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giovedì 6 gennaio 2011

petr kropotkin scienza e anarchia -parte 1

Petr Kropotkin
SCIENZA E ANARCHIA
a cura di Giampietro N. Berti












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INDICE
Introduzione 7
Nota bio-bibliografica 27
I. La nascita dello Stato 33
II. La Rivoluzione francese 49
III. Questioni di metodo 61
IV. L’aiuto reciproco in natura 79
V. La solidarietà umana 93
VI. L’etica 119
VII. Piccolo è bello 147
VIII. L’integrazione del lavoro 181
IX. Il comunismo anarchico 205
NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
Pëtr Kropotkin nasce a Mosca il 9 dicembre 1842 da famiglia principesca
di antica tradizione, che nel periodo feudale aveva avuto una
posizione preminente nel principato di Smolénsk. Dopo aver frequentato
la scuola militare più esclusiva della Russia zarista – il Corpo dei
Paggi a San Pietroburgo – nel 1862 sceglie di recarsi in Siberia come
esploratore e geografo. In questi anni matura lentamente una posizione
critica verso il potere assolutista, avvicinandosi dapprima alle idee liberali,
poi a quelle socialiste. Nella primavera del 1872 decide di andare
in Svizzera dove stabilisce importanti relazioni con gli internazionalisti
del Giura e si avvicina alle idee anarchiche. Ritornato nel proprio Paese,
si dedica completamente all’attività rivoluzionaria che culmina nel
1874 con il suo arresto e la prigionia nella fortezza di S. Pietro e Paolo.
Riesce a fuggire due anni più tardi, raggiungendo l’Inghilterra e poi
ancora la Svizzera, dove collabora attivamente alla Fédération Jurassienne,
dando vita tra l’altro allo stesso giornale della Federazione, «Le
Révolté». Espulso nel 1881 da questo Paese in seguito alle misure controrivoluzionarie
prese dopo l’assassinio dello zar Alessandro II, emigra
a Londra, poi a Thonon, nella Savoia. Qui finisce per essere arrestato
e condannato a cinque anni di prigione per attività sovversiva.
Rilasciato nel 1886 a seguito di una vasta campagna di stampa, promossa
tra gli altri da Victor Hugo ed Ernest Renan, si reca nuovamente
in Inghilterra, dove rimarrà fino al 1917.
Qui pubblica quasi tutte le sue opere principali, è tra i fondatori (nel
1886) di «Freedom» e collabora prolificamente a varie pubblicazioni
27
anarchiche, in particolare (ininterrottamente fino al 1917) a «Freedom»
e alle parigine «La Révolte» (1887-1894) e «Les Temps Nouveaux»
(1897-1914). In questo suo lungo periodo londinese, collabora anche a
varie pubblicazioni scientifiche e a varie voci dell’Encyclopaedia Britannica,
per cui scrive tra l’altro la voce «Anarchismo».
Allo scoppio della prima guerra mondiale, Kropotkin, insieme ad un
gruppo di altri anarchici molto conosciuti, prende posizione a favore
dell’intervento militare contro gli Imperi centrali, da lui considerati il
pericolo maggiore del momento. Questo suo appoggio alle potenze
dell’Intesa provoca la rottura con il movimento anarchico internazionale,
schierato nella sua stragrande maggioranza contro la guerra.
Nell’estate del 1917 Kropotkin ritorna in Russia, ma dopo la presa
del potere da parte dei bolscevichi è progressivamente emarginato dal
nuovo potere comunista. Qui scrive L’Etica che uscirà postumo e
incompiuto.
Muore nel 1921 e il suo funerale costituisce l’ultima grande manifestazione
anarchica in quel Paese.
PRINCIPALI OPERE DI KROPOTKIN
Kropotkin ha scritto numerosissimi articoli, in parte integrati in
volumi successivi o pubblicati anche come opuscoli. Qui ci limitiamo
ad elencare le sue opere più importanti, indicando, oltre all’anno di
pubblicazione originale, anche l’edizione italiana più recente a noi
nota.
VOLUMI
Parole di un ribelle (1885), Casa Editrice Sociale, Milano 1921.
La conquista del pane (1892), Anarchismo, Catania 1978.
Campi, fabbriche, officine (1899), Antistato, Milano 19822.
Memorie di un rivoluzionario (1899), Loescher, Torino 1980.
La scienza moderna e l’anarchia (1901), Il Risveglio, Ginevra 1913.
Ideali e realtà nella letteratura russa (1905), Ricciardi, Napoli 1921.
Il mutuo appoggio (1902), Salerno, Roma 1982.
La grande rivoluzione (1909), Anarchismo, Catania 1975.
L’Etica (1922), La Fiaccola, Ragusa 1990.
28
OPUSCOLI
La legge e l’autorità (1896), La Fiaccola, Ragusa 1961.
La morale anarchica (1890), La Fiaccola, Ragusa 1984.
L’anarchia: la sua filosofia e il suo ideale (1896), Altamurgia, Ivrea
1973.
Lo Stato e il suo ruolo storico (1896), Anarchismo, Catania 1981.
Vari opuscoli e altri scritti sono raccolti nell’antologia: R.N.
Baldwin (a cura di), Kropotkin’s Revolutionary Pamphlets (1922),
Dover Publication, New York 1970.
PRINCIPALI OPERE SU KROPOTKIN
Per un’introduzione generale al pensiero e alla vita di Kropotkin:
AA.VV., Pierre Kropotkine. L’Ami, L’Homme, L’Anarchiste, Paris
1921; R. MONDOLFO, Kropotkin, Prince Pëtr Alexyevich, in Encyclopaedia
of the Social Sciences, London 1930, vol. VII, pp. 602-607; G.
WOODCOCK-I. AVAKUMOVITCH, The Anarchist Prince, London 1950
(ora Peter Kropotkin from Prince to Rebel, Montréal-New York 1990);
N. WALTER, Introduction, in P. KROPOTKIN, Memoirs of a Revolutionist,
New York 1971, pp. V-XXI; E. CAPOUYA-K. TOMPKINS, Introduction,
in The essential Kropotkin. A General Selection from the writings
of the great Russian anarchist thinker, New York 1975, pp. VII-XXIII;
M.A. MILLER, Kropotkin, Chicago e London 1976; H. READ, Introduzione
a P. KROPOTKIN, La società aperta (scritti scelti), Milano 19762;
A.J. CAPPELLETTI, El pensamiento de Kropotkin. Ciencia, ética y anarquía,
Madrid 1978; M. LOLLI LARIZZA, Stato e potere nell’anarchismo,
Milano 1986, pp. 66-93; P. MARHALL, Demanding the Impossible. A
History of Anarchism, London 1992, pp. 309-338; J. SLATTER (a cura
di), P.A. Kropotkin’s Sesquicentennial: A Reassessment and a Tribute,
Durham 1992.
Sulla concezione kropotkiniana del mutuo appoggio si vedano le
varie interpretazioni di P. AVRICH, Introduction in P. KROPOTKIN,
Mutual Aid. A Factor of Evolution, New York 1972, pp. 1-10; W. RYDZEWSKI,
La notion des liens sociaux et la vision de l’histoire dans la
doctrine sociale de Kropotkine, «Archiwum Hist. filozofii i Mysli
Spoecznej» XXIV (1978), pp. 89-123; A. MONTAGU, Foreword, in P.
KROPOTKIN, Mutual Aid. A Factor of Evolution, Boston 1980; G.P.
29
PRANDSTRALLER, Attualità di Kropotkin, in P. KROPOTKIN, Il mutuo
appoggio. Un fattore dell’evoluzione, cit., pp. 7-48; D. MILLER, Peter
Kropotkin (1842-1921): Mutual Aid and Anarcho-Communism, in
Rediscoveries, a cura di J.A. HALL, Oxford 1986, pp. 85-104; J. HEWTSON,
Mutual Aid and the Social Significance of Darwinism, in P. KROPOTKIN,
Mutual Aid. A Factor of Evolution, London 1987, pp. VII-XII,
1-11; M. CONFINO-D. RUBISTEIN, Vingt-cinq lettres inédites de Pierre
Kropotkine à Marie Goldsmith, 27 juillet 1901-9 juillet 1915, «Cahiers
du monde russe et soviétique», XXXIII (1992), pp. 243-302; R. KINNA,
Kropotkin’s Theory of Mutual Aid in Historical Context, «International
Review of Social History» vol. 40, part. 2 (agosto 1995), pp. 259-283.
Sulle idee kropotkiniane di decentramento industriale, di federalismo
e di integrazione città-campagna e lavoro manuale-lavoro intellettuale,
cfr. le appendici di C. WARD ai capitoli dell’edizione italiana di
Campi, fabbriche, officine da lui curata (London 1974, Milano 19822);
C. Doglio, Federalismo comunitario (Kropotkin), «Volontà», n. 12,
1950, ora in: C. MAZZOLENI (a cura di), Carlo Doglio. Selezione di
scritti, Venezia 1992; C. WARD, Kropotkin’s Federalism, «The
Raven», vol. 5, n. 4 (1992), pp. 327-341; C. BERNERI, P. Kropotkin
federalista (1925), in Il federalismo libertario, Ragusa 1994, pp. 70-91.
Sul concetto di legge in Kropotkin cfr. C. CAHM, Kropotkin and
Law, in Law and Anarchism, a cura di Thom Holterman e Hene Van
Marseveen, Rotterdam 1980, pp. 151-163; C. BAX, Kropotkin and Law,
in Law and Anarchism, cit., pp. 164-172.
Sull’etica kropotkiniana cfr. le varie interpretazioni di N. LEBEDEV,
Introduction a P. KROPOTKIN, Ethics. Origin and Development, New
York 1968, pp. IX-XVI; P. AVRICH, Anarchist Portraits, Princeton
1988, pp. 53-78; G. WOODCOCK, Introduction, in P. KROPOTKIN, Ethics,
Montréal 1992, pp. VII-XXI; A.J. CAPPELLETTI, El pensamiento de
Kropotkin, cit., pp. 44-144; P. MARSHALL, Demanding the Impossible...,
cit., pp. 309-338; M.A. MILLER, Kropotkin, cit., pp. 195-198;
G.P. PRANDSTRALLER, Kropotkin: il problema dell’etica, «Volontà»,
XXXV (1989), n. 2, pp. 24-33; L. BORGHI, Giustizia e mutuo appoggio,
«A rivista anarchica», XXIII (1993), n. 198, pp. 27-30; M. LA TORRE,
Dimenticare Kropotkin?, «A rivista anarchica», XXIII (1993), n. 199,
pp. 29-38.
30
Sulla teoria kropotkiniana della rivoluzione si veda l’ampia disamina
in C. CAHM, Kropotkin and the Rise of Revolutionary Anarchism,
1872-1886, Cambridge 1989, pp. 71-209. Ma cfr. pure le considerazioni
di J. FREIRE, Kropotkin tra riforma e utopia, «Volontà», XXXV
(1981), n. 2, pp. 53-74; G. WOODCOCK, Kropotkin’s The Great French
Revolution, «The Anarchist Papers», n. 3, Montréal-New York 1990,
pp. 1-17; L. SEKELJ, Bakunin’s and Kropotkin’s Theories of Revolution
in Comparative Perspective, «The Raven», vol. 5, n. 4 (1992) pp. 358-
378.
Sul comunismo kropotkiniano cfr. G. WOODCOCK, L’anarchia,
Milano 1966, pp. 176-182; P. AVRICH, Introduction a P. KROPOTKIN,
The Conquest of Bread, New York 1972, pp. 1-24; M.A. MILLER, Kropotkin,
cit., pp. 191-195; I. SOCHA-TURONSKA, Individuum, société et
nature dans l’anarcho-communisme de P.A. Kropotkine, «Archiwum
Hist. filozofii i Mysli Spoecznej», XXIV (1978), pp. 125-165; A.J.
CAPPELLETTI, El pensamiento de Kropotkin, cit., pp. 229-275.
La più completa bibliografia kropotkiniana è quella a cura di H.
HUG, Peter Kropotkin. Bibliographie, Edition Anares im Trotzdem-
Verlag, Berlin 1994. Ampie bibliografie si trovano anche in G. WOODCOCK
- I. AVAKUMOVITCH, The Anarchist Prince, cit., e in M.A.
MILLER, Kropotkin, cit.
31

I
Il problema dello Stato è centrale nel pensiero anarchico.
Kropotkin, tuttavia, a differenza di altri autori non lo
pone come un tema a sé stante perché gli dedica un’attenzione
più storica che teoretica con un saggio pubblicato
nel 1897 che porta il titolo Lo Stato e il suo ruolo storico.
In questo volume è soprattutto storicizzata la genesi, che
viene collocata, «classicamente», all’inizio dell’età moderna.
Con tale interpretazione egli opera un distacco netto
dalla precedente tradizione anarchica, secondo cui
l’entità statale è una forma meta-storica che riassume,
par excellence, il principio informatore del dominio. Sulla
scia della sinistra hegeliana, questa tradizione aveva
infatti identificato nello Stato – come del resto nella religione
– l’alienazione suprema del genere umano. Ora,
tale concetto non si ravvisa nell’anarchico russo che, al
contrario, vede nella formazione statale soltanto un
momento politico storicamente ben definito e particolare
del dominio dell’uomo sull’uomo. L’umanità, infatti, è
vissuta per secoli senza conoscere questa forma politica.
Qual è dunque la natura politica, sociale ed economica
dello Stato? Per Kropotkin la risposta è una sola:
nell’essere costitutivamente l’intreccio organico delle
funzioni coercitive operanti contro la società. Ciò è particolarmente
evidente se si analizza il ruolo storico da
33
questi assunto nel periodo che va dal XVI al XIX secolo.
Si vedrà allora che la legislazione sulla proprietà, il
meccanismo fiscale, la costituzione dei monopoli, la
difesa del territorio hanno rappresentato l’insieme concreto
dell’organizzazione trasversale di tutti i privilegi
costituiti senza distinzione di sorta. Ad esempio, lo
sfruttamento economico determinato dal modo di produzione
capitalistico non avrebbe potuto sussistere e svilupparsi
senza l’aiuto dello Stato, specialmente per
quanto riguarda l’originaria formazione dei grandi
interessi dell’industria, del commercio e dell’agricoltura.
Mentre le rivoluzioni susseguitesi dal XV al XIX secolo
sono state tutte dirette a liberare la persona dal giogo
del lavoro obbligatorio, la reazione dello Stato è stata
sempre volta a rifondare la struttura gerarchica entro le
stesse determinazioni storiche dell’economia, della
società e della politica. Lo Stato, infatti, non è un’entità
separata dalla vita degli individui, non costituisce la
loro forma istituzionalmente alienata, la coscienza rovesciata
della loro autentica socialità. Al contrario, esso
consiste nell’essere parte integrante di ogni manifestazione
individuale e collettiva. Precisamente, quale
espressione funzionante della somma dei poteri esistenti
si manifesta come principio organizzatore di tutte le
espressioni particolari del conflitto, della violenza e della
sopraffazione.
Lo Stato – riassunzione suprema della loro sinergia –
acquista forma, identità e stabilità solo quando inizia
l’irreversibile processo della delega di potere: allora i
vincoli umani e comunitari si traducono in istituzioni
con una vita propria, il costume lascia il posto alla legge,
il governo finisce per assorbire l’amministrazione.
Dalla sovrapposizione sinergica di tutte queste funzioni,
dalla loro autonomizzazione prende vita la forma statale:
si passa, appunto, dal sociale al politico.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana di Lo Stato e il suo ruolo storico del 1981,
nella traduzione (rivista) di Alfredo M. Bonanno.
34
LA NASCITA DELLO STATO
Per prima cosa bisogna intendersi su ciò che indichiamo
con la parola Stato.
La scuola tedesca, la quale si compiace di confondere
lo Stato con la Società, ha prodotto notevoli lavori, elaborati
dai migliori pensatori tedeschi ma anche da molti
francesi, in cui gli autori non riescono a concepire la
società senza la concentrazione statale. Da ciò deriva la
solita accusa rivolta agli anarchici di voler «distruggere
la società», di predicare il ritorno a una «guerra permanente
di tutti contro tutti».
Eppure, ragionare così significa ignorare completamente
i progressi compiuti nel campo della storia
durante gli ultimi trent’anni; significa ignorare che
l’uomo è vissuto in società per migliaia di anni prima di
aver conosciuto lo Stato; significa dimenticare che per
35
le nazioni europee lo Stato è di origine recente, datando
appena dal XVI secolo; significa infine disconoscere che i
periodi più gloriosi dell’umanità sono stati quelli in cui
le libertà e la vita locale non erano ancora state distrutte
dallo Stato, e in cui grandi masse di uomini vivevano
in Comuni e in libere federazioni.
Lo Stato è solo una delle forme che la società ha
assunto nel corso della storia; e non si possono confondere
tra loro queste due entità.
Altri ancora hanno confuso lo Stato con il governo.
Non essendo possibile avere Stato senza governo, si è
detto, bisogna mirare all’assenza del governo e non
all’abolizione dello Stato.
A mio avviso, tuttavia, nello Stato e nel governo si
debbono identificare due nozioni di ordine diverso.
L’idea di Stato indica una cosa ben diversa dall’idea di
governo. Essa comprende non solo l’esistenza di un
potere collocato al di sopra della società, ma anche una
concentrazione territoriale e una concentrazione di molte
funzioni della vita sociale nelle mani di pochi; e comporta
altresì l’instaurarsi di nuovi rapporti con i membri
della società. Si tratta, come si vede, di una distinzione
che a prima vista può sfuggire, ma che appare
chiara quando si studiano le origini dello Stato.
Peraltro, se si vuole comprendere lo Stato, non c’è
che un mezzo per farlo: studiarlo nel suo sviluppo storico,
cosa che tenteremo di fare nel presente lavoro.
L’impero romano fu uno Stato nel vero senso della
parola, tanto che fino ai giorni nostri resta un punto di
riferimento per l’uomo di legge.
Le sue istituzioni ricoprivano con una rete fittissima
un vasto dominio. Tutto affluiva verso Roma: la vita
economica, la vita militare, i rapporti giudiziari, le ricchezze,
l’educazione e persino la religione. Da Roma
provenivano le leggi, i magistrati, le legioni per difendere
il territorio, i prefetti, gli dei. Tutta la vita dell’impero
risaliva al Senato, e più tardi a Cesare, l’onnipotente,
l’onniscente, il dio dell’impero. Ogni provincia, ogni
distretto, aveva il suo Campidoglio in miniatura, la sua
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piccola porzione di sovrano romano che ne dirigeva tutta
la vita. Una sola legge, la legge imposta da Roma,
regnava sull’impero; e questo non era una confederazione
di cittadini, ma solo un gregge di sudditi.
Ancor oggi il legislatore e l’autoritario ammirano
l’unità di questo impero, lo spirito unitario delle sue
leggi, la bellezza – a loro dire – e l’armonia di questa
organizzazione.
Ma lo sfacelo interno, assecondato dalle invasioni
barbariche, la morte della vita locale, l’incapacità di
resistere agli attacchi esterni e alla cancrena interna,
spezzarono l’impero. Dalle sue rovine nacque una nuova
civiltà, che oggi è la nostra.
Se mettiamo da parte lo studio delle civiltà antiche
per esaminare piuttosto le origini e gli sviluppi della
giovane civiltà barbarica, sino ai periodi in cui essa, a
sua volta, dette origine ai nostri Stati moderni, riusciremo
a comprendere meglio l’essenza dello Stato. Si
tratta di porre in atto uno studio molto più efficace di
quello che sarebbe possibile fare immergendoci nell’esame
dell’impero romano o di quello di Alessandro, oppure
nell’esame del dispotismo orientale.
Prenderemo quindi come punto di partenza quei possenti
demolitori barbari dell’impero romano, tentando
di rintracciare l’evoluzione della nostra civiltà dalle sue
origini fino alla fase statale.
La maggior parte dei filosofi del XVIII secolo si era
fatta un’idea molto elementare dell’origine delle
società. All’inizio, sostenevano, gli uomini vivevano in
piccole famiglie isolate in guerra perpetua fra di loro.
Questa guerra rappresentava la condizione normale.
Un bel giorno, però, si resero conto degli inconvenienti
di queste lotte senza tregua, e quindi decisero di mettersi
in società. Un contratto sociale fu concluso tra le
famiglie sparse, che si sottomisero volentieri ad una
autorità la quale – ho bisogno di sottolinearlo? – divenne
il punto di partenza e l’iniziatrice di ogni progresso.
Non occorre nemmeno aggiungere, poiché l’abbiamo
appreso a scuola, che i nostri governi attuali hanno
37
mantenuto questa loro positiva immagine di sapienti
pacificatori e civilizzatori della specie umana.
Questa idea, concepita in un’epoca in cui non si sapeva
ancora molto sulle origini dell’uomo, dominò per tutto
il secolo; e va riconosciuto che nelle mani degli enciclopedisti
e di Rousseau, l’idea del «contratto sociale»
diventò un’arma potente per combattere la monarchia
di diritto divino. Però, malgrado i servizi resi in passato,
questa tesi deve essere riconosciuta come falsa.
In effetti, salvo alcuni carnivori e alcuni rapaci, nonché
alcune specie che vanno scomparendo, tutti gli animali
vivono in società. Nella lotta per la vita sono le
specie sociali che vincono su quelle che non lo sono. In
ogni classe di animali esse occupano il vertice della scala,
e non può esserci alcun dubbio che i primi umanoidi
vivessero già in società.
Non è l’uomo quindi che ha creato la società, ma questa
preesisteva all’uomo.
Al giorno d’oggi la cosa è nota, avendo l’antropologia
chiarito perfettamente che il punto di partenza dell’umanità
non fu la famiglia ma il clan e la tribù. La famiglia
patriarcale, quale noi la conosciamo e quale ci viene
dipinta dalla tradizione ebraica, non fece la sua
apparizione che molto più tardi: trascorsero decine di
migliaia di anni durante i quali l’uomo visse nella fase
tribale o clanica; e in questa prima fase – chiamiamola
pure, se così ci piace, di tribalismo primitivo o selvaggio
– l’uomo sviluppò tutta una serie di istituzioni, di usi e
di costumi molto anteriori alle istituzioni della famiglia
patriarcale. [...]
Questa fase durò diverse migliaia di anni, e i barbari
che invasero l’impero romano l’avevano attraversata,
anzi ne uscivano appena allora.
Nei primi secoli della nostra era immense migrazioni
interessarono le tribù e le confederazioni tribali che
abitavano l’Asia centrale e boreale. Enormi fiumane di
popolazione, sospinte da popoli più o meno civili discesi
38
dagli altipiani asiatici, probabilmente scacciati dalla
rapida essiccazione di questi altipiani, si riversarono
sull’Europa urtandosi fra loro e mescolandosi nel tentativo
di spingersi verso occidente.
Nel corso di queste migrazioni, durante le quali tante
tribù di origine diversa si trovarono riunite, le tribù primitive
che ancora esistevano nella maggior parte degli
insediamenti selvaggi d’Europa, dovettero necessariamente
scomparire. La tribù era basata sulla comunanza
di origine, sul culto di comuni antenati, ma non poteva
più esistere alcuna comunanza di origini in quelle
agglomerazioni che uscirono dal confuso miscuglio delle
migrazioni, delle scorribande, delle guerre inter-tribali,
durante le quali, qua e là, incominciava a scorgersi
l’origine della famiglia patriarcale, il nucleo che andava
formandosi intorno al possesso, che alcuni erano riusciti
ad accaparrarsi, delle donne conquistate o rapite alle
tribù vicine.
Gli antichi legami vennero così spezzati e sotto pena
di dispersione (come avvenne, infatti, per molte tribù
ormai scomparse dalla storia) nuovi legami dovevano
sorgere. Ed essi sorsero. Furono trovati nel possesso
comune della terra, cioè del territorio sul quale una certa
agglomerazione aveva finito per insediarsi.
Il possesso comune di un certo territorio – di valli e
di colline – divenne la base di un nuovo accordo. Gli dei
degli antenati avevano ormai perduto il loro significato,
gli dei locali, della vallata, del fiume, della foresta, diedero
la consacrazione religiosa alle nuove agglomerazioni
sostituendo le credenze della tribù primitiva. Più
tardi il cristianesimo, sempre pronto ad adattarsi alle
sopravvivenze pagane, ne fece dei santi locali.
La comunità di villaggio, composta in parte o interamente
di famiglie distinte – unite tutte però dal possesso
comune della terra – divenne per i secoli che seguirono
il necessario elemento di congiunzione. [...]
La comunità di villaggio si componeva, come si com-
39
pone ancora, di famiglie distinte. Ma le famiglie di uno
stesso villaggio possedevano la terra in comune. Esse la
consideravano come loro patrimonio comune e la ripartivano
in base all’estensione delle famiglie, ai loro bisogni
e alle loro forze. Centinaia di milioni di uomini,
nell’Europa orientale, nelle Indie, a Giava ecc., vivono
ancora oggi sotto questo regime, che è lo stesso stabilito
liberamente dai contadini russi quando, in epoca recente,
lo Stato ha loro permesso di occupare l’immenso territorio
della Siberia. [...]
In tutti i suoi affari la comunità di villaggio era
sovrana. L’usanza locale faceva legge e l’assemblea plenaria
di tutti i capi di famiglia, uomini e donne, era il
giudice – il solo giudice – in materia civile e penale.
Quando un abitante ne «querelava» un altro, piantava
il suo coltello nel luogo dove di regola la comunità si
riuniva, e questa doveva «emettere la sentenza» secondo
il costume locale, dopo che il fatto contestato dalle
due parti fosse stato chiarito dai giudici.
Sarebbe veramente lungo indicare tutto ciò che questa
fase offre di interessante. Basterà ricordare che tutte
le istituzioni di cui gli Stati si impadronirono più tardi
a vantaggio delle minoranze, tutte le nozioni di diritto
che troviamo (mutilate a vantaggio delle minoranze)
nei nostri codici, nonché tutte le forme di procedura
giudiziaria che offrono garanzie per l’individuo, ebbero
la loro origine nella comunità di villaggio. Così, quando
crediamo di aver fatto un grande progresso introducendo,
ad esempio, la giuria, non abbiamo fatto altro che
riportare alla luce un’istituzione dei barbari, dopo averla
modificata a vantaggio delle classi dominanti. Il
diritto romano non fece che sovrapporsi al diritto consuetudinario.
Nello stesso tempo si andava sviluppando il sentimento
di unità nazionale per mezzo delle grandi federazioni
di libere comunità di villaggio.
Fondata sul possesso e, spessissimo, sulla coltivazione
in comune della terra, sovrana come giudice e come
legislatore del diritto consuetudinario, la comunità di
40
villaggio rispondeva a una buona parte dei bisogni
dell’essere sociale. Ma molti di questi bisogni restavano
ancora da soddisfare. Ora, lo spirito dell’epoca non era
portato a fare appello al governo non appena un nuovo
bisogno si faceva sentire; al contrario, tendeva a prendere
autonomamente l’iniziativa per unirsi, federarsi,
creare un’intesa, grande o piccola, allargata o ristretta,
che rispondesse a questo bisogno. La società di allora si
trovava letteralmente ricoperta da una rete di patti di
fratellanza, di cooperazioni per il mutuo appoggio, di
«congiurazioni», sia nel villaggio che fuori, nella federazione.
[...]
L’arbitraggio delle dispute era diventata un’istituzione
profondamente radicata, una pratica giornaliera;
malgrado e contro i vescovi e i reucci nascenti che
avrebbero voluto che ogni disputa venisse portata
davanti a loro o davanti ai loro emissari per approfittare
della fred, un’ammenda pagata dal villaggio d’origine
dei violatori della pace pubblica.
Con il tempo, centinaia di villaggi si riunirono in
potenti federazioni – germi delle nazioni europee – che
sottoscrissero un patto per mantenere la pace interna e
difendere reciprocamente il loro territorio considerato
come un patrimonio comune. Ancor oggi è possibile studiare
queste federazioni dal vivo in seno alle tribù mongole,
ugro-finniche, malesi. [...]
Lungi dall’essere quella bestia sanguinaria che si è
voluto dipingere allo scopo di convalidare la necessità
del potere, l’uomo ha sempre amato la tranquillità e la
pace. Più battagliero che feroce, egli di norma preferisce
il suo bestiame e la sua terra al mestiere delle armi.
È per questo che non appena le grandi migrazioni barbariche
hanno cominciato a stabilizzarsi, non appena le
orde e le tribù hanno cominciato a insediarsi nei loro
rispettivi territori, si è assistito all’attribuzione dei
compiti di difesa territoriale contro nuove possibili
invasioni di altri immigranti a particolari individui, i
quali iniziano ad arruolare piccole bande di avventurieri,
di uomini agguerriti o di briganti, mentre la gran
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massa degli abitanti continua ad allevare il bestiame e
a coltivare il suolo. Questi difensori cominciano ben
presto ad accumulare ricchezze: prestano cavalli e ferro
(allora costosissimi) al povero, asservendolo; si costituiscono
così i primi embrioni del potere militare.
D’altra parte, la tradizione – che fa legge – viene a
poco a poco dimenticata dalla maggior parte degli individui.
Resta appena qualche vecchio che ha conservato
nella memoria le strofe e i canti che raccontano i «precedenti
» di cui si compone la legge consuetudinaria, e li
recita nei giorni delle grandi feste davanti alla comunità
riunita. E così, a poco a poco, in alcune famiglie si
forma una tradizione trasmessa da padre in figlio: quella
di ritenere a memoria quei canti e quei versetti, di
conservare insomma la «legge» nella sua purezza. Presso
queste famiglie si recano gli abitanti del villaggio per
giudicare le loro questioni più difficili, soprattutto
quando due villaggi o due confederazioni si rifiutano di
accettare le decisioni degli arbitri scelti al loro interno.
L’autorità di principi e re è già in germe in queste
famiglie, e più approfondisco lo studio delle istituzioni
di quell’epoca, più mi accorgo che la conoscenza delle
leggi consuetudinarie ha contribuito molto più alla
costituzione di questa autorità che non la forza delle
armi. L’uomo si è lasciato sottomettere più dal desiderio
di punire secondo la «legge» che per diretta conquista
militare. Infatti la prima «concentrazione di potere
», il primo accordo reciproco a fini di dominio, è stato
quello tra il giudice e il capo militare, accordo che viene
fatto contro la comunità di villaggio. Un solo uomo riveste
queste due funzioni, circondandosi di uomini armati
per fare eseguire le decisioni giudiziarie, fortificandosi
nel suo ridotto, accumulando per sé e per la propria
famiglia le ricchezze dell’epoca – cereali, bestiame, terra
– ed estendendo a poco a poco il suo dominio sugli
abitanti del circondario.
L’intellettuale di quel tempo, cioè lo stregone o il prete,
non tarda a dargli il suo appoggio e a condividerne il
dominio; oppure, unendo la forza della lancia al suo
42
temuto potere di mago, se ne impadronisce per proprio
conto.
Bisognerebbe dilungarsi moltissimo su questo argomento,
trattandosi di un soggetto pieno di nuovi insegnamenti
che ci fa comprendere come degli uomini liberi
diventino gradatamente dei servi obbligati a lavorare
per il padrone, laico o religioso, del castello; come
l’autorità si costituisca man mano al di sopra dei villaggi
e delle borgate; come i contadini si ribellino lottando
contro questa dominazione crescente, ma come le loro
lotte si infrangano contro le robuste mura del castello,
contro gli uomini ricoperti di ferro che lo difendono.
Sarà sufficiente dire che, verso il X e l’XI secolo,
l’Europa avanzava in pieno verso la costituzione di quei
regimi barbarici, come oggi se ne scoprono nel cuore
dell’Africa, o di quelle teocrazie, come si conoscono studiando
la storia dell’Oriente. Tutto ciò non avvenne
ovviamente in un giorno, ma i germi dei piccoli reami e
delle piccole teocrazie già esistevano e si andavano
affermando sempre più.
Fortunatamente lo spirito barbaro – scandinavo, sassone,
celtico, germanico, slavo – che aveva spinto gli
uomini durante sette o otto secoli a cercare la soddisfazione
dei loro bisogni nell’iniziativa individuale e nella
libera intesa delle fratellanze e delle gilde, fortunatamente,
dicevamo, questo spirito sopravviveva nei villaggi
e nelle borgate. I barbari si lasciavano dominare,
lavoravano per il padrone, ma il loro spirito di libera
intesa non si era ancora lasciato corrompere. Le loro
fratellanze erano più che mai vive e le crociate non avevano
fatto altro che risvegliarle e svilupparle in tutto
l’Occidente.
Fu allora, tra l’XI e il XII secolo, che la rivoluzione dei
Comuni urbani sorti dall’unione tra la comunità di villaggio
e le fratellanze – rivoluzione che lo spirito federativo
dell’epoca preparava da lungo tempo – scoppiò
con mirabile accordo.
Questa rivoluzione, che la maggior parte degli storici
accademici preferisce ignorare, salvò l’Europa dalla
43
minaccia che gravava su di essa: arrestò l’evoluzione
dei regimi teocratici e dispotici, nei quali la nostra
civiltà avrebbe probabilmente trovato la propria fine.
Infatti, dopo alcuni secoli di pomposo sviluppo, essa
sarebbe stata affossata come affossate furono le civiltà
mesopotamica, assira e babilonese. Questa rivoluzione
schiuse invece una nuova fase di vita: la fase dei liberi
Comuni.
Si capisce facilmente perché gli storici moderni, educati
allo spirito romano e preoccupati di far risalire le
origini di tutte le istituzioni a Roma, stentino tanto a
capire lo spirito del movimento comunalista del XII
secolo. Questo movimento fu una forte affermazione
dell’individuo, che giunse a costituire la società per
mezzo della libera federazione di uomini, villaggi e
città. Esso fu anche un’assoluta negazione dello spirito
unitario e accentratore romano, con il quale si cerca
ancor oggi di spiegare la storia nel nostro insegnamento
universitario. Questo movimento non si ricollega ad
alcun personaggio storico di particolare rilievo né ad
alcuna istituzione centralizzata. Fu uno sviluppo naturale,
proprio, come la tribù e la comunità di villaggio, a
una certa fase dell’evoluzione umana e non a questa
nazione o a quella regione. [...]
La vittoria dello Stato sui Comuni e sulle istituzioni
federative medievali non fu tuttavia immediata. Vi fu
anzi un momento in cui tale vittoria fu così minacciata
da sembrare del tutto incerta.
Un immenso movimento popolare – religioso quanto
a forma ed espressione, ma sostanzialmente egualitario
e comunista quanto ad aspirazioni – si produsse nelle
città e nelle campagne dell’Europa centrale. [...]
Nato nelle città, questo movimento si estese ben presto
nelle campagne. I contadini si rifiutavano di obbedire
a chiunque e montando una vecchia scarpa su di una
picca, a guisa di bandiera, riprendevano le terre ai
signori, spezzavano i legami di servitù, scacciavano pre-
44
te e giudice e si costituivano in libero Comune. Solo
ricorrendo al rogo, alla ruota e alla forca, al massacro di
centinaia di migliaia di contadini compiuto in pochi
anni, il potere regale o imperiale, alleato della Chiesa
papista o riformata – giacché Lutero incitava al massacro
dei contadini ancor più violentemente dello stesso
papa – mise fine a questo movimento che aveva per un
certo periodo minacciato la formazione degli Stati
nascenti.
Nato dall’anabattismo popolare, il riformismo luterano
massacrò il popolo insieme allo Stato e schiacciò il
movimento dal quale aveva avuto origine. I resti di
quell’immensa ondata si rifugiarono nelle comunità dei
«Fratelli Moravi», che a loro volta furono, circa un secolo
dopo, distrutte dalla Chiesa e dallo Stato. [...]
Lo Stato ormai aveva messo al sicuro la propria esistenza.
Il legislatore, il prete, e il signore-soldato, riunitisi
in alleanza solidale intorno al trono, potevano, d’ora
in avanti, compiere la loro opera di distruzione.
Sono moltissime le menzogne su questo periodo accumulate
dagli storici stipendiati dallo Stato.
Abbiamo tutti appreso a scuola, ad esempio, che lo
Stato avrebbe reso il grande servizio di costruire, sulle
rovine della società feudale, le unioni nazionali, rese
precedentemente impossibili dalle rivalità cittadine.
L’abbiamo imparato a scuola e quasi tutti l’abbiamo
continuato a credere anche in età adulta. Oggi invece
arriviamo a capire che, malgrado tutte le loro rivalità,
le città medievali avevano lavorato, durante quattro
secoli, a costruire queste unioni per mezzo della federazione
volontaria liberamente accettata, e in pratica vi
erano riuscite.
La Lega lombarda, ad esempio, comprendeva le città
dell’Alta Italia e aveva la sua cassa federale custodita a
Genova e a Venezia. Altre federazioni si ritrovavano
per tutta l’Europa, come la Lega toscana, la Lega renana
(che comprendeva sessanta città), le federazioni della
Westfalia, della Boemia, della Serbia, della Polonia,
delle città russe. Nello stesso tempo l’unione commer-
45
ciale della Lega Anseatica comprendeva le città scandinave,
tedesche, polacche, russe e di tutto il bacino del
Mar Baltico. Vi erano già in tali unioni tutti gli elementi
di larghe agglomerazioni umane liberamente organizzate.
La prova vivente di tali raggruppamenti la si può
vedere in Svizzera. L’unione, in questo Paese, si
affermò dapprima fra le comunità di villaggio (i vecchi
cantoni), non diversamente da come si costituì, nello
stesso periodo, anche in Francia, nel lionese. E poiché
in Svizzera la separazione tra la città e il villaggio non
fu mai così profonda come nelle lontane città commerciali,
accadde che le città diedero man forte all’insurrezione
dei contadini (nel XVI secolo), facendo in modo che
l’unione risultasse più forte e si mantenesse fino ai
giorni nostri.
Ma lo Stato, per il suo stesso principio, non può tollerare
la federazione libera, che rappresenta una cosa
orrenda per l’uomo di legge: «uno Stato nello Stato». Lo
Stato non può riconoscere un’unione liberamente accettata
che funzioni nel suo seno, esso non riconosce che
sudditi, per cui soltanto lo Stato, insieme alla Chiesa,
può accampare il diritto di servire da unione tra gli
uomini. Di conseguenza, lo Stato doveva per forza
distruggere le città basate sull’unione diretta tra i cittadini:
doveva abolire ogni unione nella città, abolire la
città stessa, e sostituire infine al principio federativo il
principio di sottomissione e di disciplina. È questa la
sostanza stessa dello Stato, che senza tale principio cesserebbe
di esistere.
Il XVI secolo – secolo di massacri e di guerre – si riassume
interamente in questa lotta dello Stato nascente
contro le città libere e le loro federazioni. Le città vengono
assediate, prese d’assalto, saccheggiate, e i loro
abitanti decimati ed espulsi.
Lo Stato ha riportato la vittoria su tutta la linea, ed
eccone le conseguenze. Nel XV secolo l’Europa era piena
di città prospere, i cui artefici – muratori, tessitori,
cesellatori – producevano meravigliose opere d’arte, le
46
cui università ponevano le fondamenta della scienza, le
cui carovane percorrevano i continenti, i cui navigli toccavano
tutti i mari e i fiumi.
Due secoli dopo resta ben poco di tutto questo. Città
che erano arrivate fino a cinquanta o centomila abitanti,
che avevano posseduto – come Firenze – più scuole e
più letti d’ospedale per abitante di quelli oggi posseduti
da città meglio fornite, sono diventate borghi in rovina.
Dopo averne massacrato ed espulso gli abitanti, lo Stato
si è impadronito delle loro ricchezze. L’industria, sotto
la minuziosa tutela dei funzionari dello Stato, si spegne.
Il commercio muore. Le strade stesse, che una volta
collegavano queste città tra loro, nel XVII secolo
diventano assolutamente impraticabili.
Lo Stato è la guerra, e le guerre devastano l’Europa,
finendo di distruggere le città che lo Stato non ha
distrutto direttamente.
47

II
Al nodo storico cruciale della Rivoluzione francese
Kropotkin dedica anni intensi di studio che alla fine
producono un’opera di notevole rilievo: La Grande Rivoluzione.
In questo testo l’anarchico russo delinea contemporaneamente
la sua interpretazione storica del
1789 e la sua concezione di rivoluzione. Nella ricostruzione
kropotkiniana della Rivoluzione francese possiamo
osservare la preminenza delle masse anonime –
soprattutto contadine – nei confronti delle singole personalità
storiche, la subordinazione di ogni forma di soggettività
politica all’emergenza oggettiva della corale
socialità dal basso e dunque la supremazia della dimensione
collettiva rispetto a quella individuale; inoltre, la
concreta e strutturale tendenza del mutuo appoggio
manifestatasi attraverso la domanda prioritaria dell’uguaglianza
sociale, la quale risulta più profonda e
significativa della spinta ideale verso la libertà politica.
In conclusione, la rivoluzione francese costituisce per
Kropotkin la riflessione storica fondamentale da cui
partire per studiare e costruire l’azione rivoluzionaria
futura.
Secondo Kropotkin dal 1789 non sono scaturite molteplici
rivoluzioni (aristocratica, costituzionale, girondina,
giacobina), come è stato affermato dalle varie storio-
49
grafie liberali, socialiste e democratiche, ma una sola
rivoluzione, precisamente la Grande Rivoluzione, che
nel suo moto progressivo ha cercato la propria verità nel
fondo spontaneo, popolare, comunista e anarchico che
ha attraversato fin dall’inizio lo stesso evento rivoluzionario.
Questo giudizio costituisce la chiave di volta dell’interpretazione
kropotkiniana della Rivoluzione francese:
il «fondo» e l’«essenza» di questa rivoluzione non
appartengono veramente alla borghesia, che è stata
rivoluzionaria suo malgrado. La classe borghese è stata
trascinata dall’ondata popolare, alla quale ha cercato di
opporre la moderazione del costituzionalismo monarchico.
La svalutazione della volontà rivoluzionaria della
borghesia attraversa tutta la ricostruzione storica
dell’anarchico russo, che tende pertanto a vedere anche
nelle conquiste del liberalismo politico l’effetto di una
spinta più grande e possente: la lotta popolare per il
comunismo, nella forma ancora rozza della semplice,
diretta distribuzione egualitaria dei beni.
L’opera kropotkiniana ha influenzato largamente il
pensiero rivoluzionario contemporaneo. Lenin, ad esempio,
l’apprezzava molto. Ancora nel 1970 ne è stata tirata
in Unione Sovietica un’edizione di 43.700 copie. Nella
storiografia di sinistra del secondo dopoguerra La
Grande Rivoluzione ha avuto ulteriori echi. Nelle opere
di Daniel Guérin (La lutte de classe sous la Première
République 1793-1797 e Bourgeois et bras nus 1793-
1795) si può ad esempio ravvisare la ripresa di molte
intuizioni dell’anarchico russo.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’antologia
La società aperta, a cura di Herbert Read, nella
traduzione (rivista) di Annamaria Savegnago.
50
LA RIVOLUZIONE FRANCESE
Due grandi correnti prepararono e fecero la Rivoluzione
francese. Una, la corrente delle idee, il prorompere
di nuove idee sulla riorganizzazione politica dello
Stato, proveniva dalla borghesia. L’altra, la corrente
dell’azione, proveniva dalle masse popolari, dai contadini
e dai proletari delle città, che volevano ottenere
miglioramenti immediati e tangibili della loro condizione
economica. E quando queste due correnti si incontrarono
in un obiettivo inizialmente comune, quando
praticarono per un certo periodo un appoggio mutuo, il
risultato fu la rivoluzione.
I filosofi del XVIII secolo avevano già da tempo cominciato
a scalzare le fondamenta delle società civili
dell’epoca, dove il potere politico e una parte immensa
delle ricchezze apparteneva all’aristocrazia e al clero,
51
mentre la gran massa del popolo altro non era se non la
bestia da soma delle classi al potere. Proclamando la
sovranità della ragione, predicando la fiducia nella
natura umana e dichiarando che quest’ultima, pur corrotta
dalle istituzioni che nel corso della storia avevano
ridotto l’uomo in servitù, avrebbe ciononostante riacquisito
tutte le sue qualità una volta riconquistata la
libertà, questi filosofi avevano aperto nuovi orizzonti
all’umanità. Decretando l’uguaglianza di tutti gli uomini,
senza distinzione di nascita, chiedendo a ogni cittadino,
fosse egli re o contadino, obbedienza alla legge,
che si suppone esprima la volontà della nazione quando
è stata emanata dai rappresentanti del popolo, e infine
chiedendo la libertà di contratto tra uomini liberi, nonché
l’abolizione delle servitù feudali, e formulando tutte
queste richieste, collegate tra loro dal metodo e dallo
spirito sistematico caratteristici del pensiero francese, i
filosofi avevano senza dubbio preparato, almeno nelle
menti degli uomini, la caduta del vecchio regime.
Questo da solo, tuttavia, non sarebbe stato sufficiente
a provocare la rivoluzione. Bisognava ancora passare
dalla teoria all’azione, dal concepire un ideale nella propria
immaginazione al metterlo in pratica nei fatti. E
ciò che interessa oggi da un punto di vista storico sono
le circostanze che, in un dato momento, resero possibile
alla nazione francese di fare questo sforzo: dare inizio
alla realizzazione dell’ideale. [...]
La rivoluzione è un cambiamento rapido, nello spazio
di pochi anni, di istituzioni che ci avevano messo dei
secoli a mettere radici nel suolo e che sembravano tanto
solide e immutabili che persino i più accesi riformatori
a malapena osavano attaccarle nei loro scritti. È la
caduta, lo sgretolarsi in un breve lasso di tempo di tutto
ciò che fino a quel momento costituiva l’essenza stessa
della vita sociale, religiosa, politica ed economica di una
nazione. È il sovvertimento delle idee acquisite e delle
nozioni condivise sulle complesse relazioni tra le varie
componenti dell’insieme umano.
È infine il fiorire di concezioni nuove, egualitarie, nei
52
rapporti tra cittadini, concezioni che ben presto diventano
realtà e cominciano così ad espandersi tra le
nazioni vicine, sconvolgendo il mondo e consegnando
all’epoca successiva le sue parole d’ordine, i suoi problemi,
la sua scienza, le sue linee di sviluppo economico,
politico e morale.
Per arrivare a un risultato di tale importanza, perché
un movimento assuma le proporzioni di una rivoluzione
(come successe in Inghilterra nel 1648 e nel 1688
e in Francia nel 1789 e nel 1793), non è sufficiente che
un movimento di idee, non importa quanto radicate, si
manifesti tra le classi colte; e non è sufficiente che le
rivolte, non importa quanto frequenti o estese, si producano
in seno al popolo. È necessario che l’azione rivoluzionaria
proveniente dal popolo coincida con il movimento
di pensiero rivoluzionario proveniente dalle classi
colte. Deve, cioè, esserci un’unione dei due. [...]
Eppure la storia di questo doppio movimento è ancora
da scrivere. La storia della Grande Rivoluzione francese
è stata scritta e riscritta innumerevoli volte e da
molti punti di vista differenti; ma sino a questo momento
gli storici si sono dedicati a raccontare soprattutto la
storia politica, la storia delle conquiste della borghesia
a scapito del partito della Corte e di quanti difendevano
le istituzioni della vecchia monarchia. Così, conosciamo
molto bene il risveglio del pensiero che precede la rivoluzione.
Conosciamo i princìpi che dominarono durante
la rivoluzione e che si tradussero nella sua opera legislativa.
Siamo estasiati davanti alle grandi idee che
lanciò in tutto il mondo e che il XIX secolo ha poi cercato
di realizzare nei Paesi civili. In breve, la storia parlamentare
della rivoluzione, le sue guerre, la sua politica
e la sua diplomazia, sono state studiate e raccontate in
tutti i particolari. Ma la storia popolare della rivoluzione
rimane ancora da fare. La parte avuta nella rivoluzione
dal popolo delle campagne e delle città non è mai
stata studiata e narrata nella sua interezza. Delle due
correnti che fecero la rivoluzione, la corrente del pensiero
è conosciuta, ma l’altra, quella dell’azione popolare,
53
non è stata ancora nemmeno abbozzata.
Sta a noi, i discendenti di quelli che i contemporanei
chiamavano gli «anarchici», studiare questa corrente
popolare evidenziandone quantomeno i tratti essenziali.
[...]
Nei villaggi, fu la Comune dei contadini a reclamare
l’abolizione dei tributi feudali e a ratificare il rifiuto di
continuare a pagarli; fu la Comune a riprendere ai proprietari
terrieri quelle terre che precedentemente erano
comuni, a resistere ai nobili, a lottare contro i preti, a
proteggere i patrioti e più tardi i sans-culottes, ad arrestare
i nobili emigrati che tornavano o il re che scappava.
Nelle città, fu la Comune municipale a ricostruire
ogni aspetto della vita, ad arrogarsi il diritto di scegliere
i giudici, a modificare di propria iniziativa la ripartizione
delle tasse e, più tardi, seguendo gli sviluppi della
rivoluzione, a divenire l’arma dei sans-culottes nella
loro lotta contro la monarchia e i cospiratori monarchici
e contro gli invasori tedeschi. In tempi ancora successivi,
nell’Anno II della Repubblica, furono sempre le
Comuni che si assunsero il compito di redistribuire le
ricchezze.
E, come ben sappiamo, fu la Comune di Parigi a
detronizzare il re e a divenire, dopo il 10 agosto, il
nucleo reale, la vera forza della rivoluzione, che manterrà
il proprio vigore soltanto fino a quando la Comune
sopravviverà.
L’anima della Grande Rivoluzione fu dunque nelle
Comuni, e senza questi focolai sparsi su tutto il territorio,
la rivoluzione non avrebbe mai avuto la forza di
abbattere il vecchio regime, di respingere l’invasione
tedesca e di rigenerare la Francia.
Sarebbe però sbagliato rappresentarsi le Comuni di
quel tempo come i moderni corpi municipali ai quali i
cittadini, dopo pochi giorni di eccitamento dovuto alle
elezioni, ingenuamente affidano l’amministrazione di
54
tutti i propri affari, senza occuparsi più di niente. La
folle fiducia nel governo rappresentativo che caratterizza
la nostra epoca non esisteva durante la Grande
Rivoluzione. La Comune nata dai movimenti popolari
non si separerà mai dal popolo. Attraverso i suoi
«distretti», «sezioni» o «tribù», costituiti come altrettanti
organi di amministrazione popolare, rimarrà del
popolo; ed è appunto questo che darà la forza rivoluzionaria
a tali organismi.
Dal momento che è l’organizzazione e la vita dei
«distretti» e delle «sezioni» di Parigi che sono meglio
conosciute, sarà appunto degli organismi di questa città
che parleremo, tanto più che studiando la vita delle
«sezioni» parigine impariamo a conoscere con buona
approssimazione anche la vita delle migliaia di Comuni
della provincia.
Fin dall’inizio della rivoluzione, ma già da quando gli
eventi avevano spinto Parigi a prendere l’iniziativa alla
vigilia del 14 luglio, il popolo, con la sua meravigliosa
attitudine per l’organizzazione rivoluzionaria, si stava
già organizzando in vista della lotta che avrebbe dovuto
sostenere, e della quale sentì immediatamente l’importanza.
[...]
Dopo la presa della Bastiglia, vediamo subito i
distretti agire come organi riconosciuti dell’amministrazione
municipale. [...]
Fu per mezzo dei distretti che, d’allora in poi, Danton,
Marat e tanti altri furono messi nella possibilità di
ispirare le masse popolari parigine con il soffio della
rivolta; e fu così che le masse si abituarono a fare a
meno dei corpi rappresentativi e cominciarono a mettere
in pratica l’autogoverno.
Immediatamente dopo la presa della Bastiglia, i
distretti avevano ordinato ai loro delegati di preparare,
d’accordo con il sindaco di Parigi, Bailly, un piano di
organizzazione municipale che doveva poi essere nuovamente
sottoposto ai distretti. Ma in attesa di questo
schema, i distretti andarono avanti allargando la sfera
delle proprie funzioni a seconda delle necessità.
55
Quando l’Assemblea nazionale cominciò a discutere
l’ordinamento municipale, lo fece, com’era logico aspettarsi
da un corpo così eterogeneo, con un’esasperante
lentezza. «Dopo due mesi», dice Lacroix, «il primo articolo
del nuovo piano municipale doveva ancora essere
scritto» [Actes, t.II, p.XIV]. Si comprende bene come
«questi ritardi sembrassero sospetti ai distretti», e da
questo momento cominciò a manifestarsi verso l’Assemblea
dei rappresentanti della Comune un’ostilità sempre
più marcata di una parte dei suoi rappresentati.
Ma quello che è importante notare è che, mentre cercavano
di dare una forma legale al governo municipale, i
distretti cercavano al contempo di mantenere la propria
indipendenza. Essi cercavano l’unità d’azione, ma non
sottomettendosi a un comitato centrale, bensì all’interno
di una confederazione.
«Lo spirito espresso dai distretti [...]», scrive ancora
Lacroix [Actes, t.II, pp.XIV-XV], «è caratterizzato al contempo
da un forte sentimento di unità comunalista e da
una tendenza non meno forte verso l’autogoverno. […]
Parigi non vuol essere una federazione di sessanta
repubbliche, ognuna delle quali ritagliata a caso in un
proprio territorio: la Comune è una, è composta
dall’insieme di tutti i suoi distretti [...]. Non si trova un
solo esempio di un distretto che pretenda di vivere
appartato dagli altri [...]. Ma accanto a questo principio
assodato, se n’è manifestato un altro [...], e cioè che la
Comune deve legiferare e amministrare se stessa quanto
più direttamente possibile; il governo rappresentativo
deve essere ridotto al minimo; tutto ciò che nella
Comune può essere fatto direttamente deve essere fatto
senza alcun intermediario, senza alcuna delega, o da
delegati ridotti al ruolo di mandatari con delega univoca,
che agiscono sotto il continuo controllo dei mandanti
[…]. È ai distretti, ai cittadini riuniti in assemblee
generali di distretto, che appartiene il diritto ultimo di
legiferare e di amministrare nella Comune».
Appare così evidente che i princìpi dell’anarchismo,
espressi qualche anno dopo in Inghilterra da William
Godwin, datano già dal 1789, e che essi hanno avuto
origine non in speculazioni teoriche ma nei fatti della
Grande Rivoluzione. [...]
Una nuova Francia è nata da questi quattro anni di
rivoluzione. Per la prima volta dopo secoli il contadino
mangia a sazietà. Raddrizza la schiena! Osa parlare!
Bisogna leggere i rapporti particolareggiati sul ritorno
di Luigi XVI a Parigi, quando viene riportato prigioniero
da Varennes, nel giugno del 1791, dai contadini, e chiedersi:
«Una cosa simile, un tale interesse per la cosa
pubblica, una tale devozione, e una totale indipendenza
di giudizio e di azione, potevano essere possibili prima
del 1789?». Stava nascendo una nuova nazione, proprio
come oggi vediamo nascere una nuova nazione in Russia
e in Turchia.
Ed è grazie a questa rinascita che la Francia sarà in
grado di reggere tutte le guerre della Repubblica e di
Napoleone, e di portare i princìpi della Grande Rivoluzione
in Svizzera, Italia, Spagna, Belgio, Olanda e Germania
sino ai confini della Russia. E quando, dopo tutte
quelle guerre, dopo aver visto le armate francesi arrivare
sino in Egitto e a Mosca, ci aspetteremmo di trovare
la Francia del 1815 impoverita, devastata, ridotta alla
miseria, troviamo invece che le campagne – persino
quelle dell’Est e del Giura – sono molto più prospere di
quello che erano ai tempi in cui Pétion, mostrando a
Luigi XVI le rive lussureggianti della Marna, gli chiese
se ci fosse in nessun’altra parte del mondo un regno più
bello di quello.
L’energia interiore accumulatasi nei villaggi è tale
che in pochi anni la Francia diventerà un Paese di contadini
benestanti, e ben presto si scoprirà che nonostante
tutto il sangue versato e le perdite subite, la
Francia, in termini di produttività, è il Paese più ricco
d’Europa. E la sua ricchezza non la ricava dalle Indie o
dal suo commercio con Paesi lontani, ma viene dal suo
suolo, dal suo amore per la terra, dalla sua abilità e
57
industriosità. È il Paese più ricco grazie alla redistribuzione
della sua ricchezza, ed è ancora più ricco grazie
alle possibilità che offre per il futuro.
È stato questo l’effetto della rivoluzione. E se uno
sguardo distratto non vede nella Francia di Napoleone
che l’amore per la gloria, lo storico si rende conto che
persino le guerre condotte dalla Francia in quel periodo
sono state intraprese per assicurare i frutti della rivoluzione,
ovvero le terre riprese ai signori, ai preti e ai possidenti,
e le libertà sottratte al dispotismo e alla monarchia.
Se la Francia è disposta in quegli anni a dissanguarsi
a morte soltanto per impedire a tedeschi, inglesi
e russi di imporre un Luigi XVIII, ciò è avvenuto perché
non vuole che il ritorno dei nobili emigrati possa significare
che i ci-devants, «quelli di prima», si riprendano le
terre bagnate dal sudore dei contadini e le libertà
bagnate dal sangue dei patrioti. E la Francia combatte
così bene per ventitré anni che, quando alla fine è
costretta a riammettere i Borboni, riesce a imporgli le
proprie condizioni: che i Borboni regnino pure, ma le
terre dovranno rimanere a coloro che se le sono riprese
dai signori feudali. E lo stesso Terrore bianco dei Borboni
non oserà toccarle. Il vecchio regime non sarà più
restaurato.
Questo è ciò che si conquista facendo una rivoluzione.
Ma ci sono altre cose che vanno evidenziate. Nella
storia dei popoli arriva un momento in cui s’impone un
mutamento profondo di tutta la vita nazionale. Nel
1789 il dispotismo monarchico e il feudalesimo stanno
morendo: non è più possibile mantenerli, bisogna
rinunciarvi.
A questo punto si aprono due vie: riforma o rivoluzione.
C’è sempre un momento in cui la riforma è ancora
possibile. Ma se non si è approfittato di quel momento,
se si è opposta un’ostinata resistenza alle esigenze del
nuovo modo di vivere, sino al punto di far scorrere il
sangue nelle strade, come il 14 luglio 1789, allora non
58
può esserci che la rivoluzione. E una volta che la rivoluzione
ha inizio, deve necessariamente svilupparsi sino
alle sue estreme conseguenze, cioè sino al punto più
alto che, in sintonia con lo spirito dei tempi, sarà capace
di raggiungere, pur se solo temporaneamente.
Se si rappresenta il lento progredire di un periodo di
evoluzione con una linea tracciata su un grafico, si constaterà
che questa linea gradualmente, anche se lentamente,
si innalza. Ma ecco che sopraggiunge una rivoluzione
e la linea s’impenna facendo un improvviso balzo
verso l’alto. In Inghilterra la linea mostrerebbe
un’impennata al tempo della Repubblica puritana di
Cromwell; in Francia s’impennerebbe al tempo della
Repubblica sans-culotte del 1793. Tuttavia, l’andamento
non può mantenersi a questo livello; tutte le forze
ostili si coalizzano contro e, dopo aver raggiunto questi
picchi, le repubbliche crollano e le linee scendono.
Segue la reazione e, quantomeno in politica, la linea del
progresso precipita. Ma a poco a poco si alza di nuovo e
quando torna la pace – nel 1815 in Francia e nel 1688
in Inghilterra – entrambi i Paesi si trovano a un livello
molto più alto di quello che avevano prima delle loro
rivoluzioni.
Si torna all’evoluzione, e la nostra linea ricomincia a
salire lentamente. Ma questa ascesa parte da un livello
molto più elevato di quello rilevato prima della turbolenza,
e quasi sempre la sua crescita sarà più rapida.
Questa è una legge del progresso umano, ed anche
del progresso individuale. E la storia della Francia
moderna, che passa attraverso la Comune per arrivare
alla Terza Repubblica, conferma proprio questa legge.
L’opera della Rivoluzione francese non si limita solo
a ciò che ha ottenuto e che ha realizzato in Francia, ma
la si ritrova anche nei princìpi che ha tramandato al
secolo successivo, nell’orientamento con cui ha contrassegnato
il futuro.
Una riforma è sempre un compromesso con il passato,
mentre il progresso ottenuto tramite una rivoluzione
è sempre una promessa di progresso futuro. Se la Gran-
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de Rivoluzione francese riassume in sé un secolo di evoluzione,
sarà poi lei a impostare il programma d’evoluzione
che segnerà il corso del XIX secolo. […]
I popoli si sforzano di realizzare nelle proprie istituzioni
l’eredità ricevuta dalla precedente rivoluzione.
Tutto ciò che essa non ha potuto mettere in pratica, tutte
le grandi idee messe in circolo durante quel periodo
turbolento ma che la rivoluzione non ha potuto o saputo
applicare, tutti i tentativi di ricostruzione sociologica
nati durante la rivoluzione, tutto questo costituirà il
contenuto dell’evoluzione che seguirà a tale rivoluzione.
A ciò si aggiungeranno le nuove idee cui questa evoluzione
darà vita quando cercherà di mettere in pratica il
programma ereditato dall’ultimo sommovimento. Poi,
una nuova grande rivoluzione avrà luogo in qualche
altra nazione, ed essa fisserà, a sua volta, i punti di
riferimento dell’epoca successiva.
È stato appunto questo il cammino della storia.
Due grandi conquiste, in effetti, hanno caratterizzato
il secolo seguito agli eventi del 1789-1793. Entrambe
hanno avuto la propria origine nella Rivoluzione francese,
che a sua volta portava avanti l’opera della Rivoluzione
inglese, ampliandola e rinvigorendola con tutto
il progresso fatto dopo che la borghesia inglese aveva
tagliato la testa al suo re trasferendone il potere al parlamento.
Queste due grandi conquiste sono l’abolizione
della servitù e l’abolizione dell’assolutismo, conquiste
che hanno conferito all’individuo libertà personali inimmaginabili
per il servo della gleba e per il suddito del
sovrano assoluto, ma che allo stesso tempo hanno portato
anche allo sviluppo della borghesia e del regime
capitalistico.
60
III
Il testo kropotkiniano più importante relativo alle
questioni metodologiche è La scienza moderna e l’anarchia,
uscito per la prima volta a Parigi nel 1913. L’opera
riassume i temi attinenti al rapporto fra anarchismo
e scienza e stabilisce il primato assoluto della conoscenza
e della ragione nel processo di emancipazione umana.
Kropotkin inserisce la tradizione anarchica nell’alveo
dell’Illuminismo, con l’intento di operare una rottura
radicale con la cultura storicistica e, in modo particolare,
con l’hegelismo. Egli vuole portare l’anarchismo
fuori dall’ambito della filosofia idealistica e, in generale,
fuori da ogni ascendenza vitalistica, mistica, irrazionale.
La critica alla dialettica hegeliana e marxista è, a
questo proposito, emblematica.
L’anarchismo, per non imboccare la strada inconcludente
della mistificazione del reale, deve rimanere saldamente
agganciato alla grande cultura razionalistica
nata con l’Illuminismo. Specificamente, l’identificazione
è fra il metodo anarchico e quello induttivo delle scienze
naturali. Lo scopo è quello di evidenziare, nell’accostamento
metodologico, la sostanziale analogia fra natura
e anarchia. In questo modo lo sperimentalismo scientifico
per il suo carattere di «apertura», di «modificabilità»,
per il suo costituzionale antidogmatismo svolge, in un
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certo senso, una funzione analoga a quella svolta dal
pluralismo all’interno del procedimento proprio dell’anarchismo.
L’analogia fra sperimentalismo e pluralismo
è data dalla comune natura di essere entrambi un
metodo regolativo più che costitutivo rispetto al problema
di una costruzione sociale e di un pari sviluppo
scientifico.
Kropotkin però non si limita ad una identificazione
attinente all’ambito metodologico, ma amplia tale identificazione
al campo più vasto dell’idea anarchica e del
concetto di natura, fondendo così scienza e anarchia in
una Weltanschauung di forte significato generalizzante.
A questo proposito Kropotkin fa coincidere il metodo
scientifico con la metodologia anarchica fondata sulla
coerenza logica ed etica fra mezzi e fini. L’adeguamento
dei mezzi ai fini vuol significare che la scienza deve
essere completamente al servizio di una volontà, di
un’idea. Se si considera come in questa metodologia si
evidenzia la dimensione più rivoluzionaria dell’anarchismo,
è possibile a questo punto vedere il senso di tale
coniugazione e dunque il tentativo di superare la stessa
concezione meramente deterministica dell’identificazione
fra scienza e anarchia. Il rapporto della necessaria
coerenza tra metodo e scopo ci dice infatti che i fini non
possono essere raggiunti che attraverso l’adeguamento
dei mezzi alla natura dei fini stessi. Ciò comporta un
intervento volontario e cosciente della mano rivoluzionaria
nella modificazione continua della prassi, un intervento
che non fa altro che rimandare ad una considerazione
fondamentale: e cioè che gli scopi – anche se estrapolati
da tendenze latenti del presente – devono essere
collocati volontariamente a dispetto di ogni contingenza.
Sono, in altri termini, immessi coscientemente nel processo
storico come obiettivi determinati.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
di Ginevra del 1913 de La scienza moderna e
l’anarchia.

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