dire che i libri proibiti abbiano preparato il terreno, inintenzionalmente, al crollo violento dell’Antico regime.
Nella seconda parte del libro, l’autore analizza tre best-seller, rappresentativi di tre generi più richiesti di libri proibiti: la «pornografia» filosofica, la visione utopica, la diffamazione politica. Il primo genere, cui appartengono opere come Les Bijoux indiscrets di Denis Diderot, certo il più libertario dei grandi illuministi francesi, la Pulcelle d’Orleans di Voltaire o Ma conversion, ou le libertin de qualité di Honoré-Gabriel Riqueti, conte di Mirabeau, è ben rappresentato dal romanzo Therese philosophe (1748), opera probabilmente di Jean-Baptiste de Boyer, marchese d’Argens. Nonostante i ripetuti inviti al conformismo politico, tipica espressione della cultura libertina di cui Therese philosophe è figlia, questo romanzo può essere ritenuto un testo rivoluzionario: anzitutto, perché questo libro è un trattato sulla contraccezione, e poi perché la protagonista è una donna che rifiuta il ruolo stereotipico di moglie e madre per accedere a quello, sino ad allora riservato ai maschi, di libertina e filosofa: «Sesso e metafisica: nulla è più lontano dalla nostra mentalità, ma nulla è più conforme allo spirito libertino del Settecento» (14). Therese philosophe rappresenta, se vogliamo, una volgarizzazione della filosofia materialistica e meccanicistica di La Mettrie: «In tutte le scene di sesso il corpo è descritto come una macchina. Fluidi, fibre, pompe, pressione idraulica: questa sembra essere la natura profonda dell’attività sessuale» (15).
Letteratura utopica
Al genere della letteratura utopica va invece ascritto un altro romanzo, L’an 2440 di Mercier, opera che, dal 1771, anno della editio princeps, ebbe ben 25 edizioni. Si tratta di uno scritto, ai nostri occhi, per molti aspetti inquietante, intriso di moralismo rousseauiano, addirittura protototalitario. Del resto, come acutamente notava Maria Luisa Berneri nel suo bellissimo lavoro sull’utopia, il genere utopistico ha rare volte assunto connotazioni libertarie (16), e certo l’opera di Mercier, così influenzata dalle tesi di Jean-Jacques Rousseau, filosofo certo complesso ma che tuttavia sembra indubbiamente un anticipatore delle dottrine totalitarie (17), non fa certo eccezione, da questo punto di vista. L’an 2440 è una u-cronia: l’isola felice non è un posto tropicale, fuori dal tempo e dalla storia, ma la Parigi del 2440, nella quale il protagonista si risveglia dopo un sonno durato 700 anni. La Parigi del futuro è costruita, come già l’Utopia di Thomas More, sulla negazione: è una città senza preti, mendicanti, prostitute, eserciti permanenti, schiavitù, commercio estero e, soprattutto, vizi. Il cristianesimo nel 2440 è scomparso: vige una religione civile incentrata sul culto razionalistico dell’Essere supremo. L’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert è divenuta il sussidiario degli studenti e lo stesso papa è un convinto razionalista. Non esistono, certo, galere, ma gli omicidi, dopo aver fatto pubblica autocritica, sono fucilati pubblicamente. È pur vero che l’An 2440 è un atto d’accusa contro il dispotismo dei re e dei preti: tuttavia, il carattere totalitario dell’opera emerge dal fatto che nella Parigi del futuro vige un orwelliano controllo della cultura del passato: solo pochi libri e poche opere hanno passato il vaglio critico della censura razionalistica, e la libertà di stampa, di cui si fregia la Parigi del 2440 abitata da un popolo di scrittori, è vanificata dal fatto che al posto della censura esiste una pubblica autocritica nella quale incorrono gli scrittori eterodossi.
Diffamazione politica
Il terzo best-seller analizzato da Darnton, anch’esso rappresentativo di un genere, quello della diffamazione politica, che aveva una lunga tradizione come la letteratura erotica, ma che, come quella, subì nel Settecento una metamorfosi quantitativa e qualitativa, è intitolato Anecdotes sur Mme la Comtesse Du Barry (1775), opera forse del libelliste parigino Matthieu-François Pidansat de Mairobert, autore, insieme ad un gruppo di nouvellistes, di una gazzetta manoscritta, poi stampata in 36 volumi, le Mémoires secrets pur servir à l’histoire de la République des lettres en France. Gli Anecdotes narrano l’irresistibile ascesa di Marie-Jeanne Béen, contessa Du Barry, che, da prostituta di bordelli, finisce per entrare stabilmente, dopo un percorso di perversione e libertinaggio, nel letto del re e nella stanza dei bottoni. La morale degli Anecdotes non potrebbe essere più chiara: «Una masnada di farabutti si era impadronita dello stato, aveva dissanguato il paese e trasformato la monarchia in dispotismo» (18). Non importa che la ricostruzione storica degli Anecdotes, come osserva Darnton, sia assai distante delle ricostruzioni della vita politica effettuate, nei secoli successivi, dagli storici: quel che conta mettere in luce è che la Du Barry degli Anecdotes, lungi dal costituire un segno della virilità del sovrano, divenne, agli occhi di molti francesi dell’epoca, il simbolo «dell’avvilimento della monarchia stessa», perché essa veniva rappresentata come «uno strumento per risvegliare le declinanti energie di un vecchio depravato» (19). «Lo scettro», negli Anecdotes, «non sembra più solido del pene del re», e questo per i francesi del Settecento era un fatto gravissimo, dal momento che «il corpo del sovrano continuava ad essere qualcosa di sacro» (20). Il potere, allora, si fondava soprattutto sulla reputazione personale di chi lo deteneva: «Per imporre la propria autorità al popolo, i sovrani dovevano metterla in scena, in occasione delle incoronazioni, dei funerali, delle processioni, delle esecuzioni pubbliche […]. Tuttavia questa versione drammaturgia del potere era vulnerabile. Un’ingiuria che colpiva nel segno poteva distruggere una reputazione e mandare a monte ogni progetto» (21). Negli Anecdotes, in conclusione, si può osservare come la Du Barry abbia «privato il re del suo carisma regale e […] spogliato la monarchia del suo potere simbolico» (22).
Nella terza parte del libro, significativamente intitolata I libri provocano le rivoluzioni?, l’autore ritorna agli interrogativi posti all’inizio del suo lavoro ed esplicita così le sue conclusioni: «Le nostre fonti ci consentono di stabilire un nesso tra la circolazione della letteratura illegale da un lato, e la radicalizzazione dell’opinione pubblica dall’altro» (23). Una radicalizzazione che coinvolgeva non solo la borghesia ma le stesse classi aristocratiche: come già aveva profondamente colto Alexis de Tocqueville nel suo monumentale L’antico regime e la rivoluzione, nobili e borghesi nel settecento francese, anche come paradosso effetto dell’opera centralizzatrice della monarchia assoluta, avevano finito per nutrirsi della medesima cultura (24): una cultura spesso di fatto, anche se non intenzionalmente, sovversiva. Le élites aristocratiche, anche a causa dell’azione corrosiva dei livres philosophiques, «avevano perso la fede nel regime prima che esso crollasse», e niente, in fondo, è più temibile per un sistema politico del fatto che le sue élite cessino «di credere nella sua legittimità» (25). I livres philosophiques, emancipando «la letteratura dai suoi legami con lo Stato» e separando «la cultura dal potere» (26), giocarono un ruolo decisivo nella delegittimazione dell’immaginario istituito, preparando così il terreno alla rivoluzione. Tutta la copiosa letteratura aneddotica, alla fine del regno di Luigi XVI, convergeva su un unico tema: «A causa degli eccessi dell’assolutismo di Luigi XV, si era aperto un periodo di decadenza e la monarchia era degenerata in dispotismo» (27), come nelle più cupe previsioni di Montesquieu. E così, quando, tra il 1787 e il 1788, Luigi XVI tentò un ultimo, disperato tentativo di riorganizzazione fiscale dello Stato, la sorte del suo potere era già, in qualche modo, segnata: «Il regime era condannato: aveva perso la mano decisiva della lunga partita per il controllo dell’opinione pubblica, perdendo così la propria legittimità» (28).
Tramonto della parola scritta?
Da allora, moltissime cose sono mutate: quel che rimane centrale è il ruolo dell’immaginario nei processi di legittimazione e delegittimazione del dominio.
L’immaginario sovversivo, tuttavia, dopo due secoli di rivoluzioni, appare forse più logoro dello stesso immaginario costituito. Il potere della parola scritta, nella società dello spettacolo e dell’immagine, sembra, se non definitivamente tramontato, quanto meno assai declinante. Se la vita del lettore del XVIII secolo poteva essere trasformata da libri come quelli di Rousseau e Voltaire, lo stesso non si può dire per lo smaliziato e disincantato lettore di oggi. L’utopia di Mercier si è, in qualche misura, avverata, trasformandosi in una distopia, perché non ha sancito il trionfo della civiltà della ragione: l’occidente è divenuto un popolo di scrittori, che però scrivono per lo più cose insulse e inutili. Il sesso non è più un tabù, è diventato tabù il suo freudianamente uguale-contrario: la morte. Il trionfo schizofrenico di una società razionalistica nella forma ma del tutto irrazionale, spesso, nei contenuti, sta segnando il grande ritorno di maghi, astrologi, indovini, sette e quanto di più stupidamente contrario ai valori dell’illuminismo, credenze che albergano e fanno proseliti, occorre dirlo, anche nelle sub-culture che si vogliono antagonistiche – vedi le mode per le filosofie e le religioni orientali e, più in generale, per ciò che è antioccidentale, antimoderno, antiindividualistico e antiliberale –. Il declino della civiltà cristiana, una civiltà che in qualche maniera era venuta a patti con la tradizione razionalistica classica, sembra aver decretato la fine dell’ateismo militante (29) e, più in generale, dei progetti rivoluzionari. Nelle secolarizzate società odierne, la gente non solo non crede generalmente più nel dio cristiano: non crede più in nulla, e questo potrebbe essere molto pericoloso, perché chi non crede a niente è nella condizione psicologica di credere a tutto. Il re è nudo, ma, ahimè, sono nudi anche i suoi oppositori.
Francesco Berti
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