Cerca nel blog

venerdì 4 febbraio 2011

petr kropotkin scienza e anarchia -parte 2



parte 1= http://orizzontelibertario.blogspot.com/search?q=kropotkin


QUESTIONI DI METODO
Benché l’anarchia, in ciò simile a tutte le correnti
rivoluzionarie, sia nata in seno al popolo, nel tumulto
della lotta e non nello studio di un pensatore, è però
utile capire dove si colloca fra le diverse correnti del
pensiero scientifico e filosofico contemporaneo. Come si
pone di fronte a queste diverse correnti? A quale fa riferimento
di preferenza? Quale metodo di ricerca adopera
per avallare le sue conclusioni? In altre parole, a quale
scuola di filosofia del diritto appartiene l’anarchia? Con
quale corrente della scienza moderna presenta le maggiori
affinità?
Di fronte all’entusiasmo per la metafisica economica
che abbiamo visto recentemente nei circoli socialisti,
questa questione è di qualche interesse. Cercherò, quindi,
di rispondervi brevemente e nel modo più semplice
63
possibile, evitando i termini difficili ogni volta che si
possono evitare.
Il movimento intellettuale del XIX secolo ha le sue
origini nell’opera dei filosofi inglesi e francesi elaborata
tra la metà e la fine del secolo precedente. Il risveglio
del pensiero determinatosi in quell’epoca ispirò a questi
pensatori il desiderio di raccogliere tutte le umane conoscenze
in un sistema generale: il sistema della natura.
Rifiutando interamente la scolastica e la metafisica
medievale, ebbero il coraggio di posare il loro sguardo
su tutta la natura – il mondo delle stelle, il nostro sistema
solare, la Terra e lo sviluppo delle piante, degli animali
e delle società umane sulla sua superficie – come
su una serie di fatti che possono essere studiati allo
stesso modo in cui si studiano tutte le scienze naturali.
Avvalendosi ampiamente del vero metodo scientifico
– il metodo induttivo-deduttivo – quei pensatori intrapresero
l’esame di tutto ciò che la natura ci offre, tanto
del mondo stellare o animale quanto di quello delle credenze
e delle istituzioni umane, in modo del tutto eguale
a quello che avrebbe adoperato un naturalista per
studiare problemi di fisica.
Essi annotavano dapprima con pazienza i fatti e
quando, in seguito, si mettevano a trarne delle generalizzazioni,
lo facevano per via induttiva. Avanzavano,
naturalmente, talune ipotesi, ma a queste ipotesi non
attribuivano maggiore importanza di quella che Darwin
aveva attribuito alla sua ipotesi sull’origine delle
nuove specie nella lotta per l’esistenza, o che Mendeleeff
aveva attribuito alla sua ipotesi sulla tavola periodica
degli elementi. Essi non vi vedevano che delle supposizioni,
le quali offrivano una spiegazione provvisoria
facilitando l’aggregazione dei fatti e il loro esame, ma
non dimenticavano affatto che tali supposizioni dovevano
essere confermate dalla compatibilità con una moltitudine
di altri fatti e che andavano spiegate anche per
via deduttiva. Queste non potevano diventare «leggi»
(cioè generalizzazioni provate) se non dopo essere stata
sottoposte a tale verifica e solo dopo che le cause dei
64
rapporti costanti da loro espressi fossero state spiegate.
Quando il centro del movimento filosofico del XVIII
secolo passò dalla Scozia e dall’Inghilterra alla Francia,
i filosofi francesi, con la propensione per la sistematicità
che è loro propria, si misero a ricostruire su un piano
generale e secondo gli stessi princìpi, tutte le conoscenze
umane, naturali e storiche. Quello che tentarono
fu di fondare il sapere generale – la filosofia dell’universo
e della sua vita – con un metodo strettamente scientifico,
respingendo quindi tutte le costruzioni metafisiche
dei filosofi precedenti e spiegando tutti i fenomeni
con l’azione di quelle forze fisiche (vale a dire meccaniche)
che avevano ritenuto sufficienti a spiegare l’origine
e l’evoluzione del globo terrestre. […]
Risulta così evidente che i pensatori del XVIII secolo
non cambiavano di metodo quando nei loro studi passavano
dal mondo delle stelle a quello delle reazioni chimiche,
o dal mondo fisico e chimico a quello della vita
delle piante e degli animali, o a quello delle dinamiche
economiche e politiche della società, o delle forme evolutive
delle religioni, e così via. Il metodo era sempre lo
stesso. A tutte le branche della scienza essi applicavano
sempre il metodo induttivo. E poiché non trovarono
mai, tanto nello studio delle religioni quanto nell’analisi
del senso morale e del pensiero in generale, anche un
solo punto in cui tale metodo si rivelasse insufficiente e
un altro se ne imponesse; poiché non si videro mai
costretti a ricorrere né a concezioni metafisiche (dio,
anima immortale, forza vitale, imperativo categorico
ispirato da un essere superiore, ecc.), né a qualsivoglia
metodo dialettico, essi cercarono di spiegare tutto l’universo
e i suoi fenomeni con il sistema NATURALISTA. [...]
Quale posto occupa dunque l’anarchia nel grande
movimento intellettuale del XIX secolo? La risposta a
questa domanda è venuta delineandosi in base a quan-
65
to abbiamo già detto precedentemente. L’anarchia è
una concezione dell’universo basata su un’interpretazione
meccanica dei fenomeni (meglio sarebbe dire cinetica,
ma è parola meno conosciuta) che abbraccia tutta
la natura, ivi compresa la vita delle società. Il suo
metodo è quello delle scienze naturali, e in base a questo
metodo ogni conclusione scientifica dev’essere verificata.
La sua tendenza è di fondare una filosofia di sintesi,
che includa tutti i fatti della natura, compresa la
vita delle società umane e i loro problemi economici,
politici e morali; senza però cadere negli errori nei quali
incorsero, per le ragioni già indicate, Comte e Spencer.
È dunque evidente che per ciò stesso l’anarchia, di
fronte a tutte le questioni poste dalla vita moderna,
deve necessariamente dare risposte diverse e assumere
atteggiamenti diversi da quelli di tutti gli altri partiti
politici, non eccettuato in buona misura il Partito socialista,
che non si è ancora sbarazzato delle vecchie finzioni
metafisiche.
Indubbiamente, l’elaborazione di una concezione
meccanica complessiva della natura e delle società
umane non è che ai suoi esordi per quanto riguarda gli
aspetti sociologici, che trattano appunto della vita e
dell’evoluzione delle società. Tuttavia, il poco che si è
fatto finora presenta già – talvolta addirittura in modo
inconscio – il carattere che abbiamo indicato. Nella filosofia
del diritto, nella teoria della morale, nell’economia
politica e nello studio della storia dei popoli e delle istituzioni,
gli anarchici hanno già dimostrato di non
accontentarsi di soluzioni metafisiche, ma di voler dare
alle loro conclusioni un fondamento naturalista. Essi
non si lasciano suggestionare dalla metafisica di Hegel,
di Schelling e di Kant, dai commentatori del diritto
romano e del diritto canonico, dai dotti professori di
diritto dello Stato o dall’economia politica dei metafisici;
piuttosto, cercano di rendersi esattamente conto dei
vari problemi emersi in questi campi, rifacendosi agli
studi con la prospettiva naturalista compiuti negli ultimi
quaranta-cinquanta anni.
66
Proprio come la filosofia materialista (meccanica, o
meglio cinetica) ha abbandonato le concezioni metafisiche
del tipo «Spirito universale», «Forza creatrice della
natura», «Attrazione simpatica della materia», «Incarnazione
dell’Idea», «Finalità della Natura e sua Ragion
d’essere», «Inconoscibile», «Umanità» intesa nel senso di
entità animata dal «Soffio dello Spirito», ecc., mentre
gli embrioni delle generalizzazioni occultate dietro queste
parole sono stati tradotti nel linguaggio concreto dei
fatti, così noi ci sforziamo di fare altrettanto quando ci
mettiamo ad esaminare i fatti della vita in società.
Quando i metafisici vogliono persuadere il naturalista
che la vita intellettuale e passionale dell’uomo si
svolge secondo «le leggi immanenti dello Spirito», il
naturalista scrolla le spalle e continua la sua indagine
paziente dei fenomeni della vita, dell’intelligenza, delle
passioni, al fine di dimostrare che tutti questi possono
essere ridotti a fenomeni fisici e chimici. Egli cerca di
scoprire le loro leggi naturali.
Parimenti, quando si viene a dire ad un anarchico
che secondo Hegel «ogni evoluzione rappresenta una
tesi, un’antitesi e una sintesi», oppure che «il diritto ha
per fine l’instaurazione della giustizia, che rappresenta
la sustanziazione materiale dell’Idea suprema», o ancora
quando gli si chiede qual è secondo lui «lo scopo della
vita», anche l’anarchico scrolla le spalle e si domanda:
«Come mai, nonostante lo sviluppo attuale delle scienze
naturali, si possono trovare ancora uomini tanto arretrati
da credere a simili baggianate? Uomini tanto
retrogradi che parlano ancora la lingua del selvaggio
primitivo, il quale ‘antropomorfizzava’ la natura, credendola
governata da esseri fatti a somiglianza
dell’uomo?».
Gli anarchici non subiscono il fascino delle «parole
altisonanti» poiché sanno che queste parole servono
sempre a coprire l’ignoranza – cioè l’investigazione
incompiuta – o, il che è peggio, la superstizione. Ecco
perché, quando si parla loro questo linguaggio, passano
oltre, senza fermarsi, portando avanti il loro studio del-
67
le concezioni sociali e delle istituzioni del passato e del
presente in base al metodo naturalista. E così scoprono
che lo sviluppo della vita sociale è infinitamente più
complesso (e ben più interessante dal punto di vista
pratico) di quanto si potrebbe supporlo attenendosi alle
formulazioni precedenti.
Recentemente, si è molto sentito parlare del metodo
dialettico, che i socialdemocratici raccomandano per
elaborare l’ideale socialista. Noi non accettiamo affatto
questo metodo, che del resto non è riconosciuto da nessuna
scienza naturale. Al naturalista moderno questo
«metodo dialettico» ricorda qualcosa di molto vecchio, di
già vissuto e che fortunatamente la scienza ha dimenticato
da un pezzo. Non una delle grandi scoperte del XIX
secolo – in meccanica, astronomia, fisica, chimica, biologia,
psicologia o antropologia – si deve al metodo dialettico.
Tutte invece sono frutto del metodo induttivodeduttivo,
il solo veramente scientifico. E poiché l’uomo
è parte della natura, poiché la sua vita personale e
sociale è anch’essa un fenomeno della natura – alla
stessa stregua della crescita di un fiore o dell’evoluzione
della vita sociale di formiche e api – non vi è alcuna
ragione perché, passando dal fiore all’uomo, da un
gruppo di castori a una città umana, noi si debba
abbandonare il metodo che ci ha servito così bene fino a
questo momento per cercarne un altro nell’arsenale della
metafisica.
Il metodo induttivo-deduttivo che adoperiamo nelle
scienze naturali si è rivelato talmente efficace che, nel
corso del XIX secolo, la scienza ha fatto in cento anni
più progressi che nei due millenni precedenti. E da
quando si è cominciato (nella seconda metà di quel
secolo) ad applicare questo metodo anche allo studio
delle società umana, non ci si è mai minimamente trovati
nella necessità di doverlo rigettare per far ritorno
alla scolastica medievale resuscitata da Hegel. [...]
Aggiungiamo ancora una parola. L’indagine scientifica
non è fruttuosa se non a condizione di avere un
obiettivo determinato, d’essere, cioè, intrapresa con
68
l’intenzione di trovare una risposta a una questione
chiara e ben definita. Qualsiasi ricerca sarà tanto più
fruttuosa quanto meglio verranno identificate le relazioni
esistenti fra la questione posta e le linee fondamentali
della nostra concezione generale dell’universo.
Quanto più una data questione rientra in questa concezione
generale, tanto più facile ne sarà la soluzione.
Orbene, la questione che l’anarchia si propone di
risolvere potrebbe esprimersi come segue: «Quali sono
le forme sociali che in una data società, e per estensione
a tutta l’umanità, possono meglio garantire il massimo
di benessere e, di conseguenza, il massimo di vitalità?
Quali forme sociali favoriscono meglio l’accrescimento
di questo benessere, il suo sviluppo quantitativo e qualitativo
consentendogli così di divenire quanto più completo
e generale possibile (cosa che, sia detto fra parentesi,
ci dà anche la formula del progresso)?». Il desiderio
di aiutare in questo senso l’evoluzione determina le
caratteristiche proprie all’anarchico nella sua attività
sociale, scientifica, artistica, ecc. […]
Gli anarchici, guidati da diverse considerazioni
d’ordine storico, politico ed economico, come pure dagli
insegnamenti della vita moderna, giungono, come si è
detto, a una concezione della società ben differente da
quella cui si rifanno i vari partiti politici, che mirano
tutti ad arrivare al potere.
Noi ci rappresentiamo una società in cui le relazioni
tra i suoi membri non sono più regolate dalle leggi, eredità
d’un passato d’oppressione e barbarie, o da qualsivoglia
autorità, eletta o al potere per diritto ereditario,
ma da impegni reciproci liberamente presi e sempre
revocabili, come pure da usi e costumi liberamente concordati.
Questi costumi, però, non devono essere pietrificati
e cristallizzati dalla legge o dalla superstizione,
ma è bene che abbiano uno sviluppo continuo, adattandosi
ai nuovi bisogni, ai progressi del sapere e delle
invenzioni, e al crescere d’un ideale sociale sempre più
69
razionale ed elevato.
Quindi, nessuna autorità che imponga agli altri la
propria volontà. Nessun governo dell’uomo sull’uomo.
Nessuna immobilità nella vita, ma un’evoluzione continua,
alcune volte più rapida, altre volte più lenta, proprio
come nella vita della natura. Piena libertà d’azione
all’individuo per lo sviluppo di tutte le sue capacità
naturali, della sua individualità, di ciò che può avere
d’originale, di personale. In altre parole, nessuna azione
imposta all’individuo sotto minaccia d’una punizione
sociale, qualunque essa sia, o d’una pena soprannaturale,
mistica: la società non chiede nulla all’individuo che
questi non abbia liberamente consentito di fare nel
momento stesso in cui lo fa. E inoltre, uguaglianza completa
di diritti per tutti.
Noi siamo dunque a favore di una società di uguali,
senza alcuna coercizione di sorta, e malgrado quest’assenza
di coercizione non temiamo affatto che gli atti
antisociali di alcuni individui possano assumere in una
società di uguali proporzioni pericolose. Una società di
uomini liberi saprà salvaguardarsi meglio delle nostre
società attuali, che demandano la difesa della moralità
sociale alla polizia, alle spie, alle prigioni (università
del crimine), agli aguzzini, ai carnefici e ai loro complici.
Soprattutto, essa saprà prevenire tali atti.
È evidente che, sino ad oggi, non è mai esistita una
società che abbia praticato questi princìpi. Ma in ogni
tempo l’umanità ha manifestato una tendenza ad una
loro realizzazione. Ogni volta che certi settori della
società riuscivano, per un certo periodo, a rovesciare le
autorità che li opprimevano, o a cancellare le ineguaglianze
esistenti (schiavitù, servaggio, autocrazia,
governo di certe caste o classi); ogni volta che una nuova
luce di libertà e d’uguaglianza si sprigionava nella
società, il popolo, gli oppressi, cercavano di mettere in
pratica, anche solo parzialmente, i princìpi appena
enunciati.
Possiamo dire, quindi, che l’anarchia è uno specifico
ideale di società che differisce in modo essenziale da
70
quanto è stato preconizzato sino ad oggi dalla maggior
parte dei filosofi, degli intellettuali e degli uomini politici,
che hanno tutti avuto la pretesa di governare gli
uomini e di dar loro delle leggi. Non è mai stata l’ideale
dei privilegiati, ma è spesso stata l’ideale più o meno
cosciente delle masse.
Nondimeno, sarebbe falso affermare che questa concezione
della società sia un’utopia dato che nel linguaggio
ordinario si attribuisce a questa parola l’idea di
qualche cosa che non si può realizzare. [...]
Nel nostro caso è ancora più errato parlare d’utopia
in quanto le tendenze da noi identificate hanno già avuto
una parte assai importante nella storia della civiltà,
poiché sono esse che hanno dato origine al diritto consuetudinario,
diritto che ha dominato in Europa dal V
al XVI secolo. Ora queste tendenze si vanno nuovamente
affermando in quelle società che per più di tre secoli
hanno sperimentato lo Stato. È su questa osservazione,
la cui importanza non sfuggirà allo storico della civiltà,
che ci basiamo per considerare l’anarchia come un ideale
possibile, realizzabile. [...]
«Utopisti» sono stati coloro che, guidati solamente
dai loro desideri, non hanno voluto tener conto delle
tendenze nuove che si facevano strada; sono stati coloro
che hanno attribuito troppa stabilità alle cose del passato,
senza chiedersi se non fossero semplicemente il
risultato di certe condizioni storiche temporanee. [...]
Se i monopoli costituiti e consolidati dallo Stato cessassero
d’esistere, lo Stato stesso non avrebbe più
ragion d’essere. E una volta che i rapporti tra gli uomini
non fossero più quelli tra sfruttati e sfruttatori, nuove
forme di aggregazione sorgerebbero. La vita si semplificherebbe
se il meccanismo che permette ai ricchi di
sfruttare il lavoro dei poveri venisse disattivato.
L’idea di comunità indipendenti per aggregazioni in
base al territorio e di ampie federazioni di mestiere per
aggregazioni in base alla funzione sociale – dove le due





71
s’intersecano e cooperano al fine di soddisfare i bisogni
della società – permette agli anarchici di concepire in
modo concreto, reale, la possibile organizzazione di una
società emancipata. Non ci resta che aggiungere le
aggregazioni in base alle affinità personali – aggregazioni
innumerevoli, che possono variare all’infinito,
essere di lunga durata o effimere, costituirsi in base
alle necessità del momento e per gli scopi più disparati
– che già abbiamo visto sorgere nella società attuale al
di fuori dei raggruppamenti politici e professionali.
Questi tre tipi di aggregazione, che s’intrecciano tra
loro in una grande rete, consentirebbero di soddisfare
tutti i bisogni sociali: il consumo, la salute, l’istruzione,
la protezione reciproca dalle aggressioni, il mutuo
appoggio, la difesa del territorio, e anche la soddisfazione
dei bisogni di tipo scientifico, artistico, letterario,
ludico. Un insieme pieno di vita e sempre pronto a
rispondere con nuovi adattamenti ai nuovi bisogni e
alle nuove influenze dell’ambiente sociale e intellettuale.
Se una società di questo tipo si sviluppasse su un territorio
abbastanza vasto e popolato da permettere una
gran varietà di inclinazioni e bisogni, sarebbe subito
evidente che la coercizione di un’autorità, qualunque
essa sia, sarebbe del tutto inutile. Inutile tanto per
mantenere la vita economica della società che per impedire
la maggior parte degli atti antisociali.
In effetti, il più grave impedimento a sviluppare e
mantenere nello stato attuale il senso morale, necessario
alla vita in società, risiede innanzi tutto nell’assenza
dell’uguaglianza. Senza uguaglianza – «senza uguaglianza
di fatto», come si diceva nel 1793 – è assolutamente
impossibile che il sentimento di giustizia si generalizzi.
La giustizia non può che essere egualitaria,
mentre i sentimenti egualitari in questa nostra società
stratificata in classi sono smentiti in ogni istante e in
ogni situazione. È necessario praticare l’uguaglianza
perché i sentimenti di giustizia verso tutti entrino nei
costumi, nelle consuetudini. Ed è appunto quello che
72
accadrà in una società di uguali.
Allora, il bisogno di un’autorità coercitiva, o piuttosto
il desiderio di ricorrere alla coercizione, non si farebbe
più sentire. Si maturerebbe la convinzione che la
libertà dell’individuo non ha bisogno di essere limitata,
come lo è oggi, dal timore di una punizione, legale o
mistica, oppure dall’ubbidienza ad individui ritenuti
superiori o ad entità metafisiche create dalla paura o
dall’ignoranza; cosa che porta nella società attuale alla
servitù intellettuale, alla riduzione dell’iniziativa personale,
al decadimento del senso morale, all’arresto del
progresso.
In un contesto egualitario, l’uomo potrebbe lasciarsi
guidare con fiducia dalla propria ragione, che essendosi
sviluppata in questo stesso ambiente avrebbe necessariamente
l’impronta delle abitudini sociali che gli sono
proprie. E potrebbe dunque proporsi di conseguire il
pieno sviluppo di tutte le sue facoltà, il pieno sviluppo,
cioè, della sua individualità. All’opposto di quell’individualismo
preconizzato ai nostri giorni dalla borghesia
come un mezzo «adatto alle nature superiori» per arrivare
al pieno sviluppo dell’essere umano, che altro non
è se non un inganno. Questo individualismo è anzi
l’ostacolo più sicuro allo sviluppo di individualità forti.
[…]
Quando un economista ci viene a dire: «In un mercato
assolutamente aperto, il valore delle merci si misura
in base alla quantità di lavoro socialmente necessaria
per produrre queste merci» (si veda Ricardo, Proudhon,
Marx e tanti altri), non accettiamo quest’asserzione
come un articolo di fede solo perché è stata enunciata
da tali autorità, oppure perché appare «massimamente
socialista» affermare che il lavoro è la vera misura dei
valori mercantili. È possibile che sia vero, diciamo. Ma
non vi accorgete che, facendo questa affermazione,
ammettete implicitamente che il valore e la quantità
del lavoro necessario sono proporzionali, proprio come
73
la velocità di un corpo che cade è proporzionale ai
secondi di durata della caduta? Viene così affermata
una certa relazione quantitativa fra queste due grandezze.
E allora, avete forse fatto delle misurazioni, delle
osservazioni quantitativamente misurate, che sole
potrebbero confermare una tale asserzione a proposito
delle quantità?
Dire che in generale il valore di scambio aumenta se
la quantità di lavoro necessario è maggiore, è ammissibile.
Ed è da parecchio tempo che Adam Smith si è
espresso in questo senso. Ma concludere che, per conseguenza,
le due quantità sono proporzionali, e che una è
la misura dell’altra, significa commettere un errore
grossolano. Grossolano come affermare, ad esempio,
che la quantità di pioggia che cadrà domani sarà proporzionale
alla quantità di millimetri che il barometro
segnerà al di sotto della media stabilita per il tal luogo
e per la tal stagione. Chi per primo ha notato che esiste
una certa correlazione tra il basso livello del barometro
e la quantità di pioggia che cade, o chi per primo ha
constatato che una pietra caduta da una grande altezza
acquista una velocità superiore a una pietra caduta da
appena un metro, ha fatto delle scoperte scientifiche
(come appunto ha fatto Adam Smith per il valore). Ma
l’uomo che venisse dopo di essi ad affermare che la
quantità di pioggia caduta si misura da quanto il barometro
è sceso al di sotto della media, oppure che lo spazio
percorso da una pietra che cade è proporzionale alla
durata della caduta e si misura secondo questa, ci
direbbe delle bestialità. E proverebbe inoltre che il
metodo di ricerca scientifica gli è assolutamente estraneo
e che il suo lavoro non è scientifico, per quanto zeppo
sia di parole riprese dal gergo della scienza.
Notiamo inoltre che se a mo’ di scusa ci si nascondesse
dietro la mancanza di dati precisi per stabilire, grazie
a misurazioni esatte, il valore d’una data merce e la
quantità di lavoro necessaria per produrla, questa scusa
non sarebbe affatto unica. Conosciamo nelle scienze
esatte migliaia di casi simili, di correlazioni nelle quali
74
vediamo nettamente che una data quantità dipende da
un’altra, che una s’accresce quando l’altra pure s’accresce.
Come nel caso, ad esempio, della rapidità di sviluppo
d’una pianta che dipende, fra l’altro, dalla quantità
di calore e di luce che la pianta riceve, o come in quello
del rinculo d’un cannone che aumenta quando aumenta
la quantità di polvere bruciata nella carica.
Tuttavia, quale scienziato degno di questo nome avrà
la ridicola pretesa di affermare – prima d’aver misurato
in quantità i loro rapporti – che, di conseguenza, la
rapidità di crescita d’una pianta e la quantità di luce
ricevuta, oppure il rinculo del cannone e la carica di
polvere bruciata, sono quantità proporzionali; che l’una
aumenta due, tre, dieci volte se l’altra aumenta nella
stessa proporzione, cioè se, in altre parole, si commisurano,
come viene affermato per il valore e il lavoro da
Ricardo in poi?
E ancora, chi mai, dopo aver fatto l’ipotesi, la supposizione,
che un rapporto di tal genere esista fra le due
dette quantità, oserebbe presentare questa ipotesi come
una legge? Non ci sono che economisti o giuristi – uomini
che non hanno alcuna idea di ciò che viene concepito
come «legge» nelle scienze naturali – a fare simili affermazioni.
Generalmente, il rapporto fra due quantità è estremamente
complesso, come è appunto nel caso del valore
e del lavoro; nello specifico, il valore di scambio e la
quantità di lavoro non sono mai proporzionali l’uno
all’altra, l’uno non misura mai l’altra. È ciò che aveva
già fatto notare Adam Smith. Dopo aver detto che il
valore di scambio di ogni oggetto si misura con la quantità
di lavoro necessaria per produrre questo oggetto, si
è visto costretto ad aggiungere (in seguito ad uno studio
dei valori mercantili) che se ciò avveniva nel regime di
scambio primitivo, non era più così nel regime capitalista.
Cosa perfettamente vera. Il regime capitalista del
lavoro obbligato e dello scambio finalizzato al profitto
distrugge questi semplici rapporti e introduce parecchi
nuovi fattori che alterano i rapporti tra lavoro e valore
75
di scambio. Ignorarli vuol dire smettere di fare economia
politica. Vuol dire imbrogliare le idee e impedire lo
sviluppo della scienza economica.
L’osservazione appena fatta per il valore s’applica a
quasi tutte le affermazioni economiche che oggi circolano
come verità stabilite (specialmente tra i socialisti
che amano definirsi scientifici) e che vengono presentate,
con impagabile ingenuità, come leggi naturali. Non
solamente la maggior parte di queste pretese leggi sono
del tutto erronee, ma siamo pure convinti che coloro che
ci credono se ne accorgerebbero subito da sé se solo
arrivassero a comprendere la necessità di verificare le
loro affermazioni quantitative con delle ricerche altrettanto
quantitative.
Del resto, tutta l’economia politica si presenta a noi
anarchici sotto un aspetto differente da quello attribuitole
dagli economisti, siano essi borghesi o socialdemocratici.
Essendo il metodo scientifico induttivo assolutamente
estraneo a entrambi, non si rendono affatto conto
di cosa sia una «legge naturale», malgrado la predilezione
che hanno per questa espressione. Essi non
s’accorgono che ogni legge di natura ha un carattere
condizionale, che si esprime sempre così: «Se nella
natura si presentano queste condizioni, il risultato sarà
questo o quest’altro… Se una linea retta interseca
un’altra linea retta, in modo da formare degli angoli
uguali dalle due parti del punto d’intersezione, le conseguenze
saranno le seguenti… Se i movimenti che esistono
nello spazio interplanetario agiscono in modo
esclusivo sopra due corpi, e se dunque non si incontrano
altri corpi agenti su questi due a una distanza che
non sia infinita, allora i centri di gravità dei due corpi
si avvicinano a quella data velocità (legge della gravitazione
universale)». E così di seguito, ma sempre con il
suo se, sempre con una condizione.
Di conseguenza, tutte le pretese leggi e teorie
dell’economia politica non sono in realtà che affermazioni
che rispondono a quanto segue: «Ammettendo che
si trovi sempre in un dato Paese una quantità conside-
76
revole di persone che non possono vivere né un mese e
neppure quindici giorni senza accettare le condizioni di
lavoro che vorrà loro imporre lo Stato (sotto forma di
imposte), o che saranno loro offerte da quelli che lo Stato
riconosce come proprietari del suolo, delle officine,
delle ferrovie, ecc., ecco le conseguenze che ne risulteranno…
».
Fino ad oggi, l’economia politica non è stata altro che
una enumerazione di ciò che succede in simili condizioni:
senza però enumerare e analizzare le condizioni
stesse, senza esaminare come queste condizioni agiscano
in ogni caso particolare, né ciò che le mantiene. E se
anche capita che queste condizioni vengano ricordate in
un certo frangente, un momento dopo sono già dimenticate.
Ma gli economisti non si limitano solo a simili
dimenticanze, bensì rappresentano i fatti che si producono
in seguito a queste condizioni come leggi fatali e
immutabili.
Quanto all’economia politica socialista, è vero che
essa critica alcune di queste conclusioni, oppure ne
spiega altre in modo diverso, ma ugualmente commette
la stessa dimenticanza e, ad ogni modo, non si è ancora
tracciata un proprio cammino, rimanendo su quello vecchio.
Il massimo che ha fatto (con Marx) è stato di
riprendere le definizioni dell’economia politica metafisica
e borghese per dire: «Vedete bene che, anche accettando
le vostre definizioni, si arriva a provare che il
capitalista sfrutta l’operaio», cosa che suonerà forse
bene in una polemica, ma che non ha nulla a che vedere
con la scienza.
In generale, riteniamo che la scienza dell’economia
politica vada costituita in modo diverso: deve essere
trattata come una scienza naturale e proporsi una nuova
meta; deve occupare in rapporto alle società umane
un posto simile a quello che la fisiologia occupa in rapporto
alle piante e agli animali: deve diventare insomma
una fisiologia della società. Il suo scopo deve essere
lo studio dei bisogni sempre crescenti della società e dei
diversi mezzi impiegati per soddisfarli; deve analizzare
77
questi mezzi per vedere fino a che punto sono stati una
volta e sono oggi appropriati allo scopo; e in ultimo –
poiché lo scopo finale di ogni scienza è la previsione e
l’applicazione alla vita pratica (ed è un bel pezzo che
Bacone l’ha affermato) – essa dovrà studiare i mezzi
per meglio soddisfare la somma dei bisogni moderni e
ottenere con la minore spesa d’energia (con economia) i
migliori risultati per l’umanità in generale.
Si capisce, così, perché noi si arrivi a conclusioni tanto
differenti, sotto molti aspetti, da quelle cui giunge la
maggior parte degli economisti borghesi o socialdemocratici;
perché non riconosciamo il titolo di «leggi» a certe
correlazioni da loro indicate; perché la nostra «esposizione
» del socialismo differisce dalla loro; perché
deduciamo, dallo studio delle tendenze e delle direzioni
di sviluppo attualmente osservabili nella vita economica,
conclusioni del tutto differenti dalle loro per quanto
concerne il desiderabile e il possibile; o in altri termini,
perché noi arriviamo al comunismo libertario, mentre
essi giungono al capitalismo di Stato e al salariato collettivista.
Siamo forse noi nel torto ed essi nel vero? Può darsi.
Ma per verificare chi di noi ha torto o ragione non serve
fare dei commentari bizantini su ciò che questo o quello
scrittore ha detto o voluto dire, né parlarci della trilogia
di Hegel, né soprattutto continuare a far uso del metodo
dialettico.
Per verificarlo non si può che mettersi a studiare i
rapporti economici allo stesso modo in cui si studiano i
fatti delle scienze naturali.
78
IV
L’opera più importante di Kropotkin, Il mutuo appoggio,
è stata pubblicata per la prima volta a Londra nel
1902 e costituisce l’approdo di una lunga ricerca iniziata
una quindicina d’anni prima. La ricerca kropotkiniana
vuole dimostrare l’inconsistenza scientifica di quella
linea culturale del bellum omnium contra omnes che va
da Hobbes a Huxley, secondo cui la legge della vita si
compendia nella lotta tra le specie e tra gli individui
all’interno della stessa specie; linea che porta a riconoscere
l’ineluttabilità dell’affermarsi dei più forti. La
valenza politica di questa credenza «universale», che alla
fine del XIX secolo è riformulata sotto il nome di «darwinismo
sociale», si rintraccia nella giustificazione ideologica
al capitalismo più sfrenato e dunque la sua importanza
supera di gran lunga la cifra specificamente scientifica
della stessa teoria. È evidente che Kropotkin considera
centrale demistificare questa concezione conflittualistica
del mondo: qualora infatti risultasse che essa
risponde a verità, sarebbe allora impossibile pensare ad
una società anarchica che, al contrario, pone l’armonia,
l’uguaglianza e l’amore tra gli esseri umani quali premesse
indispensabili per il suo stesso costituirsi.
Situandosi all’opposto dell’assunto darwiniano, o
meglio della sua vulgata, Kropotkin nega che il conflitto
79
tra gli individui all’interno della stessa specie costituisca
la condizione generale dell’evoluzione, anche se
ammette l’esistenza del conflitto tra le specie. Kropotkin
vede una correlazione strettissima tra la pratica del
mutuo appoggio e la tendenza associativa, nel senso che
queste forme sono aspetti di un’unica realtà: quella della
vita in generale. La vita animale è di per se stessa
eminentemente sociale. L’associazione è la regola, la legge
della natura, perché si riscontra in tutti i gradi
dell’evoluzione.
Il «mutuo appoggio», come potente forza evolutiva,
opera oltretutto anche a livello interspecifico come «simbiosi
» (e, come simbiosi, è stata recentemente ipotizzata
addirittura la formazione di organuli intracellulari,
come i mitocondri!).
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana del 1925 de Il mutuo appoggio, nella traduzione
(rivista) di Camillo Berneri.
80
L’AIUTO RECIPROCO IN NATURA
Il concetto di lotta per l’esistenza come fattore
dell’evoluzione, introdotto nella scienza da Darwin e da
Wallace, ci ha messi in grado di includere un vasto
insieme di fenomeni in un’unica generalizzazione, che è
ben presto divenuta la base stessa delle nostre speculazioni
filosofiche, biologiche e sociologiche. Un’immensa
varietà di fatti – adattamento della funzione e della
struttura degli organismi viventi al proprio ambiente;
evoluzione fisiologica e anatomica; progresso intellettivo
e sviluppo morale – che venivano spiegati un tempo
con tante cause diverse, sono stati riuniti da Darwin in
un’unica concezione generale. Egli vi ha identificato
uno sforzo continuo, una lotta contro le circostanze
avverse, per lo sviluppo degli individui, delle razze, delle
specie e delle società, teso al massimo della pienezza,
81
della varietà e dell’intensità di vita. Può anche darsi
che, da principio, lo stesso Darwin non si sia reso perfettamente
conto dell’importanza ben più generale del
fattore da lui primariamente individuato solo per spiegare
una serie di fatti relativi all’accumularsi di variazioni
individuali nelle specie nascenti. Ma egli stesso
aveva previsto che il termine che stava introducendo
nella scienza avrebbe perso il suo significato filosofico, e
più vero, se fosse stato impiegato esclusivamente nel
senso più ristretto: quello di una lotta fra singoli individui
per i puri mezzi di sopravvivenza. Già nei primi
capitoli della sua memorabile opera insisteva perché il
termine fosse preso nel suo «senso largo e metaforico,
che comprende l’interdipendenza degli esseri viventi e
che comprende inoltre (cosa ancor più importante) non
soltanto la vita dell’individuo ma anche il successo della
sua discendenza» (L’origine delle specie, cap. III). [...]
La teoria di Darwin ha avuto la sorte di tutte le teorie
che trattano dei rapporti umani. Invece di svilupparla
secondo gli indirizzi che le erano propri, i suoi
continuatori l’hanno sempre più ridotta. E mentre Herbert
Spencer, partendo da osservazioni indipendenti
ma analoghe, ha tentato di allargare la discussione
ponendo il grande quesito su chi sono i più adatti (in
modo particolare nell’appendice alla terza edizione di
Princìpi di etica), gli innumerevoli seguaci di Darwin
hanno ridotto la nozione di lotta per l’esistenza al suo
più angusto significato. Essi sono arrivati a concepire il
mondo animale come un mondo di lotta perpetua fra
individui affamati, assetati di sangue, facendo risuonare
la letteratura contemporanea del grido di guerra
«Guai ai vinti», come se fosse questa l’ultima parola della
moderna biologia. E per interessi personali hanno
elevato questa lotta «spietata» all’altezza di principio
biologico, al quale anche l’uomo deve sottomettersi, sotto
pena di soccombere in un mondo fondato sul reciproco
sterminio. Lasciando da parte gli economisti, che di
scienze naturali non sanno che qualche parola presa a
prestito dai divulgatori di seconda mano, bisogna rico-
82
noscere che anche i più autorevoli interpreti di Darwin
hanno fatto del loro meglio per consolidare queste false
idee. [...]
[Viceversa] quando studiamo gli animali, non soltanto
nei laboratori e nei musei ma anche nelle foreste e
nelle praterie, nelle steppe e sulle montagne, ci accorgiamo
subito che, benché in natura siano fortemente
presenti la guerra e lo sterminio fra specie diverse, e
soprattutto fra differenti classi di animali, vi si ritrova
al contempo altrettanto se non più mutuo appoggio,
mutua assistenza e mutua difesa tra gli animali appartenenti
alla stessa specie, o almeno allo stesso gruppo
sociale. La socialità è una legge della natura tanto
quanto la lotta reciproca. È senza dubbio molto difficile
valutare, anche approssimativamente, l’importanza
percentuale di queste due serie di fatti. Ma se ricorriamo
a una testimonianza indiretta e domandiamo alla
natura: «Quali sono i più adatti: coloro che sono continuamente
in lotta tra loro, o coloro che si aiutano l’un
l’altro?», vediamo che i più adatti sono, senza dubbio,
gli animali che hanno acquisito abitudini di solidarietà.
Essi hanno maggiori probabilità di sopravvivere e raggiungono,
nelle loro rispettive classi, il più alto sviluppo
delle capacità intellettive e fisiche. Se gli innumerevoli
fatti che possono esser citati a sostegno di questa tesi
vengono presi in considerazione, possiamo affermare
con certezza che il mutuo appoggio è una legge della
vita animale tanto quanto la lotta reciproca, ma che,
come fattore dell’evoluzione, il primo ha probabilmente
un’importanza decisamente maggiore in quanto favorisce
lo sviluppo delle abitudini e dei caratteri più adatti
ad assicurare la preservazione e lo sviluppo della specie,
oltre a procurare con una minor perdita di energia
una maggior quantità di benessere e di felicità per ciascun
individuo. […]
83
Quando si comincia a studiare la lotta per l’esistenza
sotto i suoi due aspetti, quello proprio e quello metaforico,
ciò che colpisce subito è l’abbondanza di dati sul
mutuo appoggio, e non soltanto per quanto riguarda
l’allevamento della prole, come riconosce la maggior
parte degli evoluzionisti, ma anche la sicurezza
dell’individuo e il procacciamento del cibo necessario. In
molte categorie del regno animale l’aiuto reciproco è la
regola. Si va scoprendo il mutuo appoggio anche fra gli
animali più in basso nella scala evolutiva, ed è lecito
aspettarsi che, prima o poi, i ricercatori che studiano al
microscopio la vita elementare individuino forme di
mutuo appoggio incosciente anche fra i microrganismi.
Vero è che la nostra conoscenza degli invertebrati, a
eccezione delle termiti, delle formiche e delle api, è
estremamente limitata; e tuttavia, anche in ciò che concerne
gli animali inferiori possiamo raccogliere alcuni
dati, opportunamente verificati, di cooperazione. Le
innumerevoli società di cavallette, farfalle, cicindelidi,
cicale, ecc., sono in realtà pochissimo conosciute, ma il
fatto stesso della loro esistenza indica che esse devono
essere organizzate più o meno secondo gli stessi princìpi
delle società temporanee di formiche e api finalizzate
alle migrazioni. Quanto ai coleotteri, abbiamo fenomeni
di mutuo appoggio perfettamente osservabili fra i
necrofori. Questi hanno bisogno di materia organica in
decomposizione per deporvi le uova e per assicurare il
nutrimento delle larve. Ma questa materia organica
non deve decomporsi troppo rapidamente, così hanno
l’abitudine di sotterrare nel suolo i cadaveri di piccoli
animali di ogni specie che incontrano sul proprio cammino.
Di norma vivono isolati, ma quando uno di loro
scopre il cadavere di un topo o di un uccello che gli riuscirebbe
difficile seppellire da solo, chiama quattro, sei
o persino dieci altri necrofori per portare a termine
l’operazione riunendo gli sforzi; se necessario, trasportano
il cadavere in un terreno morbido e ve lo seppelliscono,
dando prova di molto buon senso e senza poi
entrare in conflitto per scegliere colui che avrà il privi-
84
legio di deporre le uova nel corpo sepolto. [...]
Anche da questa breve rassegna possiamo vedere
come la vita in società non costituisca l’eccezione nel
mondo animale: essa è piuttosto la regola, la legge della
natura che raggiunge il suo completo sviluppo nei vertebrati
superiori. Le specie che vivono isolate o in piccole
famiglie sono relativamente poche e il numero dei
loro membri limitato. Sembra anzi molto probabile che,
tranne qualche eccezione, gli uccelli ed i mammiferi che
attualmente non sono gregari, vivessero in società prima
che l’uomo invadesse il globo, intraprendendo una
guerra permanente contro di essi o semplicemente
distruggendo le loro fonti primarie di nutrimento. «Non
ci si associa per morire», è stata l’acuta osservazione di
Espinas; e Houzeau, che ha studiato la fauna di certe
regioni dell’America quando questo Paese non era ancora
stato modificato dall’uomo, ha scritto nel medesimo
senso.
La socialità si riscontra nel mondo animale in tutti i
gradi dell’evoluzione, e secondo la grande idea di Herbert
Spencer, brillantemente sviluppata in Colonie animali
di Périer, nel regno animale essa è all’origine stessa
dell’evoluzione. Ma via via che si sale nella scala evolutiva,
possiamo notare come la socialità divenga sempre
più cosciente: essa perde il suo carattere puramente
fisico, cessa di essere semplicemente istintiva, e diventa
razionale. Nei vertebrati superiori è periodica, ovvero
gli animali vi ricorrono per la soddisfazione di un bisogno
particolare: la continuazione della specie, le migrazioni,
la caccia o la reciproca difesa. Si produce anche
accidentalmente, ad esempio quando alcuni uccelli
s’associano contro un predatore o quando alcuni mammiferi,
sotto la pressione di circostanze eccezionali, si
aggregano per migrare. In quest’ultimo caso è una vera
e propria deroga volontaria ai costumi abituali.
L’aggregazione appare qualche volta a due o più gradi:
la famiglia dapprima, poi il gruppo, ed infine l’associa-
85
zione di gruppi abitualmente sparpagliati, ma che si
riuniscono in caso di necessità, come abbiamo visto
presso i bisonti e presso altri ruminanti. Questa associazione
può prendere anche forme più sofisticate, assicurando
maggiore indipendenza all’individuo senza privarlo
dei vantaggi della vita sociale. Presso quasi tutti i
roditori, l’individuo ha una sua tana particolare nella
quale può ritirarsi quando preferisce restare solo, ma
queste tane sono disposte in villaggi e in città così da
assicurare a tutti gli animali che vi abitano i vantaggi e
le gioie della vita sociale. Infine, presso varie specie
come i topi, le marmotte, le lepri, ecc., la vita sociale è
mantenuta nonostante il carattere litigioso e alcune
tendenze egoistiche del singolo individuo. Tuttavia,
questa associazione non è imposta, come nel caso delle
formiche e delle api, dalla struttura fisiologica degli
individui, ma è coltivata per i benefici che derivano dal
mutuo appoggio o per i piaceri che essa procura. Questo,
naturalmente, si realizza in tutti i gradi possibili e
con la maggiore varietà di caratteri individuali e specifici,
e la varietà stessa degli aspetti che assume la vita
in società è una conseguenza, e per noi una prova in
più, della sua generalità.
Solo recentemente la socialità, vale a dire il bisogno
dell’animale di associarsi con i suoi simili, l’amore della
società per la sua stessa salvaguardia, combinato alla
«gioia di vivere», hanno cominciato a ricevere dagli zoologi
l’attenzione che meritano. […]
Gli esempi citati ci hanno mostrato come la vita in
società sia l’arma più potente nella lotta per l’esistenza
presa nel senso più ampio del termine, e sarebbe agevole
portare ulteriori prove, ammesso che fosse necessario.
La vita in comune rende gli insetti, gli uccelli e i
mammiferi più deboli capaci di lottare e di proteggersi
contro i più temibili carnivori o contro i rapaci; essa
favorisce la longevità; rende le specie in grado di allevare
la loro prole con un minimo dispendio di energia, e di
86
mantenere altresì un numero sufficiente di membri
anche se la loro natalità è ridottissima; consente agli
animali gregari di migrare in cerca di nuovi habitat.
Dunque, pur ammettendo pienamente che la forza, la
rapidità, la colorazione mimetica, l’astuzia, la resistenza
alla fame e alla sete, ricordati da Darwin e Wallace,
siano qualità che rendono l’individuo o la specie più
adatti in certe circostanze, affermiamo che, in ogni circostanza,
la socialità rappresenta un grande vantaggio
nella lotta per l’esistenza. Le specie che, volontariamente
o no, abbandonano quest’istinto associativo, sono
condannate a regredire. Viceversa, gli animali che
meglio sanno mettersi insieme hanno le maggiori probabilità
di sopravvivenza e di ulteriore evoluzione, e
questo anche se sono inferiori ad altri animali in ciascuna
delle facoltà enumerate da Darwin e Wallace,
con l’eccezione di quella intellettiva. I vertebrati superiori,
e gli uomini in particolare, sono la prova migliore
di quest’asserzione. Quanto alla facoltà intellettiva, se
tutti i darwinisti sono d’accordo con Darwin nel pensare
che è l’arma più possente nella lotta per la vita e il fattore
più potente di ulteriore evoluzione, non potranno
non ammettere altresì che l’intelligenza è una qualità
eminentemente sociale. Il linguaggio, l’imitazione e le
esperienze accumulate sono altrettanti elementi di progresso
intellettuale che mancano all’animale non sociale.
Così, troviamo in cima alle differenti classi di animali
le formiche, i pappagalli e le scimmie, che uniscono
tutte un alto grado di socialità con un alto grado di sviluppo
intellettivo. I più adatti alla vita sono dunque gli
animali più socievoli, e la socialità appare come uno dei
principali fattori dell’evoluzione, sia direttamente, assicurando
il benessere della specie e diminuendo nel contempo
l’inutile dispendio di energia, sia indirettamente,
favorendone lo sviluppo intellettivo.
È inoltre evidente che la vita in società sarebbe assolutamente
impossibile senza un corrispondente incremento
dei sentimenti sociali, e particolarmente di un
certo senso di giustizia collettiva che tende a divenire
87
consuetudinario. Se ciascun individuo commettesse
costantemente abusi a suo personale vantaggio, senza
che gli altri intervenissero in favore di chi ne viene leso,
nessuna vita sociale sarebbe possibile. Sentimenti di
giustizia si sviluppano quindi, più o meno, presso tutti
gli animali che vivono in gruppi. [...]
Se la visione sviluppata nelle pagine precedenti è
valida, il quesito che necessariamente ne deriva è fino a
che punto questi fatti sono congruenti con la teoria della
lotta per l’esistenza così come l’hanno esposta
Darwin, Wallace e i loro discepoli. Cercherò ora di dare
brevemente una risposta a questo quesito. Innanzi tutto
nessun naturalista può dubitare che l’idea di una lotta
per l’esistenza estesa a tutta la natura organica non
sia la più importante generalizzazione dell’ultimo secolo.
La vita è lotta, e in questa lotta il più adatto sopravvive.
Ma davanti a domande come: «Quali sono le armi
più adatte a sostenere questa lotta?», le risposte differiscono
grandemente a seconda dell’importanza data ai
due diversi aspetti di questa lotta, di cui uno è proprio,
la lotta per il nutrimento e la sicurezza dei singoli individui,
mentre l’altro è la lotta che Darwin descriveva
come «metaforica», lotta molto spesso collettiva contro
le circostanze avverse. Nessuno può negare che ci sia,
in seno a ciascuna specie, una certa competizione effettiva
per il nutrimento, quantomeno in certi periodi. Ma
la questione è sapere se la lotta ha le proporzioni sostenute
da Darwin o anche da Wallace, e se questa lotta
ha esercitato nell’evoluzione del regno animale il compito
che le si attribuisce.
L’idea che permea l’opera di Darwin è certamente
quella di una reale competizione all’interno di ogni
gruppo animale per il cibo, la sicurezza individuale e la
riproduzione. Il grande naturalista parla spesso di
regioni così piene di vita animale che non potrebbero
contenerne di più; da questa sovrappopolazione deriva
la necessità della competizione. Ma quando cerchiamo
88
nella sua opera prove concrete di questa lotta, dobbiamo
confessare che non le troviamo sufficientemente
convincenti. Se facciamo riferimento al paragrafo intitolato
La lotta per la vita è più aspra tra gli individui e
le sottoclassi della stessa specie, non vi riscontriamo
quell’abbondanza di prove e di esempi che solitamente
troviamo negli scritti di Darwin. La lotta tra individui
della stessa specie non è confermata, in questo stesso
paragrafo, da alcun esempio: è data per scontata. E la
lotta tra le specie strettamente imparentate non è provata
che da cinque esempi, di cui uno almeno (concernente
due specie di tordi) sembra ora da porsi in dubbio.
Ma quando cerchiamo maggiori particolari per stabilire
fino a che punto il declinare d’una specie sia stato
causato dall’espandersi di un’altra specie, Darwin con
la sua buona fede abituale ci dice: «Possiamo vagamente
intravedere perché la competizione debba essere più
accanita tra specie simili che quasi occupano la stessa
collocazione in natura; ma probabilmente in nessun
caso riusciremo a dire con precisione perché una specie
trionfi su un’altra nella grande battaglia della vita».
Quanto a Wallace, che cita gli stessi fatti sotto un
titolo leggermente modificato, La lotta per la vita tra gli
animali e le piante strettamente imparentati è spesso
delle più aspre, fa la seguente osservazione che dà
tutt’altro aspetto ai fatti sopra citati [i corsivi sono
miei]: «In alcuni casi, si ha senza dubbio una vera guerra
tra le due specie, in cui la più forte uccide la più
debole, ma questo non è in alcun modo necessario, e ci
possono essere casi in cui la specie più debole trionferà
fisicamente per le sue capacità di riproduzione più rapida,
per la sua maggiore resistenza ai mutamenti climatici,
o per la sua superiore abilità nello sfuggire ai
comuni nemici».
In questi casi ciò che viene chiamata competizione
può non essere affatto una vera competizione. Una specie
soccombe non perché sia sterminata o affamata da
un’altra specie, ma perché non s’adatta bene alle nuove
condizioni, mentre l’altra ci si adatta. Di nuovo, l’e-
89

spressione «lotta per la vita» è qui impiegata in senso
metaforico, e non può averne altro. Quanto all’effettiva
competizione tra individui della stessa specie, di cui si
parla in un altro passo relativo ad una mandria in Sud
America durante un periodo di siccità, il valore dell’esempio
è diminuito dal fatto che si tratta di animali
domestici. In condizioni simili, i bisonti migrano allo
scopo d’evitare la lotta. Per quanto dura sia la lotta delle
piante – cosa abbondantemente provata – non possiamo
che ripetere l’osservazione di Wallace, il quale fa
rilevare che «le piante vivono dove possono», mentre gli
animali hanno in larga misura la possibilità di scegliere
il proprio habitat. E allora ci chiediamo di nuovo: fino a
che punto la competizione esiste realmente in ogni specie
animale? Su cosa viene basata questa opinione?
Occorre fare la stessa osservazione anche a proposito
dell’argomento indiretto a favore di un’implacabile competizione
e di una lotta per la vita in seno ad ogni specie,
argomento che si basa sullo «sterminio delle varietà
transitorie» così di frequente ricordato da Darwin. Si sa
che per lungo tempo Darwin si è arrovellato sulla difficoltà
che individuava nell’assenza di una ininterrotta
catena di forme intermedie tra le specie prossime, e che
ha poi identificato la soluzione di questa difficoltà nel
supposto sterminio delle forme intermedie. Tuttavia,
un’attenta lettura dei differenti capitoli nei quali
Darwin e Wallace parlano di tale soggetto, ci porta ben
presto alla conclusione che non bisogna intendere «sterminio
» nel senso letterale della parola; la stessa osservazione
fatta da Darwin sull’espressione «lotta per la
vita» s’applica anche alla parola «sterminio»: non deve
essere presa in senso proprio, bensì «in senso metaforico
».
Se partiamo dalla supposizione che un dato spazio è
popolato da animali al massimo della sua capacità e
che, di conseguenza, si scatena un’aspra competizione
tra tutti i suoi abitanti per assicurarsi il cibo quotidiano,
allora la comparsa di una nuova varietà vincente
significherebbe in molti casi (benché non sempre) la
90
comparsa di individui capaci di appropriarsi di una
quota superiore alla loro porzione di mezzi di sussistenza.
Il risultato sarebbe che, affamandole, questi individui
trionferebbero prima sulla varietà primitiva che
non possiede le nuove modificazioni e poi sulle varietà
intermedie che non le posseggono al medesimo grado. È
possibile che dapprima Darwin si sia rappresentato in
questo modo la comparsa di nuove varietà, o almeno
l’impiego frequente della parola «sterminio» dà questa
impressione. Ma Darwin e Wallace conoscevano troppo
bene la natura per non accorgersi che questo processo
di cose non è il solo possibile, e oltretutto non è affatto
necessario.
Se le condizioni fisiche e biologiche d’una data regione,
l’estensione dell’area occupata da una specie e le
abitudini dei membri di questa specie restassero invariate,
la comparsa subitanea d’una nuova varietà in tali
condizioni potrebbe significare l’annientamento per
fame e lo sterminio di tutti gli individui non sufficientemente
dotati delle nuove qualità proprie alla nuova
varietà. Ma un tale concorso di circostanze è precisamente
ciò che in natura non si vede. Ogni specie tende
continuamente a estendere il proprio territorio; le
migrazioni verso nuovi spazi sono la regola, tanto presso
la lenta lumaca quanto presso il rapido uccello; le
condizioni fisiche si trasformano incessantemente in
ogni regione; e le nuove varietà animali in un gran
numero di casi, se non nella maggioranza, si formano
non grazie allo sviluppo di nuove armi capaci di strappare
il nutrimento ai propri simili – il nutrimento non è
che una delle centinaia di condizioni necessarie alla
vita – ma, come lo stesso Wallace mostra in un interessante
paragrafo sulla «divergenza dei caratteri», grazie
all’adozione di nuove abitudini, allo spostamento verso
nuovi habitat e all’assunzione di nuovi alimenti. In questi
casi non ci sarà sterminio e neppure competizione,
poiché il nuovo adattamento porta ad attenuare la competizione,
ammesso che effettivamente ci fosse. Tuttavia
ci sarà, dopo un certo periodo, assenza di forme
91
intermedie, semplicemente per effetto della sopravvivenza
dei meglio dotati rispetto alle nuove condizioni; e
ciò sempre nell’ipotesi dello sterminio delle forme primitive.
È appena necessario aggiungere che se ammettiamo
con Spencer, con tutti i lamarckiani e con Darwin
stesso, l’influsso moderatore dell’ambiente sulle specie,
diventa ancor meno necessario ammettere lo sterminio
delle forme intermedie. […]
Fortunatamente la competizione non è la regola né
nel mondo animale né nel genere umano. Negli animali
è ristretta a periodi eccezionali, mentre la selezione
naturale trova occasioni decisamente migliori per operare.
Condizioni migliori sono appunto create dalla eliminazione
della competizione per mezzo del reciproco
aiuto e del mutuo appoggio. Nella grande lotta per la
vita – per una vita di massima pienezza e intensità a
fronte di un minimo dispendio di energia – la selezione
naturale cerca sempre i mezzi per evitare la competizione
per quanto è possibile. [...]
È questa la tendenza della natura, sempre presente
pur se non sempre pienamente realizzata. È questa la
parola d’ordine che ci viene dal cespuglio e dalla foresta,
dal fiume e dall’oceano: «Unitevi! Praticate il
mutuo appoggio! Esso è il mezzo più sicuro per dare a
tutti e a ciascuno il massimo di sicurezza, è la migliore
garanzia di esistenza e di progresso fisico, intellettuale
e morale». Ecco ciò che la natura ci insegna, e che quegli
animali che hanno raggiunto la più elevata posizione
nelle loro rispettive classi mettono in pratica. Ma è
pure ciò che l’uomo, anche l’uomo più primitivo, ha fatto;
ed è proprio per questo che l’uomo ha potuto raggiungere
la posizione che occupa attualmente, come
vedremo nel capitolo seguente, consacrato al mutuo
appoggio nelle società umane.
92
V
Lo stesso paradigma interpretativo che regge l’idea
dell’aiuto intraspecifico costituisce anche la base teorica
del concetto di solidarietà, le cui linee di fondo sono
ricavate, non a caso, dal Mutuo appoggio, con la differenza
però che qui l’attenzione è rivolta al mondo storico-
umano. La filosofia kropotkiniana della storia è debitrice
dell’evoluzionismo in quanto afferma l’esperienza
comune dell’umanità, nel senso che le necessità della
vita sono sostanzialmente le stesse, così che nel corso del
tempo gli uomini finiscono per percorrere canali pressoché
uniformi.
Secondo Kropotkin la storia dell’uomo non ha fondazione
autonoma, non è creatrice di proprie forme e di
proprie leggi, perché è una variabile della più grande
storia della natura; come questa, a sua volta, non è altro
che l’espressione dinamica della vita intesa nel senso
universale del termine. Le leggi di questa si impongono
alle vicende degli uomini e perciò, da questo punto di
vista, la lotta tra libertà e autorità, tra uguaglianza e
disuguaglianza si delinea quale momento di una continua
opposizione trasversale tale da determinare tutti i
possibili comportamenti storici. Ne consegue che nel
pensiero kropotkiniano non c’è un concetto di lotta sociale
inteso quale lotta di classe, appunto perché il conflitto
93
non è precipuo di una specifica situazione spazio-temporale,
ma scaturisce da una contrapposizione universale:
il mutuo appoggio e la lotta sono momenti che attraversano
tutta la storia dell’uomo essendo insiti alle leggi
della vita; anzi, sono la vita stessa intesa sul piano storico-
umano.
Per mettere in luce la pratica della solidarietà, egli
sceglie l’età medievale e moderna perché, a suo giudizio,
questo periodo mostra con maggior chiarezza lo spirito
comunitario. L’età comunale raffigura, in generale, un
modello societario fondato sull’autonomia e sulla decentralizzazione.
Testimonia un’epoca di libertà e di creatività
popolare, di autonoma iniziativa individuale e di
spontanea edificazione collettiva, premesse fondamentali
per una democrazia dal basso e per un esercizio effettivo
del potere da parte del popolo. La linfa vitale della
storia, la sua ricorrente fecondità creativa, si rinviene
nelle masse popolari anonime che con le loro migliaia di
atti quotidiani di concreta e spontanea solidarietà collettiva
hanno contribuito alla costruzione societaria, a
stratificare cioè, nel corso dei secoli, quella civiltà selezionata
di pratiche, di consuetudini e di saperi che globalmente
costituiscono il work in progress della perfettibilità
umana.
La sua tesi si riallaccia comunque, senza soluzione di
continuità, con l’idea proudhoniana dell’autonomia del
sociale rispetto all’eteronomia del politico; vuole confermare
l’esistenza di una spontanea autofondazione della
società quale premessa storica decisiva per concepire la
possibilità di una sua edificazione anarchica.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana del 1925 de Il mutuo appoggio, nella traduzione
(rivista) di Camillo Berneri.
94
LA SOLIDARIETÀ UMANA
Nel precedente capitolo è stata brevemente analizzata
l’immensa parte avuta dal mutuo appoggio nell’evoluzione
del mondo animale. Occorre ora gettare uno
sguardo sulla parte avuta da questo stesso fattore
nell’evoluzione del genere umano. Abbiamo visto come
siano rare le specie animali che vivono isolate e come
numerose siano quelle che vivono in società per la difesa
reciproca, per la caccia, per immagazzinare le provviste,
per allevare la prole o semplicemente per godere
della vita in comune. Abbiamo anche visto che sebbene
avvengano guerre tra le diverse classi di animali e le
diverse specie, o anche tra i diversi gruppi della stessa
specie, la concordia e il mutuo appoggio sono la regola
all’interno dei gruppi e delle specie; e abbiamo anche
visto che le specie che meglio sanno unirsi ed evitare la
95
competizione hanno le maggiori probabilità di sopravvivere
e di svilupparsi ulteriormente. Queste prosperano,
mentre le specie non sociali deperiscono.
Sarebbe dunque del tutto contrario a quello che sappiamo
della natura se gli uomini facessero eccezione a
una regola così generale, e cioè che una creatura disarmata,
come fu l’uomo alla sua origine, avesse trovato
sicurezza e progresso non nel mutuo soccorso, come gli
altri animali, ma nella sfrenata competizione per il
vantaggio personale senza riguardo per gli interessi
della specie. Per una mente abituata all’idea di unità in
natura, una tale affermazione sembra assolutamente
insostenibile. Tuttavia, per quanto improbabile e non
filosofica sia, non ha mai mancato di partigiani. Vi sono
sempre stati pensatori che hanno giudicato con pessimismo
il genere umano. Essi lo conoscono più o meno
superficialmente nei limiti della loro esperienza; sanno
della storia ciò che ne dicono gli annali, sempre attenti
alle guerre, alle crudeltà, all’oppressione, e a nient’altro.
E ne concludono che il genere umano non è altro
che una fluttuante aggregazione di individui sempre
pronti a battersi l’uno contro l’altro e trattenuti dal farlo
solo grazie all’intervento di una qualche autorità.
È stato appunto questo l’atteggiamento assunto da
Hobbes. E se alcuni dei suoi successori del XVIII secolo
si sono sforzati di provare che in nessuna epoca della
sua esistenza, neppure nella più primitiva, l’uomo ha
vissuto in uno stato di guerra permanente, ma che è
stato sociale anche allo «stato di natura», e che è stata
l’ignoranza, piuttosto che le sue cattive tendenze naturali,
a spingere il genere umano agli orrori delle prime
epoche storiche, la scuola di Hobbes ha continuato ad
affermare, al contrario, che il preteso «stato di natura»
altro non era se non una guerra permanente tra individui
accidentalmente riuniti dal semplice capriccio della
loro bestiale esistenza.
È senza dubbio vero che la scienza, dopo Hobbes, ha
fatto progressi e che per ragionare su questo soggetto
abbiamo ora basi più sicure di quelle a disposizione di
96
Hobbes e di Rousseau per le loro speculazioni. Ciononostante,
la filosofia di Hobbes ha ancora numerosi ammiratori,
tanto che ultimamente tutta una scuola di pensatori,
applicando la terminologia di Darwin più che le
sue idee fondamentali, ne ha tratto degli argomenti
favorevoli alle opinioni di Hobbes sull’uomo primitivo,
riuscendo persino a dar loro parvenza scientifica. Huxley,
come si sa, si è messo a capo di questa scuola e, in
un articolo scritto nel 1888, ha presentato gli uomini
primitivi come delle tigri o dei leoni, privi di qualsiasi
concezione etica, capaci di spingere la lotta per l’esistenza
fino ai più crudeli eccessi, impegnati in una vita
di «sfrenato combattimento continuo». Per citare le sue
parole, «al di fuori dei ristretti e temporanei legami
familiari, la guerra hobbesiana di tutti contro tutti era
lo stato normale dell’esistenza».
Si è fatto notare più d’una volta che l’errore principale
di Hobbes, come dei filosofi del XVIII secolo, è stato di
supporre che il genere umano sia cominciato sotto forma
di piccole famiglie isolate, un po’ simili alle famiglie
«limitate e temporanee» dei grandi carnivori, mentre
ora si sa in modo certo che non è avvenuto così. Beninteso,
non abbiamo testimonianze dirette sul modo di
vivere dei primi esseri umani. Non siamo nemmeno certi
dell’epoca della loro prima comparsa, anche se attualmente
i geologi sono inclini a individuarne le prime
tracce nel pliocene o addirittura nel miocene, sedimenti
dell’era terziaria. Ma abbiamo il metodo indiretto che ci
permette di gettare qualche luce su questa remota antichità.
Un’indagine minuziosa delle istituzioni sociali dei
popoli primitivi è stata fatta durante gli ultimi quarant’anni,
ed essa ha individuato nelle istituzioni attuali
tracce di istituzioni molto più antiche, scomparse da
lungo tempo, che tuttavia hanno lasciato indiscutibili
segni della loro esistenza anteriore. Tutta una scienza
consacrata alle origini delle istituzioni umane s’è così
sviluppata grazie ai lavori di Bachofen, MacLennan,
Morgan, Edwin Tylor, Maine, Post, Kovalevsky, Lub-
97
bock e parecchi altri, stabilendo con certezza che l’umanità
non ha incominciato sotto forma di piccole famiglie
isolate.
Lungi dall’essere una forma primitiva di organizzazione,
la famiglia è un prodotto molto tardivo dell’evoluzione
umana. Per quanto indietro ci si possa spingere
con la paleoetnologia, troviamo uomini che vivono in
società, in gruppi simili a quelli dei mammiferi superiori;
ed è poi stata necessaria un’evoluzione estremamente
lenta e lunga per condurre questo tipo di società
all’organizzazione clanica, che è passata a sua volta
attraverso un’altra lunghissima evoluzione prima che i
germi della famiglia, poligama o monogama, potessero
apparire. Dunque, sono stati i gruppi, le bande, le tribù
– e non le famiglie – le forme primitive di organizzazione
umana presso gli antenati più remoti. Cosa cui è
arrivata l’etnologia dopo laboriose ricerche, arrivando a
dimostrare semplicemente quello che uno zoologo
avrebbe potuto prevedere. Nessuno dei mammiferi superiori
– eccetto qualche carnivoro e qualche primate,
come gli orangutan e i gorilla, la cui decadenza è indubitabile
– vive in piccole famiglie isolate erranti nella
foresta. Tutti vivono in società. E lo stesso Darwin,
peraltro, avendo ben capito che i primati solitari non
avrebbero mai potuto trasformarsi in esseri umani, ne
ha indotto che l’uomo discende da una specie relativamente
debole, ma sociale, quale è quella degli scimpanzé
piuttosto che da una specie più forte, ma non
sociale, quale è quella dei gorilla. La zoologia e la
paleoetnologia sono così d’accordo nel ritenere che il
branco, e non la famiglia, è stata la prima forma di vita
sociale. Le prime società umane non sono state altro
che uno sviluppo ulteriore di quelle forme associative
che avevano costituito l’essenza stessa della vita presso
gli animali superiori. [...]
Non si può studiare l’uomo primitivo senza essere
profondamente colpiti dalla socialità della quale dà pro-



98
va fin dai primi passi della vita. Tracce di società umane
sono state trovate nei reperti dell’età paleolitica e
neolitica, e quando studiamo i selvaggi contemporanei,
il cui genere di vita è ancora quello dell’uomo neolitico,
li troviamo strettamente uniti dall’antichissima organizzazione
clanica, che permette loro di mettere insieme
le capacità individuali, altrimenti deboli, di godere
della vita in comune e così di progredire. In natura,
l’uomo non è un’eccezione, ma si conforma anche lui al
grande principio del mutuo appoggio, che dà le migliori
probabilità di sopravvivenza a quelli che sanno meglio
aiutarsi nella lotta per l’esistenza. Tali sono le conclusioni
alle quali siamo giunti nel precedente capitolo.
Tuttavia, quando arriviamo a un grado più alto di
civiltà e ci rivolgiamo alla storia, che ha già qualche
cosa da dire su questo periodo, siamo colpiti dalle lotte
e dai conflitti che rivela. Gli antichi legami sembrano
essere interamente spezzati: si vedono clan combattere
altri clan, tribù contro tribù, individui contro individui.
Dal caos e dallo scontro di queste forze ostili, il genere
umano esce diviso in caste, asservito a despoti, separato
in Stati sempre pronti a farsi guerra. Basandosi su
questa storia del genere umano, il filosofo pessimista
conclude trionfalmente che la guerra e l’oppressione
sono l’essenza stessa della natura umana, che gli istinti
di guerra e di rapina dell’uomo possono esser contenuti
entro certi limiti solo da una forte autorità che lo
costringa alla pace, concedendo a un pugno degli uomini
più nobili l’opportunità di progettare per il genere
umano una vita migliore per il futuro.
Tuttavia, da quando la vita quotidiana degli esseri
umani in periodo storico è stata sottoposta ad una più
accurata analisi, com’è avvenuto recentemente in
numerosi e pazienti studi sulle istituzioni dei tempi
remoti, questa vita appare sotto un aspetto del tutto
differente. Se lasciamo da parte le idee preconcette della
maggior parte degli storici e la loro marcata predilezione
per gli aspetti drammatici della storia, ci rendiamo
conto che sono propri i documenti che studiamo ad
99
esagerare la parte di vita umana votata alle lotte trascurandone
i lati pacifici. I giorni sereni e soleggiati
sono perduti di vista nelle tormente e negli uragani.
Anche nella nostra epoca i voluminosi documenti che
accumuliamo per i futuri storici con la nostra stampa, i
nostri tribunali, i nostri uffici ministeriali, ma anche
con i nostri romanzi e le nostre opere poetiche, sono
gravati della stessa parzialità. Essi trasmettono alla
posterità le più minuziose descrizioni di ogni guerra,
battaglia o scaramuccia, di ogni contestazione, di ogni
atto di violenza, di ogni sorta di sofferenza individuale,
mentre riportano a malapena qualche traccia degli
innumerevoli atti di solidarietà e affetto che ognuno di
noi conosce per esperienza personale. Riportano a
malapena ciò che forma l’essenza stessa della nostra
vita quotidiana: i nostri istinti e i nostri costumi sociali.
Non c’è da stupirsi se le testimonianze del passato sono
state così inesatte. Coloro che hanno compilato gli
annali, infatti, non hanno mai mancato di raccontare le
più piccole guerre o calamità sofferte dai loro contemporanei
senza prestare alcuna attenzione alla vita delle
masse; che pure hanno vissuto lavorando pacificamente,
mentre solo un piccolo numero di uomini guerreggiavano
fra di loro. I poemi epici, le iscrizioni monumentali,
i trattati di pace… quasi tutti i documenti storici
hanno il medesimo carattere: trattano della violazione
della pace, non della pace stessa. Cosicché lo storico,
per quanto ben intenzionato, fa inconsciamente un quadro
inesatto dell’epoca che si sforza di illustrare. Per
trovare la proporzione reale tra i conflitti e la consociazione,
occorre ricorrere all’analisi minuziosa di migliaia
di piccoli fatti e di indicazioni accessorie, conservate
accidentalmente tra le reliquie del passato; occorre poi
interpretarle con l’aiuto dell’etnologia comparata e,
dopo aver tanto udito parlare di tutto quello che ha
diviso gli uomini, bisogna ricostruire pietra su pietra le
istituzioni che li tenevano uniti.
Ben presto occorrerà riscrivere la storia con una
nuova prospettiva, al fine di tener conto di questi due
100
aspetti della vita umana e di apprezzare la parte rappresentata
da ciascuno dei due nell’evoluzione. Nell’attesa,
possiamo trarre profitto dall’immenso lavoro preparatorio
fatto recentemente con l’intento di ritrovare
le linee principali di quel secondo aspetto fino ad ora
così trascurato. Dai tempi storici meglio conosciuti possiamo
già trarre qualche esempio della vita delle masse,
con l’intento di rilevarvi la parte rappresentata dal
mutuo appoggio; e per non estendere troppo il lavoro,
possiamo dispensarci dal risalire fino agli Egizi o anche
fino all’antichità greca e romana. L’evoluzione del genere
umano non ha infatti avuto il carattere di una successione
ininterrotta: parecchie volte si è esaurita in
una data regione, presso un certo popolo, ed è rinata
altrove, tra altri popoli. Però, ad ogni nuovo inizio ricomincia
con le stesse istituzioni claniche che abbiamo
già rilevato presso i selvaggi. Se dunque consideriamo
l’ultima rinascita, quella degli inizi della nostra attuale
civiltà, tra quelli che i Romani chiamavano i «Barbari»,
avremo tutta la scala dell’evoluzione, cominciando dalle
gentes e terminando con le istituzioni dei nostri tempi.
Cosa alla quale sono appunto dedicate le pagine che
seguono. […]
Nessun periodo della storia può meglio mostrare il
potere creatore delle masse popolari quanto il X e l’XI
secolo, allorché i villaggi fortificati e le loro piazze del
mercato, «oasi nella foresta feudale», hanno cominciato
a liberarsi dal giogo dei signorotti, preparando lentamente
la futura organizzazione delle città. Sfortunatamente,
è un periodo sul quale le informazioni storiche
sono particolarmente rare: conosciamo i risultati, ma
sappiamo poco circa i mezzi con i quali sono stati ottenuti.
Al riparo delle loro mura, le assemblee popolari delle
città – sia completamente indipendenti, sia rette dalle
principali famiglie nobiliari o mercantili – conquistavano
e conservavano il diritto di eleggere il defensor, il
101
difensore militare della città, e il supremo magistrato, o
quantomeno di scegliere tra quelli che aspiravano a
tale carica. In Italia i giovani Comuni licenziavano continuamente
i loro defensores o domini, combattendo
quelli che rifiutavano di andarsene. La stessa cosa
accadeva a Est: in Boemia, i ricchi e i poveri insieme
(Bohemicae gentis magni et parvi, nobiles et ignobiles)
prendevano parte all’elezione; nelle citta russe le
assemblee popolari, le vyeches, eleggevano regolarmente
i loro duchi – tutti regolarmente della famiglia Rurik
– e stipulavano insieme le loro convenzioni, esautorandoli
però se ne erano scontenti. Alla stessa epoca, nella
maggior parte delle città dell’Europa occidentale e
meridionale la tendenza era di prendere per defensor
un vescovo eletto dalla città stessa; e molti vescovi si
sono messi alla testa della resistenza per proteggere le
«immunità» cittadine e difendere le loro libertà, tanto
che, dopo la morte, molti sono stati santificati divenendo
i patroni delle loro città, come san Uthelred di Winchester,
san Ulrik di Asburgo, san Wolfgang di Ratisbona,
san Heribert di Colonia, san Adalbert di Praga e
così via. Anche molti abati e monaci sono diventati santi
patroni delle città per aver sostenuto i diritti del
popolo. Con questi nuovi defensores – laici o ecclesiastici
– i cittadini hanno conquistato la piena autorità giuridica
e amministrativa per le loro assemblee popolari.
[...]
Tuttavia, oltre all’idea di comunità rurale, occorreva
un altro elemento capace di dare a questi centri in cerca
di libertà l’unità di pensiero, azione e iniziativa che
ha fatto la loro forza nel XII e XIII secolo. La diversità
crescente di arti e mestieri, nonché l’estensione del
commercio a Paesi lontani, hanno fatto desiderare una
nuova forma di aggregazione, il cui elemento necessario
sono state le corporazioni. Si sono scritte molte opere su
queste associazioni che sotto il nome di corporazioni,
gilde, fratellanze – o druzhestya, minne, artels in Rus-
102
sia, esnaifs in Serbia e in Turchia, amkari in Georgia,
ecc. – si sono sviluppate in modo considerevole nel
Medio evo tanto da rappresentare una parte sostanziale
nell’emancipazione delle città. Ma ci sono voluti più
di sessant’anni perché gli storici riconoscessero l’universalità
di questa istituzione e il suo vero carattere.
Solo oggi, dopo che centinaia di statuti corporativi sono
stati pubblicati e studiati e dopo che i loro rapporti originari
con i collegiae romani e le antiche unioni della
Grecia e dell’India sono stati riconosciuti, possiamo
parlarne con piena cognizione di causa e possiamo
affermare con certezza che queste fratellanze rappresentano
uno sviluppo degli stessi princìpi che abbiamo
visto in azione tra le gentes e nelle comunità rurali. [...]
Così, quando un certo numero di artigiani – muratori,
carpentieri, tagliatori di pietre, ecc. – si riunivano
per costruire ad esempio una cattedrale, essi appartenevano
tutti a una città con il suo ordinamento politico,
e inoltre ciascuno apparteneva alla propria arte, ma
tutti si consociavano altresì per l’impresa comune, che
conoscevano meglio di chiunque, e s’organizzavano in
un corpo, stringendo forti legami, quantunque temporanei,
e fondando una gilda per l’erezione della cattedrale.
Anche oggi possiamo riscontrare questi stessi fatti
nel çof dei Cabili: essi hanno la loro comunità rurale,
ma questa associazione non basta per tutti i bisogni
politici, commerciali e personali dell’unione ed essi
costituiscono quindi una fratellanza più stretta nel çof.
Quanto ai caratteri sociali delle gilde medievali,
qualsiasi statuto può darne un’idea. Prendiamo ad
esempio lo skraa di qualche primitiva gilda danese: vi
leggiamo dapprima un’esposizione dei sentimenti di
fraternità generale che devono regnare nella gilda, poi
vengono le regole relative all’auto-giurisdizione in caso
di litigio tra due fratelli, o tra un fratello e un esterno;
infine vengono enumerati i doveri sociali dei fratelli. Se
la casa di un fratello è distrutta dal fuoco, o se egli ha
perduto il suo bastimento, o ancora se ha sofferto
durante un pellegrinaggio, tutti i fratelli devono venire
103
in suo aiuto. Se un fratello cade gravemente ammalato,
altri due fratelli devono vegliare presso il suo letto fino
a che non sia fuori pericolo; se muore, devono sotterrarlo
– faccenda non da poco in tempi di pestilenze –
accompagnandolo in chiesa e alla tomba. Dopo la sua
morte devono soccorrere i suoi figli se sono nel bisogno,
mentre molto spesso la vedova diventa una «sorella»
della gilda.
Questi due caratteri fondamentali s’incontrano in
tutte le fratellanze formate non importa a quale scopo.
Sempre i membri devono trattarsi in modo fraterno,
tanto da chiamarsi appunto fratelli e sorelle, e sono tutti
uguali di fronte alla gilda. Essi possiedono in comune
il cheptel (bestiame, terre, bastimenti, fondi agricoli).
Tutti i fratelli sono tenuti a giurare di dimenticare gli
antichi dissensi e, senza imporsi reciprocamente di non
litigare nuovamente, devono convenire che nessuna lite
deve degenerare in vendetta o condurre a un processo
davanti ad altra corte che non sia il tribunale della fratellanza.
Se uno è implicato in una contesa con qualcuno
estraneo alla gilda, questa lo deve sostenere, sia che
abbia torto sia che abbia ragione; ovvero, tanto nel caso
che venga ingiustamente accusato di aggressione quanto
nel caso che sia realmente l’aggressore, i fratelli lo
devono sostenere e condurre le cose a una conclusione
pacifica. A meno che non si tratti di un’aggressione
occulta – nel qual caso verrebbe proscritto – la fratellanza
lo difende. Se i parenti dell’uomo leso vogliono
vendicarsi prontamente dell’offesa con una nuova
aggressione, la fratellanza gli procura un cavallo per
fuggire, o una barca e un paio di remi, un coltello e un
acciarino; se rimane in città, dodici fratelli lo accompagnano
per proteggerlo, e nello stesso tempo si occupano
di comporre il conflitto. Inoltre, i fratelli si presentano
davanti alla corte di giustizia per sostenere sotto giuramento
la veridicità delle dichiarazioni del loro fratello,
e se viene riconosciuto colpevole, non lo abbandonano a
completa rovina, né lo fanno diventare schiavo: se egli
non può pagare il compenso dovuto, lo pagano loro,
104
come facevano le gentes nelle epoche precedenti. Ma se
qualcuno viene meno alla sua lealtà verso i fratelli della
gilda, o verso altri, viene escluso dalla fratellanza
«con la fama di uomo da nulla» (tha scal han maeles af
brödrescap met nidings nafn).
Tali sono le idee dominanti in queste fratellanze, e a
poco a poco si estenderanno a tutti gli aspetti della vita
medievale. Infatti, si conoscono gilde in tutte le professioni
immaginabili: gilde di servi, gilde di uomini liberi
e gilde miste di servi e uomini liberi; gilde formate per
uno scopo specifico, quale la caccia, la pesca o un’impresa
commerciale, e disciolte quando questo scopo specifico
viene raggiunto; gilde che invece per certe professioni
o certi mestieri durano secoli. Via via che le attività
si diversificano, il numero delle gilde cresce. Così, non
ci sono soltanto mercanti, artigiani, cacciatori o contadini
uniti da questi legami, ma ci sono pure gilde di
preti, di pittori, di maestri di scuola primaria e di
docenti universitari, gilde per rappresentare la «passione
», per costruire una chiesa, per occuparsi dei «misteri
» di una data scuola o di particolari arti e mestieri, e
persino gilde di mendicanti, di boia e di «donne perdute
», tutte organizzate sotto il doppio principio dell’autogiurisdizione
e del mutuo appoggio. Per la Russia
abbiamo la prova manifesta che il suo consolidamento è
stato tanto opera dei suoi artels, o associazioni di cacciatori,
di pescatori e di mercanti, quanto del germogliare
delle comunità rurali; e ancor oggi il Paese è pieno
di artels. [...]
Un’istituzione così adatta a soddisfare i bisogni consociativi,
senza privare l’individuo della sua iniziativa,
non poteva che estendersi e rafforzarsi. Una difficoltà si
era presentata quando si era cercata una forma che
permettesse di federare le unioni delle gilde senza invadere
il campo di quelle delle comunità rurali e di federare
le une e le altre in un tutto armonico. Quando questa
combinazione venne trovata, e un insieme di circo-
105
stanze favorevoli permise alle città di affermare la propria
indipendenza, esse lo fecero con un’unità di pensiero
che non può che suscitare la nostra ammirazione,
persino nel secolo delle strade ferrate, dei telegrafi e
della stampa. Ci sono pervenute centinaia di «carte»
con le quali le città proclamavano la loro indipendenza
e in tutte – nonostante l’infinita varietà di particolari
correlati ad un’emancipazione più o meno completa – si
ritrova la stessa idea dominante: un’organizzazione cittadina
basata sulla federazione di piccole comunità
rurali e di gilde. [...]
Questa ondata emancipativa si diffuse nel XII secolo
per tutto il continente, toccando sia le città più ricche
sia i villaggi più poveri. E se possiamo dire che, in generale,
le città italiane furono le prime a liberarsi, non
possiamo identificare alcun centro dal quale il movimento
si sarebbe propagato. Molto spesso un piccolo
borgo dell’Europa centrale prendeva l’iniziativa per la
sua regione e i grandi agglomerati accettavano la carta
della piccola città come modello per la loro. […]
L’auto-giurisdizione era il punto essenziale, e autogiurisdizione
significava auto-amministrazione. Ma il
Comune non era semplicemente una parte «autonoma»
dello Stato (queste parole ambigue non erano ancora
state inventate): era esso stesso uno Stato. Aveva diritti
di guerra e di pace, di federazione e di alleanza con i
vicini; era sovrano nei propri affari e non interferiva
con quelli degli altri. Il potere politico supremo poteva
essere rimesso interamente a un foro democratico,
come era il caso a Pskov, la cui assemblea popolare
(vyeche) inviava e riceveva ambasciatori, stipulava trattati,
accettava e rifiutava principi, o ne faceva a meno
per decenni. Oppure il potere veniva esercitato, o usurpato,
da un’aristocrazia a volte nobiliare a volte mercantile,
come avveniva in centinaia di città dell’Italia e
del centro Europa. Il principio, tuttavia, rimaneva
immutato: la città era uno Stato e, cosa ancor più notevole,
quando il potere della città veniva usurpato da
un’aristocrazia nobiliare o mercantile, la vita interna
106
della città ne risentiva marginalmente e il carattere
democratico della vita quotidiana non scompariva: perché
l’uno e l’altro dipendevano molto poco da ciò che si
potrebbe chiamare la forma politica dello Stato.
Il segreto di questa apparente anomalia è che una
città medievale non era uno Stato accentrato. Durante i
primi secoli della sua esistenza, la città poteva a malapena
essere chiamata uno Stato per quanto riguardava
la sua organizzazione interna, perché il Medio evo non
conosceva l’attuale accentramento delle funzioni né
tanto meno l’accentramento territoriale del nostro tempo.
Ogni gruppo aveva la sua parte di sovranità. [...]
La città medievale ci appare così come una doppia
federazione: innanzi tutto quella di tutte le unità domestiche
all’interno di territori delimitati – la strada, la
parrocchia, il quartiere – e poi quella degli individui
uniti da giuramento in gilde secondo le loro professioni.
Mentre la prima era un prodotto della comunità rurale,
origine della città, la seconda era una creazione posteriore
la cui esistenza derivava dalle mutate condizioni.
Garantire la libertà, l’auto-amministrazione e la pace
era lo scopo principale della città medievale, e il lavoro,
come vedremo tra poco parlando delle gilde di mestiere,
ne era la base. Ma la «produzione» non assorbiva tutta
l’attenzione degli economisti del Medio evo. Con il loro
spirito pratico, essi compresero che il «consumo» doveva
essere garantito al fine di ottenere la produzione; di
conseguenza, il principio fondamentale di ogni città era
di provvedere alla sussistenza comune e all’alloggio
tanto dei poveri quanto dei ricchi (gemeine notdurft und
gemach armer und richer). L’acquisto di viveri e di altri
beni di prima necessità (carbone, legna, ecc.) prima che
fossero passati per il mercato o in condizioni particolarmente
favorevoli dalle quali altri fossero esclusi – in
una parola la preemptio – era assolutamente vietata.
Tutto doveva passare dal mercato ed essere offerto in
acquisto a tutti fino a quando la campana non avesse
chiuso il mercato. Solo a quel punto il venditore al
minuto poteva comprare ciò che restava, e anche allora
107
il suo profitto doveva rimanere nei limiti di un «onesto
guadagno». Di più, quando il frumento veniva comprato
all’ingrosso da un fornaio dopo la chiusura del mercato,
ogni cittadino aveva comunque il diritto di reclamare,
al prezzo all’ingrosso, una parte di tale frumento (circa
due kg.) per proprio uso, a condizione che lo reclamasse
prima della chiusura delle contrattazioni; a sua volta,
ogni panettiere poteva reclamare lo stesso diritto nel
caso fosse un cittadino a comprare il frumento per
rivenderlo. Nel primo caso il frumento non aveva che
da essere portato al mulino della città per essere macinato
a un prezzo convenuto, e il pane poteva poi essere
cotto nel forno comunale. Insomma, se una carestia colpiva
la città tutti, più o meno, ne soffrivano, ma a parte
queste calamità, finché sono esistite le città libere, nessuno
vi è morto di fame, come disgraziatamente oggi
avviene anche troppo spesso. [...]
Insomma, più conosciamo la città del Medio evo, più
vediamo che non era una semplice organizzazione politica
per la difesa di determinate libertà. Era un tentativo,
su ben più vasta scala rispetto alla comunità rurale,
di organizzare una stretta unione di assistenza e
appoggio mutuo per il consumo, per la produzione e per
la vita sociale nel suo insieme, senza frapporre gli
impedimenti dello Stato, ma lasciando piena libertà di
espressione al genio creatore di ciascun gruppo nelle
arti, nei mestieri, nelle scienze, in commercio e in politica.
Vedremo meglio fino a che punto questo tentativo
ha avuto successo quando analizzeremo, nel capitolo
seguente, l’organizzazione del lavoro nella città medievale
e le relazioni delle città con la popolazione delle
campagna circostanti. […]
I risultati di questo nuovo progresso dell’umanità
nella città medievale furono immensi. All’inizio del
secolo XI le città europee erano piccoli raggruppamenti
di capanne miserabili, ornati solamente di chiese basse
e tozze delle quali il costruttore sapeva appena fare la
108
volta. Le arti – vi erano solo tessitori e fabbriferrai –
erano ad uno stadio primitivo; il sapere non si trovava
che in qualche raro monastero. Trecentocinquant’anni
più tardi il panorama europeo era mutato. Il territorio
era disseminato di città benestanti circondate da spesse
mura, munite di torri e porte, ciascuna delle quali era
un’opera d’arte. Le cattedrali, d’uno stile grandioso e
riccamente decorate, innalzavano verso il cielo i loro
campanili di una purezza di forme e di un ardire di
immaginazione che oggi ci sforzeremmo inutilmente di
raggiungere. Le arti e i mestieri avevano raggiunto in
molte attività un grado di perfezione che oggi non possiamo
vantarci di aver superato se diamo maggior valore
all’abilità inventiva dell’operaio e alla perfezione del
suo lavoro che non alla rapidità di esecuzione. Le navi
delle città libere solcavano i mari europei in tutte le
direzioni, e sarebbe bastato solo uno sforzo ulteriore per
varcare gli oceani. Su vasti spazi di territorio il benessere
aveva sostituito la miseria, e il sapere si era sviluppato
e diffuso. Si andavano elaborando i metodi
scientifici e ponendo le basi della fisica, si stava preparando
il cammino per tutte le invenzioni meccaniche
delle quali il nostro secolo è così orgoglioso. Tali furono
i magici cambiamenti compiuti in Europa in meno di
quattrocento anni. E se ci si vuol rendere conto delle
perdite subite dall’Europa dopo la distruzione delle
città libere, occorre raffrontare il secolo XVII con il XIV o
il XIII: la prosperità che caratterizzava in altri tempi la
Scozia, la Germania, le pianure d’Italia, è scomparsa, le
strade sono cadute nell’abbandono, le città sono spopolate,
il lavoro è asservito, l’arte è in decadenza, e lo
stesso commercio è in declino.
Se anche le città medievali non ci avessero lasciato
alcun documento scritto a testimonianza del loro splendore,
ma solo i monumenti architettonici che vediamo
ancor oggi in tutta Europa, dalla Scozia all’Italia e da
Girona in Spagna a Breslavia in territorio slavo, potremmo
comunque affermare che il periodo in cui le
città ebbero una vita indipendente fu quello del più alto
109
sviluppo dello spirito umano dall’era cristiana fino al
XVIII secolo. Se guardiamo, ad esempio, un quadro del
Medio evo raffigurante Norimberga con le sue torri e i
suoi campanili slanciati, ciascuno dei quali porta
l’impronta di un’arte liberamente creatrice, abbiamo
qualche difficoltà a pensare che trecento anni prima la
città non era che un ammasso di misere capanne. E la
nostra ammirazione non fa che crescere quando entriamo
nei particolari dell’architettura e dei fregi di ciascuna
delle innumerevoli chiese, dei campanili, dei palazzi
municipali, delle porte di città ecc., presenti in Europa
e che arrivano ad est fino alla Boemia e alle città, oggi
morte, della Galizia polacca. Non è unicamente l’Italia,
questa patria delle arti, ma tutta l’Europa ad essere
ricoperta da tali monumenti. Il fatto stesso che tra tutte
le arti sia proprio l’architettura – arte sociale per
eccellenza – a toccare il suo più alto sviluppo è significativo.
Per arrivare al grado di perfezione che ha raggiunto,
quest’arte non poteva che essere il prodotto
d’una vita eminentemente sociale.
L’architettura medievale ha raggiunto la sua grandezza
non soltanto perché fu il fiorire spontaneo di un
mestiere, come è stato detto recentemente; non soltanto
perché ogni costruzione, ogni decorazione architettonica
era l’opera di uomini che conoscevano con l’esperienza
delle proprie mani gli effetti artistici che si possono
ottenere dalla pietra, dal ferro, dal bronzo, o anche
semplicemente da travi e calcina; non soltanto perché
ogni monumento era il risultato dell’esperienza collettiva
accumulata in ciascun «mistero» o mestiere: l’architettura
medievale fu grande perché derivò da una grande
idea. Come l’arte greca, essa scaturì da una concezione
di fratellanza e di unità generata dalla città. Aveva
un’audacia che non si può acquistare se non con lotte
audaci e con vittorie; esprimeva vigore perché il vigore
impregnava tutta la vita della città. Una cattedrale, un
palazzo comunale, simboleggiavano la grandezza di un
insieme del quale ciascun muratore e ciascun tagliatore
di pietra era un costruttore. Un monumento del Medio
110
evo non era uno sforzo temporaneo, dove migliaia di
schiavi eseguivano la parte loro assegnata dall’immaginazione
di un solo uomo: tutta la città vi contribuiva.
L’alto campanile svettava su una costruzione che aveva
in sé della grandezza, in cui si sentiva palpitare la vita
della città; non era una costruzione assurda come la
torre in ferro alta 300 metri di Parigi o come quella fabbrica
in pietra fatta per nascondere la bruttezza d’una
armatura di ferro, come la Tower Bridge a Londra.
Come l’Acropoli di Atene, la cattedrale di una città del
Medio evo era innalzata con l’intenzione di glorificare
la grandezza della città vittoriosa, di simboleggiare
l’unione delle sue arti e dei suoi mestieri, di esprimere
la fierezza di ogni cittadino per una città che era la sua
propria creazione. Spesso, compiuta la seconda rivoluzione
dei nuovi mestieri, si videro le città innalzare
nuove cattedrali proprio per esprimere la nuova unità,
più profonda ed estesa, che veniva allora alla luce. [...]
Tutte le arti erano progredite in modo analogo nelle
città medievali. Le arti del nostro tempo non sono, per
la maggior parte, che una continuazione di quelle sviluppatesi
in quest’epoca. La prosperità delle città fiamminghe
era basata sulla fabbricazione di bei tessuti di
lana. Firenze all’inizio del XIV secolo, prima della peste
nera, fabbricava dai 70.000 ai 100.000 panni di stoffa di
lana, valutati intorno a 1.200.000 fiorini d’oro. La cesellatura
dei metalli preziosi, l’arte del fondere, i bei ferri
lavorati furono creazioni dei «misteri» medievali, che
riuscirono a eseguire, ciascuno nel proprio campo, tutto
ciò che era possibile fare a mano, senza l’aiuto di un
potente motore. [...]
È vero, come dice Whewell, che nessuna di queste
scoperte era stata il risultato di qualche nuovo principio.
E tuttavia la scienza del Medio evo aveva fatto
qualcosa di più che la scoperta propriamente detta di
nuovi princìpi: aveva preparato la scoperta di tutti i
nuovi princìpi che conosciamo attualmente nelle scienze
meccaniche. Aveva cioè abituato il ricercatore ad
osservare i fatti e a ragionarci sopra. Era la scienza
111
induttiva, quantunque non avesse ancora pienamente
capito l’importanza e il potere del metodo induttivo;
comunque sia, essa poneva già le basi della meccanica e
della fisica. Francesco Bacone, Galileo e Copernico sono
stati i discendenti diretti di un Ruggero Bacone e di un
Michele Scoto, proprio come la macchina a vapore è stato
un prodotto diretto delle continue ricerche nelle università
italiane dell’epoca sul peso dell’atmosfera e
degli studi tecnici e matematici fatti a Norimberga.
Ma è necessario insistere sui progressi delle scienze e
delle arti nella città medievale? Non basta citare le cattedrali
nel campo dell’abilità tecnica o la lingua italiana
e i poemi danteschi nel campo del pensiero per dare
immediatamente la misura di ciò che la città medievale
ha creato durante i suoi quattro secoli di vita?
Le città del Medio evo hanno reso un immenso servizio
alla civiltà europea: le hanno impedito di avviarsi
verso le teocrazie e gli Stati dispotici dell’antichità; le
hanno dato la diversità, la fiducia in se stessa, lo spirito
d’iniziativa e le immense energie intellettuali e materiali
che possiede ancor oggi e che sono la miglior
garanzia della sua capacità di resistere ad una nuova
invasione che venga da Oriente. Ma perché dunque
questi centri di civiltà, che avevano tentato di rispondere
a bisogni così profondi della natura umana e che erano
così pieni di vita, non sopravvissero più a lungo?
Forse perché furono colpiti da debolezza senile nel XVI
secolo e, dopo aver respinto tanti assalti esterni e aver
reagito inizialmente con vigore alle lotte interne, alla
fine soccombettero sotto questo duplice attacco?
Varie cause hanno contribuito a questo risultato;
alcune avevano le loro radici in un lontano passato,
altre rimandavano a colpe commesse dalle città stesse.
Verso la fine del XV secolo, vennero costituiti alcuni
potenti Stati che si rifacevano al vecchio modello romano.
In ogni regione, qualche signore feudale, più abile,
più avido di ricchezze e spesso meno scrupoloso dei suoi
vicini, era riuscito ad assicurarsi più ricchi possedimenti
personali, un più alto numero di contadini per le sue
112
terre e di cavalieri per il suo seguito, un più consistente
tesoro nei suoi scrigni. Aveva scelto come sua residenza
un gruppo di villaggi ben situati, dove non si era ancora
sviluppata la libera vita municipale – Parigi, Madrid o
Mosca – e con il lavoro dei suoi servi ne aveva fatto delle
città regie fortificate. Là attirava compagni d’arme,
cui concedeva villaggi con liberalità, e mercanti, cui
offriva la sua protezione per il commercio. Si andava
così formando il germe d’un futuro Stato, che gradatamente
avrebbe cominciato ad assorbire altri centri
simili. In questi centri vi era inoltre una abbondanza di
giureconsulti, razza di uomini tenaci e ambiziosi usciti
dalla borghesia e versati nello studio del diritto romano,
che detestavano in pari grado l’alterigia dei signori
e ciò che chiamavano lo «spirito ribelle» dei contadini.
Trovavano ripugnante la forma stessa della comunità
rurale, che i loro codici ignoravano, e i princìpi federativi,
che consideravano un’eredità dei «barbari»; viceversa,
appoggiavano un cesarismo, sostenuto dalla menzogna
del consenso popolare e dalla forza delle armi, e
lavoravano alacremente per quelli che promettevano di
attuarlo.
La Chiesa cristiana, una volta avversaria della legge
romana e ora sua alleata, lavorò nello stesso senso.
Essendo fallito il tentativo di costituire in Europa
l’Impero teocratico, i vescovi più intelligenti e più ambiziosi
diedero il loro appoggio a quelli sui quali contavano
per ricostruire il potere dei re d’Israele o degli imperatori
di Costantinopoli. La Chiesa consacrò questi primi
dominatori, li incoronò come rappresentanti di Dio
sulla Terra, e mise al loro servizio la scienza e lo spirito
politico dei suoi ministri, le sue benedizioni e le sue
maledizioni, le sue ricchezze e l’influenza che aveva
conservato tra i poveri. I contadini che le città non avevano
potuto o voluto liberare, vedendo come queste non
riuscissero a metter fine alle interminabili guerre tra
nobili, guerre per le quali pagavano un alto prezzo, volgevano
allora le loro speranze verso re, imperatori e
principi; così, mentre li aiutavano a schiacciare i poten-
113
ti signori feudali, li aiutavano anche a costruire lo Stato
centralizzato. Infine, le invasioni dei Mongoli e dei Turchi,
le guerre sante contro i Mori di Spagna, le terribili
guerre che ben presto scoppiarono tra i centri della
nascente sovranità – tra Ile de France e Borgogna,
Scozia e Inghilterra, Inghilterra e Francia, Lituania e
Polonia, Mosca e Tver, ecc. – contribuirono tutte allo
stesso risultato: vennero costituiti potenti Stati e alle
città toccò ora resistere non solamente a vaghe alleanze
di signori, ma anche a centri di potere saldamente organizzati
che avevano armate di servi a loro disposizione.
Il peggio fu che queste autocrazie in ascesa trovarono
appoggi grazie anche alle divisioni che si erano formate
in seno alle città stesse. L’idea fondamentale della città
medievale era grande, e tuttavia non era abbastanza
vasta. L’aiuto e il sostegno reciproco non potevano essere
limitati ad una piccola associazione, ma dovevano
estendersi al territorio circostante, senza tuttavia che
questo assorbisse l’associazione. Ma sotto questo aspetto
il cittadino del Medio evo aveva commesso fin da
principio un grave errore. Invece di vedere nei contadini
e negli operai che si riunivano sotto la protezione
delle sue mura altrettanti ausiliari che avrebbero contribuito
alla prosperità della città – come fu effettivamente
il caso – tracciarono una profonda divisione tra
le famiglie della vecchia borghesia e i nuovi venuti. Ai
primi furono riservati tutti i benefici derivanti dal commercio
e dalle terre comunali; niente fu invece lasciato
agli ultimi, eccetto il diritto di servirsi liberamente
dell’abilità delle loro mani. La città fu così divisa: da
una parte i «borghesi» o «il Comune», e dall’altra «gli
abitanti». Il commercio, che era dapprima comunale,
diventò il privilegio di alcune famiglie di mercanti e di
artigiani; non vi era ormai che un passo da fare perché
divenisse un privilegio individuale o di un gruppo di
oppressori, e questo inevitabile passo fu fatto.
Tale divisione si andò consolidando tanto nella città
propriamente detta che nei villaggi circostanti. Il Comune
aveva ben tentato, inizialmente, di emancipare i
114
contadini, ma le sue guerre contro i signori divennero,
come abbiamo già detto, guerre per liberare la città dai
signori anziché per liberare i contadini. La città lasciò
al signore i suoi diritti sui contadini, a condizione che
non la molestasse più e divenisse un concittadino. Ma i
nobili «adottati» dalla città, e ora residenti nelle sue
mura, non fecero che portare la loro tradizionale bellicosità
nella cinta stessa della città. Benché non tollerassero
di sottomettersi a un tribunale di semplici artigiani
e di mercanti, continuarono nelle loro antiche
ostilità tra famiglie, nelle loro guerre private portate
nelle vie cittadine. Ogni città aveva ora i suoi Colonna e
i suoi Orsini, i suoi Overstolze e i suoi Wise. Grazie alle
cospicue rendite delle terre che avevano conservate, si
circondarono di numerosi clienti, feudalizzando i costumi
e le abitudini della città stessa. E quando i dissensi
cominciarono a farsi sentire tra gli artigiani, offrirono
le loro spade e le loro compagnie d’armi per risolvere le
liti invece di lasciare che i dissensi trovassero soluzioni
più pacifiche, come tradizionalmente accadeva nei tempi
passati. […]
Il più grave e funesto errore fatto dalla maggior parte
delle città fu di prendere per base della loro ricchezza
il commercio e l’industria a detrimento dell’agricoltura.
Ripeterono in tal modo l’errore già commesso dalle città
della Grecia antica, e proprio per questo caddero negli
stessi delitti. Estraniatesi dal mondo agricolo, un gran
numero di città si trovarono necessariamente trascinate
in una politica avversa ai contadini. Questo divenne
sempre più evidente al tempo di Eduardo III e delle jacqueries
in Francia, delle guerre ussite e delle guerre
contadine in Germania. D’altra parte, la politica commerciale
le impegnava in imprese lontane, tanto che
colonie furono fondate dalle città italiane nel sud-est,
dalle città tedesche nell’est, dalle città slave nell’estremo
nord-est.
Si cominciarono a mantenere milizie mercenarie per
le guerre coloniali e ben presto anche per la difesa della
città stessa. Fu necessario sottoscrivere prestiti in pro-
115
porzioni talmente smisurate da demoralizzare completamente
i cittadini; e la conflittualità interna imperò a
ogni elezione nella quale la politica coloniale, di cui
beneficiavano solo alcune famiglie, era in gioco. La divisione
tra ricchi e poveri diventò più profonda e, nel
secolo XVI, in ogni città l’autorità regia trovò alleati solleciti
e l’appoggio dei poveri.
Ci fu ancora un’altra causa nella rovina delle istituzioni
comunali, più profonda e insieme di ordine più
elevato delle precedenti. La storia delle città medievali
rappresenta uno dei più grandiosi esempi del potere
delle idee e dei princìpi sui destini del genere umano, e
dell’estrema diversità nei possibili esiti che accompagnano
ogni profonda trasformazione delle idee prevalenti.
La fiducia in se stessi e il federalismo, la sovranità
di ogni gruppo e la costituzione del corpo politico
dal semplice al complesso, erano le idee prevalenti nel
secolo XI. Ma nelle epoche successive le opinioni si
modificarono profondamente. Gli studiosi di diritto
romano e i prelati della Chiesa, strettamente alleati
dall’epoca di Innocenzo III, riuscirono a neutralizzare
l’idea – l’antica idea greca – che aveva presieduto alla
fondazione delle città. Durante due-trecento anni predicarono
dall’alto del pulpito, insegnarono nelle università,
pronunciarono dal banco del tribunale, che occorreva
cercare la salvezza in uno Stato fortemente centralizzato,
posto sotto un’autorità semi-divina. Questa si
sarebbe incarnata in un uomo dotato di pieni poteri, un
dittatore che, solo, avrebbe potuto salvare la società; in
nome della salute pubblica, questi avrebbe potuto commettere
qualunque specie di violenza: bruciare uomini
e donne sul rogo, farli perire a seguito di indescrivibili
torture, sprofondare intere province nella più abbietta
miseria. E non esitarono a mettere in pratica queste
teorie con inaudita crudeltà, ovunque potesse arrivare
la spada del re, o il fuoco della Chiesa, o tutti e due
insieme. Con questi insegnamenti e questi esempi,
costantemente ripetuti fino a condizionare l’opinione
pubblica, lo spirito stesso dei cittadini fu modellato in
116
modo nuovo. Ben presto nessuna autorità fu trovata
eccessiva, nessuna esecuzione a fuoco lento parve troppo
crudele se compiuta «per la sicurezza pubblica». E
con questa nuova attitudine di spirito, e questa nuova
fede nella potenza di un uomo, il vecchio principio federalista
svanì e il genio creatore delle masse si estinse.
L’idea romana trionfava e, in queste circostanze, lo Stato
accentrato trovò nelle città una facile preda.
Nel XV secolo Firenze offre il miglior esempio di questo
mutamento. Nelle epoche precedenti, una rivoluzione
popolare era il segnale d’un nuovo slancio. Ora,
quando spinto dalla disperazione il popolo insorge, non
ha più idee costruttive, nessuna nuova idea lo illumina.
Un migliaio di rappresentanti entrano nel consiglio
comunale invece di quattrocento; cento uomini entrano
nella signoria invece di ottanta. Ma una rivoluzione di
cifre non vuol dir niente. Lo scontento del popolo cresce
e nuove rivolte scoppiano. Allora si fa appello a un salvatore,
al «tiranno». Questi massacra i ribelli, e tuttavia
il disgregamento del corpo comunale continua, peggio
che mai. Quando, dopo una nuova rivolta, il popolo
di Firenze si rivolge all’uomo più popolare della città,
Gerolamo Savonarola, il monaco risponde: «Popolo mio,
sai bene che non posso occuparmi degli affari di Stato...
purifica la tua anima, e se in questa disposizione di spirito
riformerai la tua città, allora, popolo di Firenze,
avrai inaugurato la riforma di tutta l’Italia!». Vengono
bruciate le maschere di carnevale e i cattivi libri, si fa
decretare una legge di carità, un’altra contro l’usura…
ma la democrazia di Firenze resta tal quale. Lo spirito
del tempo antico è ormai morto. Per aver avuto troppa
fiducia nel governo, i cittadini hanno cessato d’aver
fiducia in se stessi, sono incapaci di trovare nuove vie.
Allo Stato non resta che farsi avanti e schiacciare le
ultime libertà.
E tuttavia la corrente del mutuo appoggio non si è
del tutto inaridita nelle moltitudini, ma ha continuato a
scorrere anche dopo questa disfatta. Si è ingrossata di
nuovo con una forza formidabile agli appelli comunisti
117
dei primi propagatori della Riforma, e ha continuato a
scorrere anche dopo che le masse, non essendo riuscite
a realizzare quell’esistenza che speravano di inaugurare
sotto l’ispirazione della religione riformata, sono
nuovamente cadute sotto la dominazione di un potere
autocratico. Il flusso scorre ancora oggi alla ricerca di
una nuova manifestazione, che non sarà più lo Stato,
né la città del Medio evo, né la comunità rurale dei barbari,
né il clan dei selvaggi, ma che parteciperà di tutte
queste forme, pur superandole grazie a una concezione
più ampia e profondamente umana.
118

Nessun commento:

Posta un commento